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Eros e mito pagano, radici occulte della modernità

di Luca Leonello Rimbotti - 07/11/2005

Fonte: lineaquotidiano.it

In corso fino al 15 maggio 2006 presso il prestigioso Museo degli Argenti – situato all’interno di Palazzo Pitti a Firenze -, la mostra Mythologica et Erotica. Arte e Cultura dall'antichità al XVIII secolo costituisce un eccezionale repertorio circa l’acquisizione dei miti di Eros lungo epoche che vanno dalla ceramica apula del IV secolo
a.C. al marmo itifallico di epoca romana imperiale, da
bassorilievi e pannelli greci di soggetto dionisiaco ad
affreschi pompeiani, dalla plastica romana con i temi
tradizionali di Amore e Psiche o di Leda e il Cigno,
fino alle stampe cinquecentesche di soggetto eroticomitologico,
alle maioliche, alla statuaria neo-classica,
alle porcellane settecentesche, ai piatti, ai vasi, alle
lucerne, alle gemme, ai cammei, agli intagli. Un
posto di rilievo è occupato dalla numerosa serie di quadri,
da Luca Giordano al Tiepolo, da Annibale Carracci
al Tintoretto, da Guido Reni al Pontormo: ed è tutta
una folla di Veneri, di Cupidi, di Danae, di Satiri. Provenienti
da numerose e importanti collezioni pubbliche
e private italiane ed europee, i pezzi in mostra si
accompagnano all’inedita serie di Cristiano Dehn, un
vero unicum consistente in otto cassette ricolme di preziosi
cammei e intagli in gesso e ceralacca, di soggetto
erotico, conservate presso lo stesso Museo degli
Argenti. Tutto questo ricco patrimonio, qui appena
accennato, riesce nell’ambizioso proponimento di
mostrare come il mito legato alle figurazioni erotiche sia
stato in ogni epoca uno snodo culturale centrale, inteso
a veicolare col simbolismo d’Amore tematiche allusive
alla sacralità e alla gloria del potere. Volgendo così il
Mito da soggetto estetico a canone etico.
Nel bel catalogo (Edizioni Sillabe), curato da Ornella
Casazza e Riccardo Gennaioli, si legge infatti che “la
mitologia come pretesto culturale non fu utilizzata però
solo per abbellire gli arredi di residenze regali, aristocratiche
o dell’alta borghesia a celebrare importanti
eventi privati, ma anche per raffigurare imprese militari e
politiche di personaggi, esaltandone così anche le virtù”.

