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Dall'Africa: "lasciateci a noi stessi"

di wema.com - 07/11/2005

Fonte: wema.com

Nel 1990 per un chilo di riso un produttore senegalese guadagnava 20 centesimi, 15 anni dopo ne guadagna 13.
«Basta aiuti, lasciateci lavorare i nostri campi e guadagnare il giusto cambiando le regole del commercio internazionale».

NON VOGLIONO AIUTI DIRETTI, MA LA POSSIBILITÀ DI PRODURRE IL LORO CIBO INVECE DELLE PRIMIZIE PER I PAESI RICCHI

«Quando i riflettori dei vertici internazionali si spengono, G8, Wto, Nazioni unite, poco importa: noi torniamo ai nostri campi, dalle nostre famiglie, a tirare fuori il buono che c’è dalla terra tutti i giorni. Abbiamo imparato che se va avanti così, con gli aiuti o i proclami, per noi non cambia niente. Possiamo solo continuare a sfamare l’Africa con le nostre braccia, come abbiamo fatto fino ad oggi».

Ibrahima ha meno di quarant’anni e vive a Dagana, nella Vallée du Fleuve, in Senegal.
È tra i contadini africani che quest’anno, visto che al centro del vertice dei G8 c’era proprio il loro continente, ha partecipato per il suo villaggio alle azioni a Gleneagles del Roppa, la rete di oltre 60 organizzazioni contadine di 10 paesi dell’Africa occidentale che ha lanciato ai grandi della terra una sfida molto ambiziosa: «basta aiuti, abbiamo detto - spiega Ibrahima - lasciateci lavorare i nostri campi e guadagnare il giusto cambiando le regole del commercio internazionale».

Gli anziani di casa sua se lo ricordano quando, prima degli anni Sessanta, le famiglie occupavano le terre di riporto nella stagione secca, dopo la ritirata del fiume. «Ogni famiglia a quei tempi coltivava 4 o 5 ettari di miglio o sorgo, e nella stagione piovosa accanto al miglio seminavano i cereali africani, come souna e niébé e vivevamo bene».
Poi con gli anni Sessanta è arrivata, in quasi tutta l’Africa, la “rivoluzione verde”: le terre erano nazionalizzate, ogni contadino riceveva semi, fertilizzanti, pesticidi e la Compagnia nazionale comprava i raccolti a un prezzo basso ma ancora remunerativo, mentre incassava il prezzo del mercato internazionale.

A metà degli anni Ottanta, il dramma del debito: Fondo monetario internazionale e Banca mondiale hanno cominciato a concedere prestiti per lo sviluppo, ma solo a quegli Stati che privatizzavano scuola, servizi essenziali e le compagnie agricole.
«Ci hanno catapultato sul mercato senza rete - racconta Ibrahima -. Abbiamo dovuto cominciare a comprare da soli i semi, i pesticidi, i pochi fertilizzanti che riuscivamo a permetterci. Ci siamo indebitati perché i prezzi dei prodotti che vendevamo non hanno mai smesso di scendere, e gli intermediari, che comprano l’intera produzione ai piccoli contadini come me, che non hanno la capacità di vendere direttamente alle grandi compagnie agroalimentari, intascano quasi tutto il nostro guadagno».
Per un chilo di riso nel 1990 un produttore senegalese guadagnava 135 franchi africani, 20 centesimi di euro.
Oggi, raccogliendo lo stesso chilo di riso guadagna 90 franchi africani, 13 centesimi di euro.

Il piano per l’Africa
Il premier britannico Tony Blair ha voluto che l’attenzione del G8 2005 si concentrasse sull’Africa, il continente dimenticato. In circa sei mesi di lavoro la Commission for Africa istituita da Blair ha prodotto dettagliate raccomandazioni su come rimettere il continente africano sulla strada dello sviluppo.
Il rapporto s’intitola Il nostro interesse comune, 400 pagine elaborate da una commissione di 17 “saggi”, di cui 9 africani che raccomandano un cospicuo aumento degli aiuti (25 miliardi di dollari l’anno fino al 2010 e 50 miliardi dal 2010 al 2015), la cancellazione totale del debito estero dei paesi africani, la fine dei sussidi alle esportazioni per gli agricoltori americani ed europei.
Tutto ciò accompagnato da pratiche di “buon governo” e di lotta alla corruzione da parte dei leader africani. Il ghaneano Kingsley Y. Amoako, segretario esecutivo della Commissione economica delle Nazioni unite per l’Africa, commentando la questione della responsabilità condivisa, ha osservato che «questo nuovo rapporto fa un passo in avanti riconoscendo che anche il mondo sviluppato ha le sue brave responsabilità ed è parte dei problemi africani».
Richard Dowden, direttore del Royal Africa Society di Londra, si è detto colpito dal fatto che il rapporto Blair chiama in causa i paesi ricchi su alcune questioni quali il riciclaggio di denaro sporco in Africa, l’uso di tangenti, il furto delle risorse naturali, la rimozione delle barriere doganali e delle sovvenzioni all’agricoltura, le leggi sull’immigrazione, la vendita delle armi. Questo testo, proposto dalla presidenza inglese come base negoziale per il G8, è stato però seccamente respinto dai negoziatori degli altri paesi.

La Campagna per la riforma della Banca mondiale e Mani tese denunciano che il risultato dell’attesissimo vertice di Gleneagles è ampiamente inferiore alle attese sollevate. Gli impegni finanziari del G8 forniranno meno del 10 per cento della cancellazione totale del debito e meno del 20 per cento degli aiuti necessari per bandire la povertà dalla storia, come richiesto dall’oceanica manifestazione di Edimburgo.
Sorprendentemente, invece, i paesi del G8 hanno indurito la loro posizione sul commercio internazionale, dove non annunciano di voler introdurre protezioni o condizioni più favorevoli per i paesi poveri.

