Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il compimento del Regno. La distruzione dell'uomo attraverso la televisione

Il compimento del Regno. La distruzione dell'uomo attraverso la televisione

di Gianantonio Valli - 17/01/2007

Fonte: uomo-libero

 

 
 
 
 
 

Questa razza di casa nostra [...] è dura a morire e qualche volta si risveglia bruscamente. Bisognava impedire quel risveglio. Da qui i negri, da qui le naturalizzazioni in massa di ghetti interi, l'abbrutimento per mezzo dei quotidiani, della radio, della pornografia e della pubblicità, dell'idolatria del ricco, dell'adorazione dell'orpello, la beatificazione del pugile e della ballerina nuda, tutta questa fiera che sa di polvere e carta d'Armenia e nella quale passeggia docilmente una generazione inebetita, assordata dai giradischi e dalle orchestre dei maneggi, sussultante fra i petardi, a bocca aperta davanti alle sirene e ai mostri, con la gola secca, gli occhi opachi, senza tregua in movimento dentro questa kermesse senza baldorie, in questa ressa senza sguardi, sognando vagamente un'eterna scoraggiante domenica che sarebbe stata tutta la loro vita. Questo era l'antifascismo.

Maurice Bardèche, L'uovo di Colombo, 1952

Oggi sono essenzialmente i media stampati ed elettronici a plasmare le nostre attitudini percettive, a stabilizzare criteri di senso collettivi che ci consentono la comprensione del presente e che fungono da costante contesto di riferimento per orientare anche la nostra esperienza personale [...] Altrettanto evidente dovrebbe essere l'inconsistenza della linea di demarcazione fra democrazia e totalitarismo che i teorici del pluralismo tentano di tracciare assumendo come discriminanti delle nozioni tanto deboli quanto ambigue di autonomia dell'opinione pubblica e di policentrismo dei mezzi di comunicazione di massa. Contro le tesi classiche del pluralismo democratico, l'indagine scientifica e l'esperienza storica sembrano provare che l'efficacia persuasoria dei massmedia opera assai più in profondità nei paesi a democrazia pluralistica (e a economia di mercato) che non nei paesi totalitari.

Danilo Zolo, Il principato democratico, 1992

La televisione e gli altri media elettronici hanno cambiato la base delle attività umane. Ci possiamo permettere di ripetere questa ovvietà, visto che anche i critici più acuti della società odierna non sono pienamente coscienti dei cambiamenti che questo comporta per le nostre relazioni cognitive, emotive e funzionali con il nuovo ambiente globale prodotto dai media.

Derrick de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, 1995

Come che sia, la base della potenza americana sta, in larghissima parte, nel dominio del mercato mondiale delle comunicazioni. L'ottanta per cento delle parole e delle immagini che circolano nel mondo provengono dagli Stati Uniti.

Zbigniew Brzezinski, 15 dicembre 1990

Distruggeremo la vostra cultura come abbiamo distrutto la nostra.

il conduttore (ebreo americano) Jay Leno, in uno spot per l'European Super Channel della NBC

La parte del laudator temporis acti è sempre imbarazzante, ma l'approdo di una rincorsa ossessiva dello sviluppo scientifico e tecnologico è il vicolo cieco di un nichilismo triviale. Come recitava una vecchia canzone d[el cantautore Franco] Battiato: «Più diventa tutto inutile, e più credi che sia vero, e il giorno della Fine non ti servirà l'inglese».

Roberto Zavaglia, Nanotecnologo - Il mestiere del futuro, 1997

Quello che in Occidente chiamiamo pensiero è il prodotto della resistenza del cervello al flusso dell'informazione.

Derrick de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, 1995

Se teniamo presente l'influenza enormemente più vasta e incisiva del Piccolo Schermo rispetto al grande del cinema e la possibilità di essere messi in contatto in ogni momento con l'immaginario collettivo televisivo ci è gioco capire come, col passare degli anni, i moduli comportamentali televisivi abbiano rivoluzionato e plasmato, e stiano tuttora plasmando, lo psichismo dell'uomo in modo molto più profondo che non il cinema.

