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La decrescita economica

di Mauro Bonaiuti - 06/12/2006

Fonte: umanista

 


Tutta la storia della modernità può essere letta come la storia di una grande espansione: militare, geografica, tecnico-scientifica e soprattutto economica. È la storia dello sviluppo, che ha raggiunto il suo culmine nel dopoguerra. Tuttavia, almeno a partire dagli anni Ottanta, è diventato sempre più evidente che la ricetta dello sviluppo non è estensibile a tutti. I dati di cui disponiamo parlano chiaro: il PIL dell’intero continente africano è, ancora oggi, inferiore al 2% del valore globale, ed è ormai evidente che molti paesi sono condannati a restare al palo. A livello planetario le differenze di reddito tra i più ricchi ed i più poveri si allargano drammaticamente: il divario tra il quinto più ricco della popolazione del pianeta e il quinto più povero è cresciuto dalla proporzione di 30 : 1 nel 1960 a 74 : 1 nel 1997.
Nello scenario globale ricchezza e benessere coesistono sempre più con un vasto panorama di esclusi dal banchetto della società di consumo. Quali che siano le cifre di cui ci si serve per drammatizzare questa realtà (2 miliardi e 737 milioni di persone che vivono con meno di due dollari al giorno, o un bambino morto ogni 3 secondi) , queste testimoniano come il grande programma di sviluppo universale sia fallito.
E in Europa e negli Stati Uniti ormai i “nuovi poveri” superano i cento milioni. Per quale motivo
dunque la grande macchina dello sviluppo, il grande sogno occidentale di offrire condizioni di vita decenti ed in continuo miglioramento per l’intera umanità si è infranto?
Per quanto il quadro sia complesso, credo si possa individuare una ragione di fondo. Il progresso tecnologico, e dunque la produttività, hanno raggiunto livelli tali che una minoranza è in grado di produrre tutto ciò di cui hanno bisogno le economie mondiali. Gli altri, i “naufraghi dello sviluppo” (sia singoli individui che interi stati), sono incapaci di prendere parte a questo gioco poiché non sono sufficientemente efficienti e competitivi.
E’ per questo che alla fine degli anni Ottanta fanno la loro comparsa nuove formule di sviluppo “aggettivato”: si parla di sviluppo durevole e soprattutto di sviluppo sostenibile, senza però mai mettere in discussione i presupposti dello sviluppo: la fede incondizionata nel progresso tecnico, la massimizzazione dei profitti per le imprese e, soprattutto, la crescita illimitata della produzione e dei consumi, vera e propria spina dorsale di ogni politica di sviluppo.
Se siamo ben consapevoli che sviluppo e crescita non coincidono, tuttavia è mai esistita una forma di sviluppo senza crescita?
Credo sia giunto il momento di uscire dall’ambiguità di queste formule, affermando finalmente con chiarezza che l’attuale processo di sviluppo non è sostenibile, né socialmente né ecologicamente.

La questione ecologica
I dati mostrano quanto il sistema produttivo globale sia già oggi insostenibile per la biosfera: basta ricordare l’impronta ecologica, ossia la superficie di ecosistemi terrestri ed acquatici necessaria a produrre le risorse consumate dalla popolazione umana e ad assimilarne i rifiuti. Negli USA è circa 5 volte superiore alla disponibilità media del pianeta: in altre parole per sostenere a livello globale lo stile di vita dell’americano medio, occorrerebbero circa cinque pianeti. I valori dei paesi europei sono circa due-tre volte superiori alla disponibilità media e dobbiamo considerare anche la Cina che ha, per adesso, un’impronta pro-capite più di sei volte inferiore a quella americana.
Al di la delle cifre, è necessario capire le ragioni profonde dell’insostenibilità ecologica dello sviluppo. I sistemi biologici e gli ecosistemi, a differenza del sistema economico, non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile, sono al contrario soggetti a limiti invalicabili. Negli organismi viventi un valore troppo grande di qualsiasi grandezza, come uno troppo piccolo, è sempre pericoloso: troppo ossigeno comporta la combustione dei tessuti, troppo poco conduce all’asfissia. Nel mondo biologico esistono quindi soglie che, per quanto flessibili e difficili da stabilire, non possono essere superate. Questo principio contrasta fortemente con gli assunti della teoria economica dominante, secondo la quale per i soggetti economici una quantità maggiore di un bene è sempre da preferire ad una quantità minore. A livello macroeconomico, quindi, nulla si oppone ad una crescita continua del reddito, dei consumi e della produzione, anzi questa crescita è ritenuta il primo, ed essenziale, obiettivo di ogni politica economica. Dobbiamo, poi, acquisire consapevolezza della natura entropica del processo economico: ogni attività produttiva comporta l’irreversibile degradazione di una certa quantità di materia ed energia. Poiché la biosfera è un sistema chiuso, che scambia energia ma non materia con l’ambiente, si arriva all’importante conclusione che la crescita illimitata della produzione e dei redditi, proprio perché basata sull’impiego di risorse energetiche e materiali non rinnovabili, è in contraddizione con le leggi fondamentali della termodinamica.

Una decrescita sostenibile
Se l’analisi che abbiamo svolto è corretta, non ci resta che abbandonare l’illusione dello sviluppo sostenibile ed iniziare a concepire, e ad osare, la decrescita. Decrescita è certamente una parola forte, e come tutte le parole forti suscita notevoli entusiasmi, ma anche decise reazioni critiche. Perché, dunque, è stata scelta? Se è vero che l’economia è il cuore dell’immaginario occidentale, e la crescita il totem dell’economia, è chiaro che parlare di decrescita significa innanzitutto mettere in discussione la centralità dell’economia nel nostro immaginario ed iniziare a pensare ad un’altra società. Va chiarito, tuttavia, che quello alla decrescita è essenzialmente un appello: non siamo di fronte ad un modello compiuto, ad una ricetta “chiavi in mano”, ma piuttosto ad una pluralità di vie per andare oltre la società della crescita. E’ bene chiarire subito cosa la decrescita non è: non è un programma masochistico - ascetico di riduzione dei consumi e della produzione, attuato nell’ambito di un sistema economico e sociale immutato rispetto all’attuale. La decrescita non è semplicemente crescita negativa. Decrescita non significa neppure condannare i paesi del Sud del mondo ad un’ulteriore riduzione del reddito pro-capite, ma avere come prospettiva un significativo aumento, non certo una riduzione, del benessere sociale.

Perché piccolo è bello
A livello economico decrescita significa innanzitutto la riduzione delle dimensioni delle grandi organizzazioni, tecnocrazie, sistemi di trasporto, ecc. Poiché queste dimensioni sono inscindibilmente connesse alle dimensioni dei mercati, occorre spostare il baricentro dell’economia dai mercati globali a quelli regionali e locali, rilocalizzando l’economia.
La riorganizzazione del processo economico secondo modalità non predatorie è la premessa indispensabile per non fare della guerra l’unico possibile esito dei conflitti.

Convivialità e partecipazione
La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo una migliore qualità di vita in organizzazioni non disumanizzanti, ma al contrario portatrici di senso, che consentano di aumentare il tempo libero, di ridurre lo stress e l’alienazione.
Solo nella piena consapevolezza che la crescita, e lo sviluppo, non sono la soluzione del nostro malessere, come vorrebbero gli apologeti del pensiero unico, ma rappresentano piuttosto il problema, la causa, potremo finalmente uscire dall’ingranaggio e costruire una nuova prospettiva.