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Giacinto Auriti: ricordi e pensieri

di Giuliano Rodelli - 29/12/2006

 
Giacinto Auriti (1926-2006)

La vetrata s’affacciava nel giardino pensile fra i limoni e gli aranci e l’ultimo saluto colse il sorriso bonario ed un po’ melanconico di quello che era stato il mio professore di università, con il quale avevo discusso una tesi che non mi aveva mai convinto del tutto.
Era la tarda sera di una fine d’anno romana ed un vento severo ed ostile mi raggelò quando, dopo una lunga
conversazione lasciai la casa del «professore» - era così che i suoi allievi, spesso si trattava di «ex» avanti negli anni, continuavano a chiamare Giacinto Auriti.
Mi sopraggiunse il ricordo delle sere passate al tepore ed alla luce del vecchio camino della grande casa di Guardiagrele in  compagnia di persone semplici.
Ripensai al tovagliolo di carta su cui rappresentò con foga, durante un pranzo a Giulianova, la formula matematica dell’appena concepito «valore indotto» della moneta.
Rividi l’assolata mattinata in cui si fece il giro delle splendide aziende agricole di sua proprietà e mi sembrò per un momento di rivivere accanto a lui le sessioni di esami e il mortificante rimprovero che mi toccò di subire durante una di esse per aver suggerito, impudentemente, a beneficio di uno studente, un voto un po’ più alto di quello deciso dal «professore».
Mi tornarono in mente i viaggi verso Roma nella storica Peugeot 404 in compagnia del supponen-te Adelchi Perissinotto, il più in gamba di noi, dal grande carisma e dalle geniali intuizioni.
Brevi anni giovanili che mi furono donati dalla vita, prima che essa stessa si spalancasse a voragi-ne ed inghiottisse destini, speranze, realtà incomprese, protagonismi non percepiti eppure così di-sinvoltamente scomparsi.
Mi rianimai e vidi sulla Nomentana una Roma deserta e ventosa.
Altre volte rividi Auriti ed ancora conversammo, ma il ricordo di quella notte di fine d’anno, conclusasi con l’inseguimento dell’ultimo autobus e dell’ ultimo convoglio metropolitano che mi avrebbe ricondotto all’Eur, resta lì come il sommario di alcuni capitoli di una vita letti più e più volte e mai riposti con altri.


Cattolico intransigente al pari di Toniolo o Taparelli, con a cuore senza incertezze il bene co-mune e dunque decisamente anti-individualista ed anti-utilitarista, Auriti volle contrapporsi frontalmente alla logi-ca idealista ed alle posizioni moniste opponendo un rifiuto pregiudiziale all’assiomatica dell’interesse.
Condivise in anni non sospetti le posizioni di Carmelo Ottaviano, di Giovanni Scantamburlo, di Vero Romano, di padre Messineo e di molti altri.
I valori cui quella destra si richiama sono aristocratici e popolari, la sua azione politica è diretta a restaurare l’unione naturale fra aristocrazia e popolo, riconosce nella borghesia il comune nemico, il cui classismo trovava legittimazione nel pensiero illuminista.
E’ purtroppo vero che oggi quella destra - vistasi precludere il percorso che avrebbe potuto portarla ad incidere sulle aristocrazie, costretta a dover prendere atto della irrevocabilità della decisione, presa dalle classi dirigenti di voler secedere dall’unità sociale,
preferendo di gran lunga frequentare le asettiche sale d’attesa degli aeroporti piuttosto che le stan-ze della responsabilità politica - non può che andare incontro al popolo, le cui istanze sono esacerbate dai processi di globalizzazione.
Il fenomeno della «liquidità» delle classi dirigenti (o teoria del «ponte levatoio») è ben descritto da  Zigmunt Bauman che così ha inteso descrivere il perpetuo transito dei superflui membri della «superclasse» (si vedano anche le conclusioni cui è pervenuto Jacques At-tali).