«Dopo aver sbandierato l’urgenza di intervenire per lo sviluppo dell’Africa ed aver fatto proprie le parole d’ordine delle manifestazioni della società civile, Tony Blair scodella un accordo che è un insulto ai poveri del pianeta», ha dichiarato Antonio Tricarico di Crbm.
«Dei 50 miliardi di aiuti in più, 20 riguardano impegni vecchi. E poi i fondi saranno erogati dal 2010, come se la povertà potesse attendere cinque anni» ha continuato Tricarico. Si conferma la clausola secondo cui un aumento degli aiuti per i paesi più poveri avverrà solamente se i conti pubblici lo permetteranno, come chiesto dall’Italia.
«Se si permettesse loro di crescere con regole commerciali eque e proteggere se necessario i loro giovani mercati, allora si uscirebbe davvero dal dramma dello sviluppo» - ha concluso Antonio Tricarico.

La trappola commerciale
«L’Africa non è la terra di disperazione che spesso raccontate voi giornalisti - contesta Ndiogou Fall, presidente di Roppa - perché, grazie a politiche adeguate di sviluppo e di sostegno, può nutrire se stessa come fa tutti i giorni, con il lavoro dei suoi contadini, che sono il 70 per cento dei lavoratori africani. Nonostante la spietata concorrenza internazionale, noi piccoli produttori dell’agricoltura familiare assicuriamo fino al 90 per cento dell’approvvigionamento alimentare delle nostre comunità».
Malgrado le condizioni climatiche difficili, le catastrofi naturali, i tanti conflitti, l’assenza di misure di protezione e di sostegno, tra il 1990 e il 2002 l’Africa ha aumentato la produzione agricola dal 20 all’80 per cento, più dell’America del Nord (dallo 0 al 20 per cento) o dell’Europa dell’Est che ha subìto una riduzione intorno al 50 per cento.
Ndjogou è un contadino del Mali, un paese che nell’epoca coloniale è stato considerato il più importante silos di materie prime agricole per la Francia. Purtroppo con l’indipendenza le cose non sono cambiate.
«Per disporre di un’entrata monetaria abbiamo dovuto sostituire le coltivazioni che ci nutrivano con quelle d’esportazione, destinate all’agrobusiness nei vostri paesi».
L’Africa occidentale si è ridotta, da forte esportatrice, a regione importatrice di prodotti alimentari. Dal 1993 al 2002 le importazioni di cereali sono cresciute del 60 per cento (per il resto del mondo l’aumento è stato del 18,2 per cento).

Qual è il rischio che si nasconde dietro le buone intenzioni di Gleneagles?
«L’agricoltura in Africa è un settore in forte espansione e un mercato alimentare che non può che crescere, soprattutto se le imprese dell’agrobusiness riusciranno a mettere le mani sull’affare dei semi, che oggi sono per l’80 per cento autoprodotti dai contadini, ma che potrebbero essere presto sostituiti da varietà biotech a pagamento. Altro colpo grosso sarà quello di buttare sul mercato occidentale sempre più prodotti africani a basso costo», spiega Antonio Onorati dell’ong italiana Crocevia, che sostiene la piattaforma africana.
Non parliamo di frutta tropicale o di cacao, «ma dei cosiddetti “prodotti di controstagione” - continua Onorati - ossia fagiolini, fragole, pomodori, meloni prodotti in Africa in campo aperto in quelle stagioni nelle quali da noi non potrebbero crescere neppure in serra. Le fragole che a dicembre cominciano ad arrivare dal Burkina Faso, ad esempio, sono buone e costano almeno 15-18 euro al chilo. Ma ai contadini africani di questi profitti arrivano i soliti pochi spicci, e visto che hanno piccoli terreni, per guadagnarli debbono rinunciare a coltivare cereali e vegetali che normalmente sfamano le loro famiglie. Risultato? La fame, quella di sempre. Ma buoni affari per grossisti e imprese».

La condizione essenziale per la lotta alla fame è una politica commerciale diversa: «prezzi più remunerativi per i contadini - spiega Onorati -, priorità ai mercati locali, perché innanzitutto ognuno possa produrre nel proprio campo ciò che mangia, e vendere soltanto il resto per comperare ciò che gli manca. Poi un nuovo governo dei prezzi internazionali, per evitare le speculazioni, e la trasformazione di tutti i sussidi che le aziende ricevono per esportare, in finanziamenti per politiche di sviluppo sostenibile delle proprie aree rurali, nel Nord come nel Sud del mondo. Ma mi chiedo quando i nostri otto paesi diventeranno così grandi da potersi permettere la verità?».

Le terre contadine
Per sostenere la lotta dei contadini africani nei prossimi anni, in Italia è stata lanciata EuropAfrica/Terre contadine, una nuova campagna nel corso della quale le “Terre contadine”, del Nord come del Sud del mondo prenderanno la parola per raccontare la loro lotta quotidiana per produrre cibo sano e di qualità, per proteggere l’ambiente e per stringere con i cittadini e i consumatori un’alleanza che costringa le leggi che regolano il mercato a rispettare e dare il giusto valore al patrimonio rurale di questo pianeta.
La campagna è promossa dalle ong Terra nuova e dal Centro internazionale Crocevia per il Ga-Gruppo d’appoggio al movimento contadino dell’Africa occidentale - fra gli altri Aucs, Cipsi, Cisv, Cospe - con la partecipazione di Coldiretti, del Roppa e con la collaborazione di Roba dell’Altro Mondo fair trade.

Info: www.europafrica.info oppure www.croceviaterra.it


tratto da www.wema.com