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Il libro della settimana: Zygmunt Bauman, Vita liquida

di Carlo Gambescia - 13/12/2006

Il libro della settimana: Zygmunt Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 192, euro 15,00

A differenza della fisica, la sociologia non ha mai trovato il suo Newton né il suo Einstein: il primo diede alla fisica il suo assetto classico, il secondo la rivoluzionò. Ma con entrambi, ancora oggi, i fisici devono confrontarsi.
Invece nelle scienze sociali, visto che l’uomo non può essere studiato in vitro, le cose sono andate diversamente. Certo, nei manuali, si parla di fondatori e classici. Ma resta il fatto che l’ impossibilità di parlare di una fisica di sinistra o di destra, non vale per la sociologia. Ad esempio, Pareto di solito è messo tra i conservatori, Adorno tra i progressisti, e così via. Inoltre, per alcuni studiosi la sociologia deve indagare l’ordine sociale, per altri invece il progresso e le rivoluzione. E in genere i primi (pochi e tremebondi) stanno a destra, mentre i secondi (più baldanzosi e numerosi) a sinistra.
La premessa spiega anche la difficoltà per la sociologia di trasformarsi in scienza “normale”, capace di studiare ordine e progresso insieme, stabilendo costanti sociali, come auspicava Gianfranco Miglio. Ma chiarisce anche un’altra cosa: in assenza di padri sicuri e metodi certi la sociologia è periodicamente costretta a scoprirne di nuovi. E’ vittima del complesso del trovatello: crede di riconoscere in ogni adulto il padre naturale. E qui, sarebbe lungo, ricordare i protagonisti delle mode sociologiche, non solo italiane, persino degli ultimi dieci-quindici anni…
Ora però il lettore si chiederà, chi sia oggi sulla cresta dell’onda sociologica. Presto detto: Zygmunt Bauman, del quale è uscito da pochi giorni un nuovo libro, Vita liquida (Editori Laterza 2006, pp. 192, euro 15,00). L’ottantenne Bauman è professore emerito di sociologia nelle Università di Varsavia e Leeds, città quest’ultima dove risiede e insegna dal 1971. Polacco di famiglia ebraica, nel 1968 venne messo all’indice dall’autorità comuniste, dopo essere sfuggito trent’anni prima alle persecuzioni naziste. Nell’aletta editoriale di controcopertina è definito “uno dei più noti e influenti pensatori del mondo”. Merita di esserlo? Certo, ma soprattutto per aver scritto negli anni Novanta, uno dei testi più originali e profondi sulla Shoah: Modernità e Olocausto (il Mulino 1992). Un libro che andrebbe letto e studiato nelle scuole: dove si mostra come l’immane tragedia non fu soltanto opera di folli criminali, ma anche effetto di quell’ oggettiva “spersonalizzazione”, o burocratizzazione, degli individui, sempre possibile, nella “nostra società razionale moderna”.
Una fama che ora invece rischia di essere intaccata, e dispiace dirlo, dalla sua invasiva produzione dell’ultimo quinquennio (2001-2005): 10 volumi (tutti tradotti in italiano tranne Europe: An Unfinished Adventure, del 2004). E totalmente imperniata su una serie di ricorrenti variazioni monotematiche, già sviluppate in Modernità liquida (Edizioni Laterza 2000). Libro dove Bauman sostiene che la modernità “solida”, del lavoro di fabbrica, dello stato sociale, dei sindacati e dei partiti, avrebbe ceduto il passo alla modernità “liquida”: una nuova reincarnazione del moderno, imposta dai processi di globalizzazione, fondata sul lavoro flessibile, l’antipolitica e la fine di ogni progetto riformista e rivoluzionario. Se ieri esistevano punti di riferimento solidi (Chiesa, Stato, Partito, Impresa, Famiglia, eccetera), oggi si vivrebbe in uno spazio “acquatico”, segnato dall’invisibile e inarrestabile fluire di informazioni, mode e denaro. La cui “liquidità” non consente più alle persone di ricoprire ruoli sociali stabili (come cittadino, lavoratore, genitore, eccetera).
Si tratta di una tesi, già di per sé, non freschissima, che attinge alla classica dicotomia tönniesiana tra Comunità/Società: tra legami caldi (comunitari) e freddi (contrattualistici). Che Bauman attualizza alla luce dei processi di globalizzazione. Di qui il successo editoriale (il global è un argomento che “tira”). Il fervore degli ambienti accademici, favorito dal complesso del trovatello, di cui sopra . E l’attenzione di un pubblico medio, facilitata anche dal fatto che il sociologo Bauman, a differenza di tanti suoi colleghi, sa tenere le penna in mano.
