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Dersu Uzala. Il piccolo grande uomo della taiga

di Luca Redig - 24/11/2006



Dersu Uzala, scritto da Wladimir K. Arsen’ev, è il classico libro d’avventura che può essere letto come l’affascinante diario di una serie di viaggi di esplorazione oppure come un racconto di incontri. In entrambi i casi offre la possibilità di fare delle scoperte eccezionali: la prima è che l’autore è uno scrittore di razza; la seconda è che la natura è un tema di una bellezza misteriosa ed inesauribile. E si farà ancora una terza scoperta, segretissima questa, e del tutto privata: ciascuno si accorgerà di voler assomigliare (almeno un poco) a Dersu Uzala e persino di invidiarlo molto per la sua felicità naturale, nutrita di poesia e di religioso stupore. Una condizione per l’uomo moderno irrimediabilmente perduta.
E’ superfluo riportare qui le avventure e le peripezie delle varie spedizioni. Preme invece notare come la vera protagonista delle vicende sia la natura, con tutta la sua forza primordiale e generosa, che emerge dal paesaggio e negli animali, con le indimenticabili scene di caccia agli orsi, alle tigri e ai cinghiali. Di questa natura fa parte anche Dersu Uzala, che vive per così dire in simbiosi con essa e che nel suo elementare russo con i verbi all’infinito, chiama il fuoco, l’acqua e gli stessi animali con il termine “ljudi”, e cioè persone, gente. Egli è la poetica trascrizione di una religiosità primitiva e animistica in cui la natura si esprime sovrana, con la sua forza, la sua bellezza, la sua asprezza e talvolta la sua crudeltà.
L’amicizia tra l’esploratore-scrittore e la guida Dersu Uzala (che ha momenti di straordinaria e commovente intensità) nasce con la prima spedizione, in una circostanza di comune pericolo e finisce solo con la morte di Dersu Uzala, che ha rifiutato una comoda ospitalità nel centro cittadino di Chabarovsk per riprendere la libera via della taiga, dove verrà ucciso poco dopo, probabilmente a scopo di rapina.
Il libro riprende alcuni grandi temi dell’esistenza, come quello del rapporto tra l’uomo e la natura, quello dell’autenticità dei sentimenti (amicizia, solidarietà, amore, sgomento per la morte), quello della dimensione naturale della libertà, ed è tanto più attuale in un mondo come il nostro in cui il degrado ecologico e l’impoverimento morale minacciano l’uomo sempre più da vicino.
Non a caso, quando il libro apparve, lo scrittore Massimo Gorkij lo onorò e lo accompagnò con il suo più lusinghiero giudizio.Difatti scrisse all’autore che, a parte il valore scientifico del libro, che è indiscutibile e grandissimo, egli era rimasto colpito e affascinato dalla sua forza narrativa. E non a caso uno dei più grandi registi cinematografici contemporanei, il giapponese Akira Kurosawa, si è ispirato ad esso, aggiungendo alla poesia della nuda parola lo splendore e la poesia delle immagini.
Emblematico il primo incontro descritto da Vladimir K. Arsen’ev il suo compagno di spedizione Olent’ev, lui stesso e il cacciatore Dersu Uzala.
Quest’ultimo si era presentato in una fredda notte di autunno nel bivacco degli esploratori col rischio di essere scambiato per un orso affamato alla ricerca di prede.
Egli ci disse di non sparare perché era un uomo e non una belva; indossava una giubba di pelle di cervo e pantaloni dello stesso materiale. In testa aveva una specie di benda e calzava delle calzature di pelle di alce siberiano, sulla schiena un grosso zaino, in mano una vecchia carabina Berdan. Dersu Uzala, dopo che gli fu offerto da mangiare come era usanza della taiga, raccontò della sua vita. Ci si trovava alla presenza di un cacciatore primitivo che aveva passato la vita nella taiga. I mezzi per vivere se li procurava col fucile e barattava con i cinesi chiedendo tabacco, piombo e polvere in cambio di quello che cacciava. Il fucile l’aveva ricevuto in eredità dal padre.
Ci disse di avere cinquantatre anni, di non aver mai avuto una casa, di essere sempre vissuto all’aria aperta e che solo d’inverno si costruiva tenda di corteccia o di scorza di betulla. Quello che ricordava della sua infanzia erano un fiume, una capanna, il fuoco, il padre, la madre e la sorellina ma erano tutti morti da molto tempo. Aveva avuto anche una moglie e due figli che però erano morti di vaiolo.
Dersu ci raccontava delle sue cacce, dei suoi incontri con le tigri.
Una volta una tigre l’aveva attaccato ferendolo gravemente. La moglie lo aveva cercato per giorni interi, poi, scoperte le sue tracce, lo aveva trovato sfinito per la grande quantità di sangue che aveva perso. Finché non guarì fu la moglie ad andare a caccia.
Questo è lo splendido mondo arcaico siberiano dove i valori sono semplici e dove la malizia dell’uomo moderno non ha ancora contaminato il modo di intendere i rapporti di amicizia. Qui la natura incontaminata, con i suoi ritmi a volta lenti a volta feroci, domina incontrastata e gli uomini, che abitano quest’ambiente aspro, sono una parte del tutto e non si arrogano il ruolo di signori dell’universo circostante. Essi si integrano nella taiga e si amalgano nei suoi abitanti siano essi altri uomini o animali selvatici o elementi naturali quali l’acqua, il fuoco o il vento…
L’autore del libro, Vladmir K. Arsen’ev, fu un esploratore ed un etnografo di grande talento, ma fu, al tempo stesso, anche un artista per cui i diari e i racconti delle sue imprese finirono per trasformarsi quasi automaticamente in opere di appassionata lettura. Il suo libro più famoso, per il consenso che raccolse fra il pubblico e le favorevoli recensioni scritte dalla critica, fu, senza ombra di dubbio, “Dersu Uzala”, che prende il titolo dal nome di una fedelissima guida dell’autore, un uomo della natura che lo introdusse dentro le più segrete meraviglie del selvaggio ambiente delle grandi pianure dell’Asia interna, salvandogli più volte la vita, facendogli da compagno e da maestro nelle sue più importanti spedizioni.
Un personaggio indimenticabile, che il bellissimo film di Akira Kurosawa, cui è stato, inoltre, assegnato il Premio Oscar 1976, ha ormai collocato in una atmosfera di leggenda e di poesia.
Tutto ciò che è scritto in questo libro, così forte e così poetico, è ormai perduto per il cittadino; ed è, con uno sguardo di rimpianto e di nostalgia, che ci si accosta al racconto dell’amicizia tra l’autore e il piccolo uomo delle grandi pianure.