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Le balene di Putin e la partita del gas

di Astrit Dakli - 13/12/2006

 
Dietro il paravento ambientalista Mosca impone il suo potere anche a una delle maggiori multinazionali. E il Gazprom diventa sempre più il monopolista mondiale del gas. Come una fredda e selvaggia isola del Pacifico diventò teatro di una guerra mondiale per l'energia, combattuta fra piccoli tribunali e grandi consigli di amministrazione

La notizia, lanciata in esclusiva dalla Reuters, è secca: la Shell ha offerto al Gazprom la maggior parte della propria quota (il 55%) nel più grande progetto energetico attualmente in corso nel mondo, lo sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio di Sakhalin-2. La quota Shell è valutata 22 miliardi di dollari; in cambio la compagnia vorrebbe una quota, minoritaria, in un altro grande progetto che Gazprom sta attualmente avviando in solitudine (e con molte difficoltà tecniche) nel nord della Siberia. Gazprom sta valutando la proposta, avanzata durante un incontro a Mosca fra il boss della Shell, Jeroen van der Veer, e quello di Gazprom, Aleksej Miller. Ma non c'è dubbio - si legge nel reportage dell'agenzia - che la cosa si farà, perché questo era esattamente l'obiettivo del governo di Mosca quando, l'estate scorsa, ha bloccato i lavori condotti dalla multinazionale anglo-olandese sull'isola dell'Estremo Oriente russo perché avvelenavano l'ambiente (è innegabile che la concomitanza di questa notizia con l'affaire Litvinenko appare piuttosto inquietante, anche se ogni collegamento è pura fantasia). Ma facciamo un passo indietro.

Quando, nell'estate dell'ormai lontano 1993, i tecnici della Royal Dutch Shell terminarono la loro ricognizione dei giacimenti off-shore dell'isola di Sakhalin, mandando entusiastici rapporti agli uffici del colosso petrolifero, la Shell era la seconda compagnia energetica del mondo; Gazprom una compagnia appena nata e già sull'orlo del disastro (aveva perso nel '91 una buona parte dei suoi assets sparsi nell'ex Unione sovietica). Il governo russo aveva forza contrattuale e credibilità pari a quelle di una repubblica bananera. E Sakhalin era un paradiso naturale quasi incontaminato. Il capoluogo della grande isola a nord del Giappone, Yuzhno-Sakhalinsk, somigliava a una città del west americano di metà '800, e bastava uscirne di un paio di chilometri per trovarsi nel mezzo di foreste primordiali intatte. C'era un solo, piccolo porto; le strade erano praticamente inesistenti; fuori dal capoluogo, l'attività economica principale era ancora del genere caccia e pesca. Pure, la gente non ti parlava d'altro: stavano per arrivare gli occidentali, la bonanza petrolifera; tutti sarebbero diventati sceicchi.

Nei sedici anni passati da allora, il progetto è andato avanti moltissimo, sia pure non senza difficoltà e battute d'arresto. Sono state costruite gigantesche piattaforme off-shore, sono stati posati enormi tubi da tutte le parti, sventrate foreste, costruite strade, allargati porti e costruiti di nuovi, varate navi; il mare davanti all'isola, dove un tempo incrociava solo qualche peschereccio e qualche nave da guerra, ora brulica di vascelli «tecnici» d'ogni genere. La Shell è rimasta quella che era, ma il Gazprom invece è cambiato molto, e ora è la seconda compagnia del mondo per dimensioni, superando largamente la stessa Shell - un processo di crescita in ricchezza e potenza andato di pari passo con la trasformazione del governo russo in un governo nuovamente imperiale, in grado di imporre la propria volontà, e non solo in patria, proprio con l'arma del controllo sulle forniture di energia. La gente di Sakhalin non è diventata un gran che più ricca, mentre l'enorme aumento dei prezzi di gas e petrolio di questi anni ha beneficiato molti russi di altre regioni.
Un anno fa la Shell ha compiuto un grosso errore: proprio mentre Gazprom avanzava la proposta di acquistare un quarto di Sakhalin-2, la compagnia annunciava che i costi per la messa in sfruttamento dei giacimenti raddoppiavano, da 10 a 20 miliardi di dollari - il che raddoppiava i costi dell'acquisto da parte di Gazprom e anche i tempi di attesa prima che lo stato russo potesse cominciare a ricevere le sue royalties. Passavano pochi mesi e varie associazioni ecologiste, le cui grida d'allarme per gli sfaceli ambientali che i lavori a Sakhalin e nel mare prospiciente stavano provocando erano state finora ignorate se non zittite, trovavano improvvisamente una vasta eco sui media russi. Quel che più conta, trovavano eco anche nel ministero dell'ambiente: che avviava subito un'inchiesta sull'argomento e in poche settimane giungeva alla conclusione che sì, gravi delitti ambientali erano stati e continuavano ad essere commessi. Troppe foreste erano state tagliate per posare i tubi, troppe perdite di petrolio stavano inquinando il terreno, l'habitat delle balene franche era stato devastato, ecc. Tutte cose assolutamente vere, anche se ignorate dal governo russo fino al giorno prima.

Mentre i dirigenti di Shell assistevano increduli a quanto accadeva, gli sviluppi dell'inchiesta erano rapidissimi e già nell'estate di quest'anno, quando l'estrazione di gas e petrolio e le relative esportazioni verso il Giappone erano appena iniziate, un tribunale ordinario di Mosca ordinava il fermo precauzionale di tutte le attività a Sakhalin-2, pena il sequestro degli impianti e l'arresto dei dirigenti. Ricorsi legali e pressioni politiche esercitate dal top management della multinazionale non sortivano alcun effetto: anzi, dal governo russo arrivava la concretissima minaccia di un ritiro definitivo della licenza di sfruttamento. Nello stesso tempo iniziavano analoghe campagne «ecologiche» mirate su altri due mega progetti energetici: Sakhalin-1, dove l'americana Exxon è partner maggioritario della società di stato russa Rosneft (che ha il 20%); e Kovykta, un gigantesco giacimento di gas condensato nella Siberia orientale dove l'inglese Bp sta programmando enormi investimenti in società con la compagnia privata russa Tnk. In entrambi i casi la soluzione ai guai ambientali era già scritta: un ingresso in forze di Gazprom (o un rafforzamento di Rosneft) come partner, con una quota di controllo sulla gestione.

Shell, se la notizia Reuters verrà confermata, sarà stata la prima a cedere; Tnk-Bp ha già annunciato che a fine anno passerà allo stato russo una quota azionaria di maggioranza; Exxon resiste ancora, ma a questo punto pochi dubitano che anch'essa cederà.
Col che, l'intero settore energetico della Russia, cioè del primo produttore mondiale di gas e di petrolio, sarà nelle mani di un monopolio statale (proprio ieri Putin ha discusso l'ipotesi di una fusione Gazprom-Rosneft), con un po' di privati russi e stranieri a riceverne passivamente una quota di profitti. Cosa questo possa significare per il mondo, lo vedremo presto; quanto alle 14 balene franche femmine rimaste nel Pacifico settentrionale, temiamo che faranno una brutta fine.