Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Dalla parte delle madri. La natura vuole che a generare si sia in due e non solo nel concepimento

Dalla parte delle madri. La natura vuole che a generare si sia in due e non solo nel concepimento

di Umberto Galimberti - 10/12/2006

Un saggio della psicoanalista Sophie Marinopoulos sulla maternità oggi


Il rapporto con un figlio è d´amore ma anche di odio e spesso vissuto in solitudine
La retorica dei buoni sentimenti occulta l´ambivalenza che è in noi
Tutto si complica per le trasformazioni che ha subito la famiglia ora troppo isolata
La natura vuole che a generare si sia in due e non solo nel concepimento e nel parto

«Apolline aspetta un figlio, si sente strana, diversa rispetto alle altre gravidanze. Eppure il medico non ha dubbi: è tutto a posto. Il bambino cresce bene e tutti gli esami sono rassicuranti: ma Apolline è inquieta, come se si trattasse del primo figlio. Le sembra di non sapere niente del parto e di quello che viene dopo. Ha vissuto questi ultimi mesi come se dovesse affrontare qualcosa di ignoto, non osando confessare a chi le sta vicino che ha dei sentimenti strani riguardo a questa nuova maternità».
Così prende avvio il libro di Sophie Marinopoulos, psicologa clinica e psicoanalista, che esercita a Nantes presso il reparto maternità del centro ospedaliero universitario. Il libro titola Nell´intimo delle madri. Luci e ombre della maternità (Feltrinelli, pagg. 182, euro 13,00). La tesi è che l´amore materno non è mai solo amore, perché ogni madre è attraversata dall´amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull´amore, e anche se non si arriva ai casi di infanticidio (il cui ritmo inquietante più non ci consente di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione), l´ambivalenza del sentimento materno obbliga tutti noi a una riflessione più seria, che solo il terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro ci evita di affrontare.
E così finiamo con il sapere troppo poco di noi e della potenza dei nostri moti inconsci. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull´ambivalenza della nostra anima, dove l´amore si incatena con l´odio, il piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del giorno con il buio della notte, perché nel profondo tutte le cose sono intrecciate in un´invisibile disarmonia. E scrutare l´abisso che queste cose sottende è compito ormai trascurato della nostra cultura, che con troppa semplicità distingue il bene dal male, come se i due non si fossero mai incontrati e affratellati.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell´altra. Una soggettività che dice «io» e una soggettività che fa sentire la donna «depositaria della specie».
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell´amore materno, ma anche dell´odio materno, perché, come ci ricorda Sophie Marinopoulos, il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall´amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell´illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l´impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell´inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante troppo dissimile dal proprio sogno o dal proprio desiderio.
E´ a questo punto che l´ambivalenza amore-odio, che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, si potenzia e chiede una soluzione che non può trovarsi se non nel riconoscimento e nell´accettazione di questa ambivalenza come cosa naturale, e non con il senso di colpa che può nascere dall´interpretarla come incompiutezza o inautenticità del proprio sentimento.
Ma oggi tutto si complica per effetto della trasformazione che in questi anni ha subito la famiglia: troppo nucleare, troppo isolata, troppo racchiusa nelle pareti di casa che, divenute troppo spesse, la recingono e la secretano, creando l´ambiente adatto alla disperazione, che non è la depressione. Nel chiuso di quelle pareti ogni problema si ingigantisce perché non c´è un altro punto di vista, un termine di confronto che possa relativizzare il problema, o che consenta di diluirlo nella comunicazione, quando non di attutirlo nell´aiuto e nel confronto che dagli altri può venire.
Il nucleo familiare, osserva infatti Sophie Marinopoulos, è diventato oggi un nucleo asociale. Quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera, quella convenuta, il cui compito è di non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro quelle mura ben protette.
La tutela della privacy ha proprio nella famiglia il suo cono d´ombra. La non ingerenza nel privato, se da un lato è il fondamento della nostra libertà personale, è anche un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi una macchina formidabile che crea solitudine e, nella solitudine, quell´ingigantimento dei problemi che la comunicazione sa ricondurre nella loro giusta dimensione, mentre l´isolamento li rende di proporzioni tali da farli apparire ingestibili. Fino a quel limite, dove l´unica via d´uscita sembra la soppressione violenta del problema, non importa in quale modo.
L´incapacità di gestire un regime familiare, dove le difficoltà oggettive possono mescolarsi con i fantasmi della mente e con le speranze deluse, produce una tragedia che forse poteva essere evitata se quel nucleo familiare si fosse aperto e reso permeabile allo scambio sociale, come accadeva presso i primitivi dove i figli erano figli di tutte le donne del villaggio, come accadeva fino a un paio di generazioni fa anche da noi, dove la povertà facilitava la socializzazione e l´aiuto reciproco, in quell´incessante andare e venire tra vicini di casa che rendeva impossibile, quando non addirittura innaturale, l´isolamento della famiglia.
La riduzione dei contatti sociali potenzia gli oggetti d´amore che per la donna, relegata nella clausura della famiglia, sono i figli e il marito. Al giorno d´oggi queste dinamiche si sono complicate terribilmente, perché l´uomo ha perso il potere che una volta aveva come autorità riconosciuta in famiglia. Bene o male che fosse, forse più male che bene, ma così era.
Dimessa l´autorità, oggi l´uomo stenta a trovare un ruolo in famiglia che non sia quello un po´ estrinseco di chi porta i soldi a casa. Per il resto lavora fuori casa e, stante la liceità dell´odierno costume, tende a erotizzare anche fuori casa.
All´interno della casa resta solo l´amore incondizionato per i figli, più come idea, più come sentimento che come pratica quotidiana, di solito relegata alla madre o all´esercito delle baby-sitter. La madre è lì, spesso, solo come anello che chiude il nucleo isolato del sistema famiglia.
Occorre allora denunciare, come fa Sophie Marinopoulos, la cultura dell´isolamento in cui la sacralizzazione del privato ha ridotto di fatto la famiglia, che troppo spesso registra in sé l´effetto del collasso sociale. Se infatti la società è solo la sommatoria delle solitudini delle famiglie, e i valori che oggi circolano non sono più solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, ma business, immagine, ricchezza, tranquillità, tutela della privacy, perché una famiglia inavvertita e inascoltata, e che a sua volta non ha voglia di farsi notare né di parlare, perché questa famiglia dovrebbe essere indotta a generare e per giunta con gioia?
Il rimedio suggerito è allora quello di «accudire le madri», perché, per la forma che ha assunto la nostra società, forse, per molte donne, troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l´occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l´anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non tanto come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all´amore separandolo dall´odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il sentimento truce.
E allora non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l´una e l´altro per creare quell´atmosfera di protezione che scalda il cuore e tiene separato l´amore dall´odio. Lavoro arduo, che tutti coloro che amano conoscono in quella sottile esperienza dove incerto è il confine tra un abbraccio che accoglie e un abbraccio che avvinghia e strozza.
La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell´isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell´accudimento e della cura.
Dove a essere accudito, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l´ambivalenza delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele, che le madri avvertono quando affondano in quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell´abisso della solitudine.