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Caravaggio

di Gianni Franceschetti - 24/11/2006

 

Da qualche tempo è invalsa la volontà di porre nelle grandi stazioni ferroviarie opere d’arte così da permettere al viaggiatore in attesa di vedere quadri o affreschi per nobilitare il suo spirito quasi con un saluto affettuoso di benvenuto. E’ accaduto nella stazione Santa Maria Novella di Firenze con il grande affresco di un pittore contemporaneo, a seguito della grande mostra sul Guercino ( Giovan Francesco Barbieri – Cento 1591-Bologna 1666), fatta a Roma Termini, che ora si prolunga con quella di alcuni capolavori di Michelangelo Merisi da Caravaggio ( Caravaggio 1573- Porto Ercole 1610), del quale si possono ammirare alcuni capolavori poco conosciuti perché provengono anche da Collezioni private e quindi difficilmente godibili.
Tra queste, in mostra alla stazione Termini di Roma fino al 31 gennaio 2007, è proposto, in prima mondiale, il quadro “ La chiamata dei santi Pietro e Andrea”, recentemente scoperto, che viene presentato al pubblico per la prima volta e giustamente a Roma, la città ove fu dipinto dal maestro lombardo intorno al 1600 e ora riportato alla luce, dopo secoli di oblio nella Royal Gallery di Hampton Court, dalla sagace ricerca di Maurizio Marini con la partecipazione dello storico dell’arte sir Denis Mahon.
La bellissima tela che Horace Walpole ha definito “Il più bel Caravaggio” è accompagnato da: “Cavadenti” proveniente dalla Galleria Palatina di palazzo Pitti di Firenze; dalla “Risurrezione di Lazzaro” e “L’Adorazione dei Magi” dal museo Regionale di Messina, una tela che permette di analizzare il periodo tardo di Caravaggio; e dal “San Giovannino alla fonte” e il “Sacrificio di Isacco” della Collezione Barbara Piasecka Johnson non accessibili al pubblico.
L’opera “La chiamata dei santi Pietro e Andrea”, prima d’ora era ritenuta una copia, ma quando Marini, supportato dalla conoscenza del fatto che già Orazio Gentileschi ( Pisa 1563-Londra 1639), pittore alla corte di Carlo I d’Inghilterra, amico e compagno di bravate del Caravaggio, lo aveva ricordato come il dodicesimo quadro che William Frizel aveva imbarcato a Napoli per consegnarli al re, si accorse che non era dipinto su di un’unica tela, cosa invece comune per i copisti, si incuriosì e sotto uno strato di carbone e olio cotto ne osservò la fattura e si adoperò a farlo ripulire. La pittura emersa non lasciava dubbi e fu quindi senza dubbi di sorta attribuita al Caravaggio.
Il quadro aveva subite varie vicissitudini tanto da perdere l’autografia e le connotazioni agiografiche e aveva mutato anche il titolo in “Tre apostoli e poi in “Tre pescatori” per la presenza dei pesci nella mano destra di Pietro, perché il sopravvenuto Anglicanesimo e il quadro non poteva più alludere alla “Ecclesia militans” né, tanto meno l’”Ecclesia Triumphans” impersonata dal quel papa di Roma che ormai in Inghilterra era divenuta figura assolutamente respinta.
L’agnizione di Marini però non si lasciò deviare da queste mutate nomenclature perché certi tratti dell’immagine la definivano proprio di quel Caravaggio la cui velocità nel dipingere anticipava addirittura il pensiero e rifulgeva sia nella composizioni che nei colori. Quindi Marini la sottopose al grande storico dell’arte e del Caravaggio, sir Denis Mahon che ritenuta valida la proposta dello scopritore e ne condivise l’intuizione o avallò la felice attribuzione.
Ma ora, la ricerca pervicace quanto difficoltosa del Marini, non si può a questo punto fermare perché, come afferma l’altra grande conoscitrice dell’opera del maestro lombardo, Mina Gregori, ben tre quarti dei molti ritratti dipinti da Caravaggio ancora non si sa dove siano finiti. L’esito trionfale di questo ritrovamento sarà di stimolo ai ricercatori, come lo è certamente per l’intelligente, caparbio ma profondo conoscitore della materia Maurizio Marini, cui la Storia dell’arte e l’umanità debbono essere grati per tanto dono, per continuare a cercare di riempire i tanti vuoti che ancora esistono sull’attività del grande Caravaggio.