«Per la prima volta nella nostra storia» – scrive l'americano Jeff Greenfield – «è possibile rispondere alla domanda "Chi ha fatto l'America?": la televisione». «In a very real sense» – continua John O'Connor, docente di Storia al New Jersey Institute of Technology e co-direttore del periodico Film & History – «television is American Culture, in senso letterale la televisione è la civiltà dell'America».

A differenza di quanto possa pensare taluno dei meglio-intenzionati oppositori del Sistema Mondialista, come non esistono armi «neutre» rispetto alle strutture sociali e ai Sistemi di Valori in cui sono nate, non esiste neppure la neutralità della Scienza (e tantomeno ancora della Scienza moderna, portatrice di una propria morale totalitario-progressista perfettamente inscrivibile in quella giudaico-cristiana, di cui anzi è legittima figlia) né, a maggior ragione, la neutralità della Tecnologia e delle tecniche. La Tecnologia, come la conosciamo oggi e come è stato dimostrato da studiosi quali il primo Jeremy Rifkin – e da noi stessi in Lo specchio infranto – è un fenomeno storico generato da una certa precisa idea della natura, da una certa precisa idea del progresso, da specifici ideali sociali e da specifiche aspirazioni sui fini della vita umana e del cosmo, ideali ed aspirazioni di chiara ascendenza giudaico-cristiana. E ciò non solo sotto il profilo ideologico-morale, ma anche dal lato «pratico».

Ma c'è qualcosa di ancor più terribile e «non-umano»: più ancora della Scienza, le Tecniche infatti non sono e non sono mai state strumenti inerti, governabili a piacimento dai loro inventori o direttori pro-tempore (di qui la profonda diffidenza ellenica per la techné). Più ancora della Scienza – quadro di riferimento che lascia pur sempre all'uomo un'autonomia spirituale – la Tecnologia ha una sua logica, una logica ancor più impersonale che non solo contrasta e distrugge i suoi nemici, cioè le logiche e i Sistemi di Valori che le si oppongono, ma entra in conflitto perfino con le ideostrutture che l'hanno giustificata sul piano sia filosofico che emozionale, potenziandola su quello fattuale (cristianesimo, marxismo, capitalismo, democrazia).

Quanto a due brevissimi esempi, oltretutto esplicatisi in epoca ancora «tranquilla», prima cioè dello scoppio della rivoluzione concettuale baconiana, basti pensare all'introduzione della polvere da sparo nelle contese guerresche, che comportò il declino del potere della cavalleria medioevale e il sovvertimento delle tecniche costruttivo-architetturali. Basti pensare a come l'introduzione della semplice staffa abbia, ancor prima, reso possibile, col maggiore e decisivo potere di offesa conferito all'uomo a cavallo, l'affermazione dell'universo feudale, innestandone le strutture socio-politiche sulle strutture ideazionali della trifunzionalità indoeuropea.

E tale discorso vale ancor più per i media. Essi non sono semplici canali di trasmissione tra due o più ambienti; poco o nulla conta, nella genesi dei più profondi mutamenti sociali (psico-esistenziali), la qualità delle informazioni. I media sono in realtà, al di là di ogni presunzione faustiana e di ogni futuristica brama di dominio, «ambienti in se stessi e per se stessi». Svincolati da umana volontà, col tempo essi seguono una loro logica intrinseca, comportando conseguenze che, indipendentemente dalla sostanza del messaggio, sono non solo quasi sempre imprevedibili ai «controllori» di turno, ma in ogni caso eversive dell'ordine in cui sono nati.