Ci limitiamo a ricordare il significativo punto dello scritto di Fareed Zakaria - Bilderberg 2005 - lì dove è possibile leggere: «Non pensano e non agiscono come una classe dirigente, e questo non è un be-ne, perché ancora lo sono». (1)
In simile scenario la scelta di una destra integrale è obbligata: il bene-popolo resta primario quale bene cui attingere, con la speranza di recuperare i medesimi valori aristocratici, primo fra tutti la giustizia, che in molti sono chiamati a riaffermare a beneficio di quello stesso popolo che aspetta di essere finalmente protetto.
Avrebbe scritto Auriti: «Merita di governare un popolo solo chi lo ama, perché solo chi ama è di-sposto a servire. La miseria del razionalismo filosofico-giuridico, propria delle società strumenta-lizzanti, è tutta qui. Solo chi non ama è disposto a servirsi anziché a servire». (2)
L’originalità risolutiva del suo pensiero - la proiezione lucidamente intravista dei potentati da lui attaccati - risiede nel fatto che egli ha tentato di strappare, in parte riuscendovi, allo strapotere della temperie economicista ed al dominio della pretesa scienza economica, scienza largamente incompleta - direbbe Salvatore Verde - la disciplina di alcuni beni materiali ed immateriali vitali per la esistenza stessa dei popoli.
Il tentativo, che oggi appare titanico, avviato da Auriti, è stato quello di reclamare per il diritto e per la sociologia quegli istituti che, da sempre appartenuti ai popoli, sono stati oggetto di criminale pirateria da parte dei grandi corsari  economici.
In una qualsiasi storia che tratti della moneta si potrà osservare come essa ed i popoli della terra si siano appartenuti reciprocamente.


Nonostante i grandi economisti abbiano dato vistosamente, quanto meno alcuni di essi, definizioni assai poco convincenti, parziali o addirittura abbiano evitato di specificare la natura di beni come la moneta (e la sua circolazione), il valore, il credito e l’usura, il loro ambito è  restato gelosamente custodito nelle scuole del pensiero economico - complice l’arretramento dello Stato e per esso della politica e del diritto - ed in quel dominio c’è il rischio che rimangano confinate in una posizione di stallo.
Auriti ci ha chiamato a rivendicare al dominio del diritto, alla dimensione sociale, al terreno della democrazia partecipativa quei beni (materiali ed immateriali) di cui le istituzioni economiche si sono dichiara-te incapaci e dimostrate reticenti nel suggerire risposte convincenti e misure di gestione valide.
Ma ciò è accaduto e continua ad accadere sia a causa dell’assunzione di un posizionamento scor-retto del punto di osservazione (la distorsione dei giudizi di valore, secondo Auriti contro i quali è insorto) e sia perché il monopolio della conoscenza, del silenzio e del segreto ha consentito e consente ai potentati eco-nomici di estendere  il loro dominio, rafforzare il Potere ed arricchirsi
messianicamente mentre, diabolicamente, l’anima e la vita dei popoli della terra avvizziscono.
Valga per tutti  il caso del concetto di valore, per la definizione del quale sia la filosofia che l’economia si sono dichiarate infine inadeguate.


Il capovolgimento del punto di osservazione del problema ha consentito ad Auriti di individuare nel diritto il dominio entro cui beni come la mone-ta (e la sua circolazione), il valore, il credito e l’usura dovranno essere inclusi e le discipline di diritto speciale deputate allo studio, individuate nella Teoria Generale del Diritto e nella Sociologia del Diritto.
Noteremo come le stesse tesi di Pound e di Schmitt possano apparire superate.
«Le idee sono vere quando diventano azione» scrisse  Pound inaugurando il trentesimo capitolo della «Guida alla cultura».
Ed il pensiero di Auriti si è manifestato altrettanto vero quanto incisiva è stata la sua azione socia-le e politica.
Occorrerà comunque «aprire» le sue sintesi, ripercorrere analiticamente il suo pensiero e dedurre dai principi enunciati, le pesanti pietre che hanno tracciato la strada.
Occorrerà che il metodo analitico, la forma dialogica adottata dai suoi allievi compensi la libertà di Auriti grazie alla quale, lui in vita, poteva permet-tersi di far torto alle sue stesse idee, restate anche troppo poco volgarizzate.
In realtà, come uomo d’azione, Auriti credeva così poco all’indugio intellettualistico da non aver esitato a lasciarci gli scritti giudicati appena necessari per fermare i concetti portanti, lo scheletro di una costruzione che resta da concludere nelle parti.
Viceversa, eruttivo in volontà e determinazione, ha circoscritto un ampio territorio riservato alla prassi, all’attività politico-sociale di alto profilo ed ha sviluppato le sintesi che ci occorrono e che testimoniano, tra l’altro, proprio la vastità del suo pa-trimonio culturale.