Secondo i più recenti
accertamenti scientifici,
la rinascita dell’interesse
per la cultura classica antica,
dopo la frattura dovuta al
crollo dell’Impero romano, è
da collocarsi non più nell’opera
del Petrarca, come si era
sempre usato fare da parte di
una consolidata tradizione
storiografica, ma un buon
secolo prima, ben addentro
quindi a quel Duecento gotico
ancora saldamente ancorato
alle identità tradizionali e
ignaro delle imminenti
aggressioni mercantili.
È infatti di mano di Ronald G.
Witt, col suo erudito studio
Sulle tracce degli antichi, lo
scavo tra le opere di quei
grammatici, rètori, logici e
poeti del secolo XIII che anticiparono
la fragorosa impennata
neopagana avvenuta nel
Rinascimento europeo, che si
espresse con i conosciuti
nomi dei vari Ficino, Pico,
Poliziano, Melantone, fino
alle simbologie apologetiche
di un Botticelli, di un Giulio
Romano. Tutti artefici di
un’epocale e clamorosa irruzione
della paganitas nell’epoca
che gettò le basi della
modernità, attraverso la trionfante
rappresentazione del
mito pagano nel bel mezzo
dell’egemonia del potere cristiano.
Fenomeno così ben
descritto, tra gli altri, dal classico
del Warburg sulla Rinascita
del paganesimo antico.
Si trattò di una vera e nuova
epifania del sacro pagano,
compiutasi paradossalmente
non tra l’ostilità, ma non di
rado col concorso attivo di
eminenti vescovi e pontefici
di Santa Romana Chiesa. In
questo clima di rinascenza
pagana, il protagonismo di
tempre assai più pagane che
cristiane, come quelle di un
Bessarione, di un Cusano, di
un Pio II o di un Giulio II,
impone infatti di domandarsi
come il cristianesimo avesse
speso i circa quindici secoli
sin lì avuti a disposizione, se
per lanciare un’ineguagliata
fioritura di civiltà si dovette
ricorrere all’arsenale grecoromano
della paganità, del
mito, delle simbologie naturalistiche
e vitalistiche (come ad
es. la figura di Eros), in luogo
dello spento e inibente devozionalismo.
Che, se ristretto
tra le maglie del conformismo
confessionale, è certo più atto
a deprimere il genio individuale
e comunitario, che non
ad esaltarlo.
Qualcosa di viscerale, di intimo,
legava la cultura egemone
nel secolo XIII, cioè la
provenzale cavalleresca,
incardinata sull’onore individuale
e di stirpe, alla civiltà di
Roma repubblicana, grandiosamente
rilanciata una prima
volta dalle élites culturali duecentesche.
Nel mondo dei
significati interni che legavano
le due koiné fondanti,
quella nordico-germanica della
cavalleria cortese e quella
della romanità repubblicana
riscoperta dagli eruditi italiani,
è indubbio che fattori preminenti
furono il mito
pagano in generale e il
mito di Eros in particolare.
L’Amore
antico, pre-cristiano,
sano e finalmente
liberato dalle punitive
censure bibliche,
tornò a popolare
gli immaginari
ben prima della stagione
umanistica.
Esso era visto essenzialmente
come giovane
sangue ribollente di
istinto vitale, ritmo di
vita eternamente vittorioso.
Più tardi, l’Eros celebrato da
Marsilio Ficino, ad esempio,
tornerà ad essere rappresentato,
alla maniera che già era
stata di un Euripide, come
potente forza di natura,
perpetuo annodarsi dei destini
e sovrana copula mundi. La
riscoperta dei classici portò a
definire questo Eros, similmente
a quanto accade in Ovidio,
anche come grazia di
modi e vibrazione di corpi,
certo, ma soprattutto come
trama di sottili legami psicologici:
e l’esatta corrispondenza,
su questi temi, con la cultura
provenzale dell’Amor
cortese, balza evidente. Come
evidente è l’interpretazione di
Amore nel senso di energia
primordiale, di magnete
attrattivo del simile col simile,
dialettica degli opposti,
stilla divina che segna l’identità,
che imprime il tratto di
un volto e di un popolo,
secondo un modo che, dalla
Teogonia di Esiodo che narra
la nascita di Eros dal Caos
primordiale, giunge sino al
Goethe delle Affinità elettive,
simbologia di arcani magnetismi
biologici attivati dall’occulto
potere di Amore.
In Grecia è Pan che riconcilia
poli femminile e maschile,
che riconduce all’unità di
natura, e Pan è satiro, è il dio
lascivo della pulsione atavica,
come l’Ermete pastorale,
Priapo, è potenza generatrice
e istinto primario. E c’è chi ha
visto nel culto fallocratico
greco l’origine stessa della
nostra civiltà, che avrebbe
costruito proprio sulla guerra
dei sessi il predominio del
lato apollineomaschile.
Questo
soltanto, nel confronto
con la sfera
dionisiaco-femminile,
custode della
caotica sfrenatezza
istintuale, avrebbe
garantito il corretto
procedere dell’ordine
sociale. Le Amazzonomachie,
che
così numerose compaiono
dipinte sulle
ceramiche elleniche,
in questo senso, non
sarebbero altro che
la celebrazione di un
suprematismo
maschile duramente
conquistato. E nelle
numerose figurazioni
divine relative ai
miti teriomorfi dello
Zeus violentatore,
fecondatore e priapico,
si sarebbero
voluti ombreggiare
ancestrali culti di
stupro, leggende di
maternità maschile
(come quella sulla nascita di
Dioniso da Zeus), rimandi al
dominio maschile come salvifica
egemonia sul Caos primevo:
il tentativo storico,
cioè, di vincolare il femminile-
sensuale nei recinti dell’ombra
anìmica, psicologicamente
irrinunciabile ma
socialmente disintegratoria.
Molte di queste tematiche
fondatrici della nostra superiore
civiltà le ritroviamo
oggi in una originale e importante
mostra, in corso in
Palazzo Pitti a Firenze:
Mythologica et Erotica. Arte
e Cultura dall’antichità al
XVIII secolo. In questa esposizione
(sui cui dettagli si può
leggere in questa stessa pagina)
noi vediamo messo in
evidenza tutto un universo di
significati, allegorie, metafore
e simboli erotici ripresi dall’arte
e dall’artigianato artistico
come altrettanti segni del
potere e del fasto sovrano.
Anche i secoli della cristianità
compresero dunque il prestigio
insito nel mito, e ne
disposero per darsi nobilitazione.
I pagani amavano il
bello, in ogni sua forma. E
dunque l’Amore, e l’Arte che
ne è la rappresentazione più
vivida, insieme realizzano l’ideale
greco di bellezza: “Nessuno
ignora che la passione
d’amore sorge nelle anime
desiderose di unirsi alle cose
belle”, affermava Plotino. La
stessa sessualità, in tali contesti
pagani, ignorando le avvilenti
repressioni del dogma,
perveniva ad una ulteriore
celebrazione della vita come
confronto talora tragico con il
destino, ma anche come
gioia. Tanto che uno dei più
celebri documenti della
nostalgia rinascimentale per i
simboli pre-cristiani, la Primavera
del Botticelli, può a
giusto titolo esser visto, come
ha scritto Ornella Casazza,
ideatrice della mostra fiorentina,
come “celebrazione della
potenza di Venere che è
conoscenza dell’idea prima
di gioia terrena”.
Ma l’esposizione di Palazzo
Pitti va oltre l’estetica. Essa,
nel ricordarci il profondo nesso
culturale che la nostra
civiltà ha sempre stabilito tra
la Bellezza vitalistica, il Potere
sacrale e il Sublime ideale,
è anche un’occasione per
approfondire, con i mezzi
impressionistici della simbolica
artistica, un aspetto
culturale oggi
negletto in nome della volgarità e dell’omologazionismo
cosmopolita. Se questo
impone ovunque e con violenza
l’indifferenziato, l’informe,
l’ibridato, il mondo pagano
tradizionale celebrava la forma
identitaria, lo stile differenziante,
l’eterna Gestalt che
crea i valori dell’appartenenza.