Ben rilevano infatti Daniel Yergin e Joseph Stanislaw: «Dopo gli sconvolgimenti delle guerre mondiali, delle rivoluzioni e della depressione, assistiamo oggi al processo di rinascita di un'economia globale. Così come nell'Ottocento il motore a vapore e il telegrafo hanno reso il mondo più piccolo, l'odierna tecnologia sta tornando a erodere distanze e confini. Questa volta però gli effetti di tale fenomeno sono molto più globali, non escludendo nessun paese o comunità. La tendenza in atto appare evidente sotto molti aspetti. Il numero di passeggeri di voli internaziomnali è passato da 75 milioni nel 1970 a 409 nel 1996. Tra il 1976 e il 1996 il costo di una telefonata di tre minuti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna è passato in termini reali da circa otto dollari a trentasei centesimi, e il numero di telefonate internazionali è passato da 3,2 miliardi del 1985 a 20,2 miliardi del 1996. Oggi il mondo vede gli stessi film e spettacoli; dai satelliti rimbalzano le stesse notizie e informazioni, creando istantaneamente un vocabolario comune per qualsiasi evento».

Del tutto immatura e volpinamente fuorviante è quindi la dichiarazione di David Sarnoff, presidente della RCA Radio Corporation of America e nel 1926 creatore della prima rete radio americana, la NBC National Broadcasting Company (anche la CBS, seconda rete radiotelevisiva, viene fondata da ebrei), attivo sionista, membro del direttivo della Educational Alliance, primo socio onorario del Weizmann Institute of Science, nonché alto dirigente dello Jewish Theological Seminary: «Siamo troppo propensi a fare degli strumenti tecnologici i capri espiatori dei peccati di coloro che li maneggiano. In se stessi i prodotti della scienza moderna non sono né buoni né cattivi: è il modo in cui vengono usati che ne determina il valore».

Tale opinione, da una parte naturalmente diffusasi tra le masse moderne, dall'altra ad arte predicata da tecnici superficiali o interessati, viene aspramente criticata da Marshall McLuhan: «Proprio nulla nella frase di Sarnoff regge ad un esame appena attento», nonché viene definita, con incisiva semplicità, «la voce dell'attuale sonnambulismo». O anche, con immagine altrettanto felice: i media moderni sono ormai diventati, per tutti coloro – e sono la maggioranza – che ne hanno accettato l'influenza in modo docile e subliminale, «prigioni senza mura per gli uomini che ne fanno uso». «Il medium è il messaggio», suona l'abusato, spesso non capito e male interpretato motto del sociologo canadese: l'impatto della forma comunicativa, indipendentemente da ogni bontà o meno delle intenzioni e del contenuto, oltrepassa cioè sempre e comunque la sostanza del messaggio; l'estrinsecità prevale sull'intrinsecità.

Certo i media non crescono né si sviluppano nel vuoto; varie forze sociali, politiche ed economiche favoriscono lo sviluppo di alcune tecnologie, nonché i loro usi e configurazioni (nulla è più chiaro al proposito della storia del cinema). E tuttavia, al di là di ogni volontà, la Tecnica stessa si svincola, nel tempo, dai suoi «direttori», imponendo dapprima profonde ristrutturazioni ad alcune articolazioni societarie, portando poi alla ristrutturazione, coerente coi nuovi moduli, dell'intera società.

Quando poi tale ristrutturazione si muova nel senso della Weltanschauung di quei «direttori» – dei loro desideri e delle loro aspirazioni di dominio finanziario, politico e ideologico – l'osservatore rischia di non scorgere o di sottovalutare la logica sistemica che ne sta alla base, illuminando in modo eccessivo il ruolo dei promotori, addebitando loro la genesi dei mutamenti, rischiando di trovarsi spiazzato nell'analisi del fenomeno e di fronte alle obiezioni dei laudatori della Modernità. D'altra parte e al contrario, supervalutando asetticamente la logica del Sistema – dando cioè indebita importanza alla speculazione sociologica e mettendo in secondo piano la ricerca storica e ideologica – l'osservatore rischia di perdersi nell'astrattezza. In realtà, se certo esiste una logica sistemica, se esiste un Sistema auto-sostenentesi ed ormai impersonale nella sua struttura di fondo, esistono anche non solo influenze, azioni e retroazioni di tipo cibernetico, non solo «teste pensanti» che, se pure non più dirigenti, del Sistema sono i regolatori e i custodi, i difensori ed i giudici. Esiste soprattutto la consapevolezza della genealogia profonda del Sistema, genealogia che, prima che tecnica e settoriale, è storica e ideologica, quindi spirituale e religiosa.