Tuttavia occorre considerare che la sua azione era giunta ad un punto critico; la via giudiziaria portava diritto allo scontro frontale con poteri la cui protervia e la determinazione sono fin troppo note e non avrebbero potuto essere contrastate dalla sola generosità popolare; forse occorrerà isolare un momento di ri-flessione durante il quale poter riconsiderare l’efficacia degli strumenti di cui oggi si ha il posses-so.
Schumpeter scriveva, a proposito dell’essenza della moneta posta in relazione ad un certo popolo, che essa rispecchia tutto ciò che questo «vuole, fa, soffre, ed è». (3)
Come si vede si tratta di una realtà infinitamente più rilevante di una delle istituzioni economiche.
A quanti sostengono la funzione sociale, psicologica e simbolica del denaro occorre ricordare - lo sostiene con grande efficacia in molte sue opere Carlo Mongardini - che esso in epoca tardo-moderna sembra porsi come l’«artefice del progetto moderno di razionalizzazione» e sembra ap-pagare il bisogno (indotto) dell’uomo contemporaneo di tentare di riappropriarsi del controllo della realtà sempre più inafferrabile a cau-sa della sua complessità.
E’ oggetto di quotidiano riscontro, dice Mongardini (4), il fatto che non più la religione, non più il diritto, non più la politica possano «fornire i valori costitutivi della cultura» postmoderna, quanto il denaro.
Occorre però intendersi sull’affermazione di Mongardini lì dove scrive che il denaro socializza uomini, prodotti, beni materiali e servizi.
Mi sembra infatti che se accade che prodotti, beni materiali e servizi - tutti beni misurabili specie se ci si serve della misura del valore iscritta nella moneta (Auriti) - ingozzino l’uomo tardo moderno for-nendogli l’ingannevole percezione di una socializzazione più auspicata che reale, il denaro in sé e la ricerca del suo  possesso non solo finiscono col non favorire la socializzazione, ma sembra stiano sprofondando l’essere umano  nel baratro spalancato dall’individualismo più retrivo.
D’altra parte, Mongardini sembra avviato alla medesima conclusione quando scrive che «Il desi-derio di denaro… sembra essere una delle ultime passioni nelle quali tutte le altre si dissolvono. Questa passione a lungo andare corrode il legame sociale. Con essa il privato diventa la sfera privilegiata e il pubblico solo il mezzo dell’acquisizione e dell’ostentazione». (5)


Credo che altro sia l’accostamento offerto da Auriti quando associa la moneta e la sua circola-zione nel corpo sociale, al sangue che scorre nel corpo umano ed altro ancora è il perseguimento accanito della ricchezza da parte degli individui.
Non è lecito, cioè, confondere il momento funzionale della moneta con un tentativo, portato dall’uomo postmoderno di soggettivizzare lo strumento fino a divinizzarne la shekinà, la manifestazione (il denaro).
La lettura per intero dei capitoli dal 3° al 6° dell’opera indicata in nota, potrà essere utile per arricchire le conoscenze che ruotano intorno all’impianto teorico di Auriti; pensiamo in particolare ai suoi ri-mandi alla Sociologia del Diritto.
Uno degli obbiettivi di Auriti è stato quello di tentare di  minare le basi della stessa concezione monetarista, tentando di sottrarre la moneta al controllo delle scuole economiche adiacenti agli interessi della superclasse, una sorta di antro dell’alchimista - estraneo, assolutamente estraneo ad ogni principio che conduca al bene comune - propenso piuttosto a confidare nelle ra-gioni dell’utile della conventicola iniziatica e di precisi poteri egèmoni.
Infatti, come scrive Ricossa, «I monetaristi  (o friedmaniani) vanno più in là, e negano, in pratica ogni ingerenza discrezionale dei politici nell’andamento dell’economia»; la risposta di Auriti è stata senza condizioni: eleggere la moneta a bene sociale tutelato dal diritto, elevarla al rango di «sangue» che circola nel corpo sociale, consacrarla ad unità di misura del valore, esaltarne l’induzione del valore ad opera della convenzione sociale ai cui antipodi si erge il valore creditizio i cui ultimi frutti av-velenati stanno per ricadere massicciamente proprio sul corpo sociale con la diffusione della co-siddetta «moneta elettronica».