Però scrivere con eleganza, spesso non basta, come nel caso di quest’ultimo libro, Vita Liquida. Che è un disorganico assemblaggio di saggi differenti. Bauman stesso nell’Introduzione, pudicamente, parla di “raccolta di intuizioni” . Ma la questione è appunto questa: le intuizioni (sette come i capitoli) non bastano per fare un libro. E, a maggior ragione, quando nulla tolgono e nulla aggiungono. Parlare di “vita liquida” invece di “società liquida”, come recita anche il titolo in inglese, è un gioco di parole (editoriale?). Temi come l’ “Individuo sotto assedio” (capitolo 1), la “Cultura: ribelle e ingestibile” (capitolo 3), “Il consumatore nella società liquido-moderna” (capitolo 5), e le stesse riflessioni sulla Arendt e Adorno, mal rifuse, e “appiccicate” in fondo al volume a mo’ di conclusione (capitolo 7), sono già sviluppati a sufficienza altrove. E altri come “Da martire a eroe, da eroe a celebrità” (capitolo 2), “Rifugiarsi nel vaso di Pandora (capitolo 4), e “Imparare a camminare sulle sabbie mobili” (capitoli 6), già accennati in altre sedi… Lasciamo al lettore perspicace, che avrà già mangiato la foglia, il piacere di scoprire dove.
Paradossalmente, Vita liquida, va però letto. Perché? Il testo, malgrado la disorganicità, resta una specie di antologia del déja vu, che consente perciò di fare una rapida carrellata sull’ultimo Bauman, quello “liquido”. Si può quindi saltare, serenamente, dalla Modernità liquida (2000) alla Vita liquida (2006). Salvando magari le interessanti Conversazioni con Bauman, curate da Keith Tester (Raffaello Cortina Editore 2002). E capire tutto lo stesso…
Perché il vero problema è che Bauman finisce per opporre alla società liquida una sociologia altrettanto liquida, priva di riferimenti “solidi”. Un’ ambiguità che affiora quando propone come via d’uscita, l’educazione permanente e la maggiore partecipazione sociale e politica dei cittadini. Il che non è uno scherzo. Soprattutto se non si indica in nome di quali valori “mobilitare”. E non potrebbe non essere così: dal momento che, come poi rileva, “i valori non sono né veri né falsi - possono solo essere accettati e rifiutati”. Di più: “nessuno può dimostrare o confutare la ‘verità’ di un valore”. Bauman preferisce così ripiegare sul solo “impegno”, morale e personale, nei riguardi dell’uomo e di coloro che soffrono. Per farla breve, propone una “globalizzazione morale planetaria”. Idea nobilissima, ma a dire il vero, per usare la sua stessa terminologia, molto “liquida”… A quali istituzioni ricorrere? Su quali forze spirituali contare? Chi aiutare subito? Chi è ci è vicino? O chi ci è lontano? Come aiutare “tutti” quelli che soffrono? Basterà stanziare una quota del Pil? O servono subito atti concreti? Magari, favorire il volontariato? Ma come?
Sono tutte domande, alle quali purtroppo Bauman non risponde. E qui va ricordato che in Italia, ad esempio, cinque persone su dieci si dedicano al volontariato, sulla spinta di una motivazione religiosa (si veda F. Bertini, S. Paliaga, A. Segatori, Guerrieri sociali. Il volontariato come dono, ribellione e militanza sociale, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2003). Perciò la nostra società, in realtà, non è neppure così “liquida” come la descrive Bauman: esistono ancora preziosi giacimenti di “solida” religiosità cristiana, ai quali attingere.
Quel che resta curioso della sua recente fortuna editoriale italiana, è che a favorirla sono gli ultimi dinosauri della sociologia post-marxista, post-coloniale, post-visuale, post-tutto, abbarbicati alle cattedre… I quali però non hanno ancora capito, che in fondo il messaggio baumaniano, è più in sintonia con la sociologia dell’ordine che del progresso. Certo, la vita liquida è segnata dal ricorrente conflitto “tra libertà e sicurezza”. Ma è anche vero che l’ “uomo liquido”, come nota sempre Bauman, rimpiange la sicurezza e non la rivoluzione o le “riforme di struttura”.
Ecco, magari, prima che esca un suo nuovo libro, qualcuno dovrebbe avvisare della cosa i nostri tirannosauri. O no?