Quanto alla televisione, i suoi veri portati, finora non avvertiti dai giubilanti spettatori e funzionali a chi delle strutture mentali della Modernità è stato il promotore, cioè il Popolo Santo, consiste: 1. nell'appiattimento delle esperienze (più spietato di noi, scrive Daniel J. Boorstin: «Come la stampa cinque secoli or sono iniziò a democratizzare l'istruzione, così la televisione democratizzerà l'esperienza»), 2. nell'indifferentismo, cioè nella perdita del senso del valore della notizia, 3. nella distruzione delle differenze tra i popoli, 4. nella distruzione di tutte le vecchie strutture di luogo o, più chiaramente, di tutte le precedenti strutture di relazione, e non solo tra gli individui od i popoli, ma tra l'uomo e il suo ambiente (Umwelt: ciò che sta immediatamente intorno), tra l'uomo e il mondo (Welt), tra l'uomo e il Cosmo. In un'unica espressione: consiste nel condurre al compimento finale la separazione dell'uomo dalla Natura che si è primamente fondata sull'antico, eterno odio giudaico per Questo Mondo.

A simili conclusioni giunge Joshua Meyrowitz, docente di Comunicazione all'Università del New Hampshire: «La mia teoria sostiene che questa ristrutturazione delle occasioni e delle rappresentazioni sociali è stata, almeno in parte, all'origine delle recenti tendenze sociali, comprese la confusione dei concetti di infanzia e maturità, la fusione delle nozioni di mascolinità e femminilità e l'abbassamento degli eroi politici al livello del cittadino medio [...] Riunendo tanti tipi di persone nello stesso "luogo", i media elettronici hanno favorito la confusione di molti ruoli sociali un tempo distinti. Dunque, i media elettronici ci influenzano non tanto coi loro contenuti, ma modificando la "geografia situazionale" della vita sociale».

La confusione dei ruoli, con l'abbattimento delle antiche istituzioni e la formazione di nuovi centri direttivi e di strutture più omogenee, investe le religioni, le gerarchie, la famiglia, i sessi, le razze, le differenze nazionali, il rapporto pubblico-privato, la semantica, i concetti stessi: comporta l'eversione di ogni precedente strutturazione umana. Nulla di strano che l'espressione «politically correct» sia nata nel Paese di Dio; non a caso quella confusione dei ruoli detta «androginia situazionale» ha partorito proprio là termini neutri quali chairperson (persona che presiede), meno «offensivo» di chairwoman (presidentessa) e di chairman. La banalizzazione dell'esistenza, la volgarizzazione dei vissuti, il senso d'impotenza, intercambiabilità e inutilità personale, la mancanza di ruoli definiti – tutto ciò ne consegue. I nuovi media aboliscono i concetti di sfere maschili o femminili, di capanne o edifici particolari, di luoghi sacri o profani. Il mutamento del rapporto tra luogo fisico e luogo sociale investe ogni ruolo e persona. Per la maggioranza il mondo diviene senza senso perché, per la prima volta nella storia, il mondo è privo di «luogo» e di «centro».

Ma la perdita di luogo e la mancanza di centro, la scomparsa delle articolazioni sociali all'interno di società intercambiabili e sostanzialmente identiche (fenomeno che investe in misura infinitamente minore i regolatori/mediatori/manipolatori di quelle società), la mancanza di individuazione personale e di gerarchia sociale fanno precipitare la massima parte degli esseri umani – i più fragili, insicuri e bisognosi di solidarietà da parte dei connazionali – nell'anomia, nel solipsismo, nella disperazione. Porsi «oltre il senso del luogo» comporta, data la natura umana com'è stata plasmata in milioni di anni, il porsi oltre ogni senso, perdere ogni senso, ogni coordinata non solo spaziale ma temporale, societaria, familiare, psichica e mentale.