Pound si indignava quando era costretto a prendere atto che di Aristotele si ripubblicasse la Metafisica, la Poetica o magari la Fisica piuttosto che l’Etica Nicomachea.
In effetti fra i grandi temi che Aristotele trattò in quest’opera si trova la dissertazione sul concetto di moneta.
E’ nel V Libro (1133a e 1133b) dove si dice che la moneta è misura di ogni cosa e che questa debba poter essere misurata con misura comune; si dice ancora che la moneta sorse per «convenzione» (la tra-duzione dal greco è quella di Armando Plebe) come mezzo di scambio e che essa viene definita «cosa legale», dunque «nomisma» perché sorge non per natura ma per legge («nomos»).
Qui, scrive Plebe, si apre il più oscuro dei passi dell’Etica a Nicomaco.
A suo modo di vedere Aristotele avrebbe tenuto a precisare che gli scambi debbano avvenire in perfetta parità e che giammai debba avvenire che l’ottimo tessitore consideri i beni da lui prodotti di quali-tà superiore ai semplici frutti della terra che il contadino gli offre in scambio.
La proporzione deve essere verificata al momento dello scambio, scrive molto sottilmente Aristo-tele, e la parità deve sussistere sia fra il tessitore ed il contadino che fra ciò che produce l’uno e ciò che produce l’altro.
Colpisce il fatto che Aristotele faccia discendere dall’equità degli scambi la sociabilità fra indivi-dui ed aggiunge che il bisogno lega gli uni agli altri così che fra essi si possa stabilire la relazione sociale.
Se il bisogno fosse temporaneamente inesistente subentrerebbe, garante di scambi futuri, la moneta che, pur non avendo sempre lo stesso valore tende ad essere stabile.
«Per questo conviene che ogni cosa sia valutata: infatti così vi sarà sempre scambio e, se vi è scambio, vi è anche vita sociale. La moneta quindi, come misura, serve a pareggiare le cose rendendole commensurabili…». (6)

Vedremo come la moneta elettronica sulla quale ci siamo soffermati in tempi non sospetti (7) ten-da, lasciando che la circolazione monetaria cada in desuetudine, a far venir sempre meno la vita sociale già corrosa dalle derive individualiste, altro regalo ideologico offertoci dall’«anglosfera», oltre che a rendere inutile la funzione dell’unità di misura del valore così che le cose
diventerebbero incommensurabili, non pareggiate.
E diventerebbero incommensurabili perché, come sostiene Auriti, «la moneta che non circola è mero simbolo, non è moneta… così il valore monetario non nasce». 
Di Auriti occorre ricordare, come ulteriore fattore fondante del suo pensiero, la pregiudiziale dualista di filosofia della conoscenza che gli ha permesso di incontrare naturalmente la diade non conciliabile del soggetto e dell’oggetto, dello spirito e dello strumento, del valore intrinseco e del valore indotto, della verità e della menzogna.
E, checché se ne scriva, sono queste le «nobili» origini della dietrologia; sono origini che provengono dal diritto, dall’economia e dalla politica.
Risalgono in buona sostanza ad un vuoto legislativo, inglese, in questo caso; a coercizioni esercitate dall’economia sulla politica; risalgono alle casse sempre vuote di governi dimentichi delle proprie prerogative e della dignità dei popoli che reggo-no.


