Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Guerra S.p.A

Guerra S.p.A

di Enzo Modugno - 22/11/2006

 
Società per azioni belliche di lunga durata

«Guerra S.p.A» di Seymour Melman. Un classico del pacifismo che considera la guerra lo strumento usato per evitare la crisi economica

L'impero è in buone mani? C'è chi sostiene di sì, perché l'amministrazione Bush avrebbe condotto con eccezionale sangue freddo un'impresa difficile, evitando il crollo della borsa con l'operazione 11 settembre. Una gestione militare del ciclo economico che rimarrà nella storia economica degli Stati Uniti per la rapidità e l'efficacia dell'intervento su una crisi che aveva già raggiunto il 25 per cento di capacità produttiva inutilizzata, come nella crisi del '29. L'annuncio della guerra e l'enorme spesa militare hanno ridato vigore alla domanda, bloccando il precipitare della borsa e avviando la ripresa economica che dura tuttora.

Una gestione militare dell'economia che, d'altra parte, va avanti ininterrottamente almeno dalla seconda guerra mondiale. Ma affidare la politica economica al Pentagono, sostengono altri, potrebbe avere effetti indesiderati e rivelarsi controproducente. Potrebbe cioè l'enorme spesa pubblica militare perdere la sua efficacia di stimolo alla crescita. Seymour Melman, per esempio, ha indicato per anni nell'economia di guerra permanente la causa del declino industriale degli Stati Uniti e il suo libro appena uscito - Guerra S.p.A. (Città Aperta Edizioni, pp. 180, euro 15 ) -, scritto nel 2004 poco prima della sua scomparsa, è un approfondimento di questo tema.

Invece il Pil e Wall Street hanno continuato a crescere, almeno finora, e quindi queste tesi, per il momento, hanno più valore di avvertimento che capacità esplicativa. Sono tesi che considerano più la produzione che il ruolo della domanda, o non attribuiscono la deindustrializzazione all'avvento dell'informatica: ma soprattutto non preoccupano affatto né il presidente né il Congresso degli Stati Uniti, dove repubblicani e democratici approvano qualunque richiesta del Pentagono. Non solo ma, come rivela anche la Quadriennial Defence Review 2006, ci sono programmi di spese militari pluridecennali. Il recente attacco al Libano per esempio è diventato, nella versione ufficiale annunciata da George W. Bush, il «terzo fronte» della Guerra Globale al Terrorismo che dovrà durare venticinque anni: non un dato empirico dunque, ma un fenomeno che manifesta la sua essenza, un particolare che rivela un universale inesorabile. Gli universali sono sempre stati al servizio del dominio: il teologo medievale Abelardo (che non sottomise la fede alla ragione) li chiamò sermones, una buona definizione per i ripetuti annunci di questa Guerra Globale. Annunci che hanno il compito di allestire la scena per lo svolgersi dell'economia di guerra. questa guerra al terrorismo deve durare e molto. La durata, infatti, e non la vittoria determina il successo di queste guerre. Per questo è poco probabile che questo fronte in Libano, appena aperto e così promettente, venga richiuso. I soldati italiani dunque, secondo la classificazione della versione ufficiale, sono stati mandati al «terzo» fronte. Intanto per il «secondo» fronte in Iraq, il presidente Bush ha appena annunciato la possibilità di una durata «vietnamita» (11 anni). Questo perchè l'intera classe dirigente degli Stati Uniti, ossessionata dalla crisi del '29, sa da sessant'anni che la Borsa e il Pil, con gli annunci di guerra, tendono a crescere.

Melman invece rifiuta questa lettura e sostiene viceversa che l'enorme spesa militare sia responsabile del processo di deindustrializzazione, del pessimo stato delle infrastrutture, del trasferimento all'estero di un numero crescente di imprese. Insomma la spesa militare non sarebbe un sostegno al capitalismo, ma al contrario un peso che sottrae risorse al paese. E questo fa di Melman un riferimento per quella parte del movimento contro la guerra che si batte perché la spesa pubblica civile possa tornare a prevalere su quella militare, perché ritiene possibile battere il neoliberismo con una azione politica e riportare il capitalismo ad un altro New Deal. Invece la parte più radicale di questo movimento considera il neoliberismo come una conseguenza della fine della fabbrica fordista, che ha portato con sé la fine dell'economia mista e della spesa pubblica civile che le erano necessarie.

Ma il libro di Melman è importante per molti aspetti. Nella postfazione di Mario Pianta, che ha lavorato con lui alla Columbia University, si sottolinea l'importanza di Melman per ciò che riguarda il collegamento tra la protesta contro la guerra e la proposta di riconversione delle industrie militari, per aver saputo combinare la critica alla guerra con la critica al capitalismo, i movimenti con il controllo da parte dei lavoratori su cosa e come produrre. Una lezione profonda, conclude Pianta, di politica, pacifismo ed economia.

Il libro di Melman affronta inoltre un fenomeno già segnalato da Rosa Luxemburg alla fine dell'800, la necessaria collusione tra potere economico e potere politico per realizzare il militarismo: vi si sostiene quindi che oggi negli Stati Uniti un «capitalismo militare di stato» avrebbe ormai una vita autonoma e dominerebbe ogni aspetto della nazione americana, con una compenetrazione di management tra politica, economia e Pentagono.
Melman dunque collega direttamente la guerra all'economia degli Stati Uniti, è questa la sua lezione: Questo però significa che il militarismo Usa non è soltanto lo strumento di una politica di potenza che si possa fermare con le conferenze di pace, o con la maggiore presenza europea o con l'invio dei soldati italiani in Libano.

I movimenti contro la guerra si misurano invece con un capitalismo militare che domina l'economia degli Stati Uniti, e che pretende di dominare l'economia mondiale, di sovvertire le costituzioni, di limitare gli spazi di democrazia, di alimentare lo stato di tensione, di coinvolgere nelle operazioni di guerra altre nazioni come l'Italia: e di continuare a farlo per venticinque anni.