Noi non concordiamo col retorico, criminale quesito/incitamento di Francesco Remotti: «Ma è proprio poi necessario avere un'identità nel nostro mondo?». Noi non siamo – non vogliamo essere – quei transhumants ebraici, quei vagabonds de l'univers staffilati da Henri Labroue, e neppure quei tecno-allucinati «nuovi nomadi» cantati da Arianna Dagnino. Noi non siamo – non vogliamo essere – quegli «irrevocabili figli di Babele» cantati dal sociologo Guy Scarpetta in Eloge du cosmopolitisme. Non vogliamo esserlo perché sappiamo – dalla personale esperienza e dall'insegnamento dei padri che or è mezzo secolo caddero, armi in pugno, per contrastare la decadenza dell'uomo – che l'esserlo comporta il disfacimento delle qualità più vere e sofferte dell'essere umano. Solo un puro nichilista può apprezzare la «fortuna dell'esilio», solo un puro nichilista può venir confortato da una condizione psico-sociale in cui si abbia l'agio, come predica Scarpetta, di «fare scoppiare le identità e l'appartenenza», da una condizione il cui punto di riferimento primario sono gli USA, paese modello, «rete attraverso le maglie della quale si può [sempre] sfuggire».

* * *

Un'indagine del Congresso riferisce che l'americano medio degli ultimi anni Ottanta consuma un quarto dell'esistenza da sveglio guardando la televisione e che, per i figli, la sola attività che prende più tempo della TV è il sonno. Altri studi rivelano che le famiglie con redditi inferiori ai diecimila dollari guardano la TV in media 47 ore e 3 minuti settimanali, mentre quelle con redditi superiori a trentamila restano davanti al teleschermo 47 ore e 50 minuti. Le abitudini televisive sono quindi sostanzialmente uniformi per ceto sociale, mentre la differenza concerne i gruppi di età. Gli adolescenti sono quelli che guardano meno la TV, con una media di «sole» 22 ore e 30 minuti (oltre tre ore al giorno); gli individui oltre i 55 anni toccano invece le 35 ore e 6 minuti (cinque ore al giorno). Il bambino della più recente TV generation guarda, fra i tre e i cinque anni, la TV per 54 ore (quasi otto ore quotidiane). Prima dell'inizio del ciclo scolare our boy assorbe quindi 5000-5500 ore di TV, per un quinto pubblicitarie; prima di terminare le medie ha riempito la vita con oltre 20.000 ore di Piccolo Schermo.

Anche in Italia il consumo di televisione è vertiginosamente aumentato: gli «adulti» (sopra gli undici anni) passano davanti al video quasi quattro ore al giorno; i ragazzi sotto gli undici, qualcosa di più. In dettaglio, quanto alle ore di esposizione ripartite nelle quattro classi 0-2, 3-4, 5-6 e oltre 6, le percentuali concernenti i ragazzi (6-13 anni), gli adolescenti (14-19 anni) e gli adulti sono: 26, 52, 18 e 4; 32, 52, 14 e 3; 42, 45, 11 e 2. Il che significa che il Piccolo Schermo intrattiene soprattutto individui delle età più basse. Dopo il sonno e il lavoro, il guardare la televisione è la terza grande attività dell'uomo – soprattutto del minore – moderno.

Oltre a due effetti di rilevanza individuale: 1â la caduta verticale della capacità di fissare l'attenzione per più di un certo tempo (se a un buon insegnante occorre anche un'ora per sviluppare un dato argomento, gli spazi televisivi obbligati di novanta secondi troncano quello stesso argomento in modo irreparabile) e 2â la perdita di interesse per la lettura – aspetti che coinvolgono per mimetismo inconscio (vale a dire per l'inconscia occupazione degli spazi mentali ad opera non solo delle immagini ma dell'intera atmosfera televisiva che foggia l'Umwelt dell'uomo moderno) anche persone che fruiscono della TV per tempi ben sotto la media – l'esposizione allo «sbarramento» delle immagini televisive hanno due rilevanti effetti sociali:

3â il conformismo applicato e 4â l'ignoranza generalizzata. Se del primo è Marie Winn ad affermare che il Piccolo Schermo influenza necessariamente le abitudini di gioco dei ragazzi, per cui un giovane che non conosce i suoi programmi ha difficoltà a farsi degli amici o ad entrare a far parte della banda del quartiere e può diventare, papale papale, «lo scemo del condominio», della seconda si fa paladino il tecnocrate Nicholas Negroponte (fondatore e direttore del Media Lab del MIT): «La maggior parte dei bambini americani non fa differenza tra il Baltico e i Balcani, non sa chi erano i visigoti e ignora dove abitava Luigi XIV. E con questo? Perché sarebbe così importante? Sapevate voi che Reno è a ovest di Los Angeles?».