Le si incontra in quella limitazione della responsabilità personale di cui si è detto e che ha con-dotto alla creazione del fantasma giuridico, alla legittimazione della persona giuridica.
Sono questi gli strumenti con i quali i potentati economici nascenti (si tratta della seconda metà del 1700) hanno tentato di sfuggire alla necessità di dover rendere visibile l’esistenza di entità egemoni, strumenta-lizzanti e non visibili ma perfettamente reali ed attive.
D’altra parte, se si escludessero i «fantasmi giuridici» non si saprebbe dire in testa a chi o a che cosa dovrebbero farsi risalire i giganteschi interessi, i paurosi indebitamenti, le favolose ricchezze o le incredibili ingiustizie che il popolo patisce a meno di non voler dar voce, per l’appunto, e lo ripetiamo con Auriti, a fantasmi, finzioni, o personificazioni arbitrarie.
«I fantasmi non esistono» - protestava - «i patrimoni non possono essere mai  proprietari di se stessi».
Dunque, lungi dall’essere la scienza del fantasticare, la cultura del sospetto, la filosofia della diffi-denza, la tecnica dell’ipotesi doppia, tripla, quadrupla - come è possibile leggere su La stampa del 3/4/1982,  la dietrologia consiste in un metodo di analisi critica che intende affermare l’indisponibilità dell’individuo a confondere il soggetto con lo strumento ed a personificarlo.
Lungi dal risolversi in una distorsione mentale del soggetto indagante - come ci assilla e tenta di farci credere la supponenza della cultura ufficiale - la dietrologia consiste invece in una distorsione del sistema di potere che pretende di «soggettivizzare gli stru-menti» (utilizziamo qui il lessico auritiano) e servendosi di quelli, approfittare delle semplici logi-che dei governati.


Siamo in presenza dell’ennesimo dono avvelenato offerto al mondo dal «Sistema dell’anglosfera».
«Verso la metà dell’Ottocento, una folta schiera di uomini d’affari e di politici caldeggiò la ne-cessità di modificare la legge per limitare la responsabilità degli azionisti alle somme effettiva-mente investite nelle società. Se una persona aveva acquistato azioni per cento dollari, questo era il loro ragionamento, doveva essere considerata responsabile solo per quell’ammontare, a prescindere da quanto potesse accadere alla società». (8)        
Per questa via i ceti medi vengono coinvolti nella grande impresa del New Capitalism ed i meno abbienti possono partecipare agli investimenti alla stessa stregua dei più ricchi.
In questo modo, nota Joel Bakan, chiunque, assumendo il rischio di possibili perdite limitate alla quota di partecipazione societaria, poteva ambire ad «illimitate probabilità di successo».
Siamo nel 1851 e cinque anni dopo una simile tendenza  sarebbe diventata legge in Gran Bretagna.
Bakan s’attarda a valutare quella che chiama «bizzarra  alchimia legale» a seguito della quale la corporazione societaria sarebbe stata quasi del tutto equiparata alla «persona» in carne ed ossa.
Egli ne evidenzia la distanza, la mancanza di un’anima (nella persona giuridica), l’esser diventata entità «naturale» e non più artificiale, addirittura protetta dalla Costituzione USA in quanto persona.
«La persona giuridica della corporation aveva così preso il posto, almeno sotto il profilo legale, delle persone fisiche proprietarie delle corporation. Vista ora come un’entità ‘non immaginaria o fittizia ma re-ale, non artificiale ma naturale’, come un giurista la descrisse nel 1911, la corporation era rinata come un essere libero ed indipendente». (9)
  
Le considerazioni però si fermano a questo punto di genere
, nonostante Bakan sia docente di diritto.
Auriti, al contrario, partito da posizione non solo più Critica, ma anche da presupposti dualistici, perviene a conclusioni diverse.
Andato a scuola di diritto e filosofie millenarie si rende conto che la «bizzarra alchimia» prima di essere «legale» è intellettuale.
Più precisamente, egli comprende e sviluppa l’ipotesi che si tratti di un «giudizio» - nel nostro ca-so, distorto - espresso a seguito di un atto conoscitivo, là dove per giudizio deve intendersi, con san Tommaso, la facoltà di determinare rettamente le realtà sia spe-culative che pratiche.
Le ragioni di Carmelo Ottaviano spiegate nella sua aspra «Critica dell’idealismo», vengono fatte proprie da Auriti così da consentirgli di pervenire alla conoscenza delle aberranti conseguenze della «bizzarra alchimia».
Dalla combinazione di questi due criteri (limitazione della responsabilità personale ed equipara-zione dell’artificiale al naturale [corporation]) si perviene agevolmente alla soggettivazione strumentale (cioè alla personificazione dello strumento) che è la bestia nera del buon senso, della tradizione giuridica romana e di Giacinto Auriti (puntuale quando ci ricorda la tradizione romano-cristiana secondo cui «societas sunt homines qui ibi sunt»).


Accade così che perfino gli Stati nazionali, depositari naturali della «forma» politica, possano trasbordare in Stati meramente legislativi o anche in Stati giurisdizionali  (si pensi agli ordinamenti anglosassoni) di cui Schmitt modellò i contorni .
In essi si realizza quella personificazione della norma osteggiata vigorosamente da Auriti - che l’affiancava alla personificazione del patrimonio, al cen-tro astratto di imputazione giuridica, alla fictio juris, alla stessa persona giuridica - da cui è disceso «… il prin-cipio costruttivo di fondo, immediatamente necessario, dello Stato legislativo, nel quale appunto non sono gli uomini e le persone a governare ma le norme ad avere vigore. Il significato ultimo e più proprio del fondamentale ‘principio della legalità’  (Gesetzmassigkeit) di tutta la vita statale consiste nel fatto che alla fine non si governa o comanda più, poiché vengono fatte valere soltanto norme impersonalmente  vigenti». (10)
La vigenza dell’impersonale in ambito istituzionale autorizza a sospettare che, a maggior ragione nelle realtà subalterne (quelle economiche, ammini-strative, territoriali, ecc.), verosimilmente non sia l’impersonale, il fittizio o l’artificiale od il simu-lato a «vigere» quanto piuttosto un «personale», un reale dissimulato che irrompe come sistema di potere legalizzato, a volte inavvicinabile, all’interno del corpo sociale.
Ancora una volta l’ideologia dell’«anglosfera» è risultata così profondamente invasiva del corpo sociale da indurre Auriti a scrivere: «E’ questa dunque la strategia con cui le minoranze cultural-mente più agguerrite [Gramsci le definì «minoranze organizzate», nrd] spogliano e dominano le maggioranze [«disorganizzate», in Gramsci, ndr]. Ciò avviene nello Stato socialista, in cui la proprietà di Stato è sostanzialmente proprietà dei gover-nanti; nello Stato di diritto, in cui il dominio dello Stato è delle logge massoniche; nella società anonima [o Società per Azioni, o corporation, cuore di tenebra del capi-talismo, ndr] in cui il complesso dei poteri costituenti il diritto di proprietà è del sindacato di maggioranza degli azionisti». (11)
       
L’esistenza di un doppio piano di realtà, di una doppia storia - (la storia ufficiale, simulata e la storia segreta, dissimulata e «vergognosa», come le descrisse Balzac) - avrebbero suggerito ad Auriti la formulazione dei concetti di «società strumentale» e «società strumentalizzante».
La dietrologia vuole indagare in tale campo; ed oggi, dopo l’oscenità delle «prove» (come dimen-ticare la fialetta fatta oscillare da Powell all’ONU) e l’orrore della seconda guerra iraquena, dopo che la menzogna ha dato la stura, la dietrologia non solo non potrà più essere condannata, ma piut-tosto dovrà essere raccomandata quando non imposta, più che mai doverosa.
La chiave di volta della costruzione di Auriti è costituita dalla teoria del valore che, peraltro, resta solo parzialmente spiegata.
Uno degli aspetti inespressi è il rapporto che intercorre fra il concetto di utile e quello di valore.
Non ci attarderemo in questa sede.
Occorre dire, tuttavia, che Abbagnano per spiegare il concetto di utile nel contesto economico (ofelimità = valore d’uso secondo Pareto), suggerisce un esempio: uno stupefacente avrebbe ofelimità ma non utilità, avrebbe cioè valore d’uso ma non utilità.
Di seguito aggiunge: l’utilità sarebbe un carattere delle cose per via della loro strumentalità, attitudine a realizzare un fine e ad appagare un bisogno.
Dunque la previsione, l’auspicio dell’avveramento del momento edonistico, sono concetti già con-tenuti in quello di utilità.


In un esempio a lui particolarmente caro Auriti dice: la penna ha valore perché prevedo lo scrivere.
Per le ragioni dette, la penna  resterebbe una cosa che verrebbe realizzata in vista di un fine; dunque potremmo dire: la penna è utile perché prevedo lo scrivere.
Ed allora soffermiamoci con più attenzione sul concetto di valore, anche perché non ci è precluso il tentativo di cogliere le radici del termine e percepire e ripensare le sue risonanze tradizionali diversamente da chi non può farlo a causa degli imprigionamenti ideologici o delle pregiudiziali economicistiche.
Il termine latino valere indica  il senso dello «star bene», dell’ avere «forza», «autorità».
La radice è l’indoeuropea «wele» che sta per «amministrare».
Bernardo di Chiaravalle si rivolge a Maria Santissima ed esclama: «Donna, se’ tanto grande e tanto vali
Che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disianza vuol volar senz’ali
» (Paradiso 33°13).
Quel «tanto vali» significa «sei tanto potente, hai tanto potere».
E’ evidente che un tale senso non può riferirsi a quello, diretto alle cose, di utilità fondata sulla strumentalità.
Risulta evidente che per il concetto di valore occorre rifarsi ad  altre categorie.
Ricordiamo Schumpeter quando scriveva che la moneta di un popolo rispecchia tutto ciò che que-sto «vuole, fa, soffre, ed è».


Allora possiamo dire che il valore e la sua unità di misura che è la moneta dovranno riferirsi ad un concetto di strumentalità che va oltre quello ri-chiamato dall’utilità semplice.
Possiamo affermare, insomma, che poiché tutte le unità di misura sono beni ad utilità permanente, altrimenti detti beni a fecondità ripetuta o beni strumentali, essi hanno valore perché prevedono che l’utilizzo possa avvenire ripetutamente, da parte di molti, in un ulteriore futuro sufficientemente dilatato ed in ulteriori spazi sufficientemente ampi.
Una simile concezione potrebbe essere accostata alla concezione dinamica del valore, secondo Del Vecchio.
Esisterebbe dunque una gradualità crescente che partirebbe dalla semplice utilità e giungerebbe al valore in cui lo strumento, il rapporto fra fasi di tempo (il valore secondo Auriti) verrebbero posti su piani diversi
determinati dalla loro «potenza, forza ed autorità» (ricordiamo Schumpeter).
Credo che l’impostazione data da Auriti sia fondamentalmente corretta e che occorra variarla solo in termini di intensità, di potenza al variare della «potenza» della previsione e dell’aspettativa.  
In conclusione il valore costituirebbe la proiezione spazio-temporale dell’utilità.

Giuliano Rodelli


Note
1) Fareed Zakaria, «Democrazia senza libertà», Rizzoli, 2003, pagina 298.
2) Giacinto Auriti, «Il valore del diritto», Solfanelli, 1988, pagina 21.
3) Carlo Mongardini, «Economia come ideologia», Angeli, 1997, pagina 107.
4) Carlo Mongardini, citato, pagina 107.
5) Carlo Mongardini, citato, pagina 113.
6) Aristotele, «Etica Nicomachea», Laterza, 1973, 1133b, 15.
7) Giuliano Rodelli, «Se è elettronica non è moneta», Pagine Libere, giugno 1995 e «Il denaro non paga», Pagine Libere, luglio-agosto 1995.
8) Joel Bakan, «The corporation», Fandango, 2004, pagina 16.
9) Joel Bakan, citato, pagina 20.
10) Carl Schmitt, «Le categorie del politico», Il Mulino, 1972, pagina 212.
11) Giacinto Auriti, «Il valore del diritto», Zolfanelli, 1988, pagina 18.