Un quinto effetto è 5â la distorsione del tempo e dello spazio indotta nei cervelli. Essa rende vaghe e irreali le sensazioni e, al contempo, rivendica a sé un maggiore grado di realtà. Se da un lato favorisce l'effetto gregario, indebolisce dall'altro le relazioni con chi ci sta intorno, poiché riduce, e talvolta elimina, le normali occasioni per comunicare. Come quindi stupirci che siano proprio gli americani ad avere il senso più ottuso dell'irrealtà, nei confronti dell'essere umano e del mondo?

Infatti, se la televisione è una «ladra di tempo», inchiodando per ore i ragazzi ed escludendoli da attività che sul lungo periodo sono indubbiamente assai più importanti per il loro sviluppo, altrettanto gravi sono quindi altre distorsioni. Come scrive John Condry: «Per lo più, l'attenzione del bambino non si fissa, perché il materiale è facilmente comprensibile. I bambini capiscono qualcosa del contenuto dei singoli programmi, ma non alla stessa maniera degli adulti. Ad esempio, non capiscono le sequenze lunghe e hanno una comprensione ridotta delle motivazioni e delle intenzioni dei singoli personaggi. Non sono capaci di trarre deduzioni da un'azione cui non assistono direttamente, cioè da un'azione sottintesa ma non esplicitamente mostrata [...] La televisione non li informa sul mondo, anzi spesso li disinforma. La televisione non è concepita per fornire ai bambini informazioni circa il mondo reale. Quando viene usata per questo scopo, fa un pessimo lavoro. La TV moderna, specie nel modo in cui viene attualmente utilizzata negli Stati Uniti, ha un unico obiettivo: vendere merci. La televisione è fondamentalmente uno strumento commerciale. I suoi valori sono i valori del mercato; la sua struttura e i suoi contenuti rispecchiano tale obiettivo [...] La cosa davvero assurda è che la TV non mostra mai nessuno intento a lavorare per guadagnare le ricchezze che ostenta. Non esiste alcun legame fra il lavoro e la vita. I bambini, che preferiscono la soluzione più rapida ai problemi, cercano la bella vita così come la definisce la televisione, vale a dire possedere tante cose, ma non sanno come procurarsele. E come potrebbe essere diversamente? Mostrar gente che lavora, per la televisione è una bestemmia, uno spreco di tempo! Rende la TV noiosa, e ciò sarebbe inammissibile. In televisione ogni momento dev'essere emozionante, ogni avvenimento deve attrarre l'attenzione».

Allo scopo tutto è buono, a partire dalla presentazione ossessiva della violenza. Ma se l'onnipervadenza della violenza le conferisce un «valore morale», altri aspetti vengono martellati a foggiare le coscienze. I valori strumentali dell'essere «belli», «giovanili», «sexy», «capaci» e «furbi» (di gran lunga meno citati/vantati sono l'«essere coraggiosi», «coerenti» e il «saper perdonare») servono a conseguire i due massimi valori terminali della Modernità: la «felicità» e il «riconoscimento da parte della società» (anche l'«eguaglianza» e l'«amicizia» vengono posti, sia nella fiction che negli spot pubblicitari, in netto secondo piano).

La moralità di un'azione viene inoltre sempre più a dipendere da chi la compie, la correttezza o meno di un comportamento viene riferita non a quel comportamento in sé, ma al personaggio che lo agisce: «A quanto pare» – conclude Condry – «gli spettatori di un programma hanno a disposizione diverse strutture morali, a seconda della loro familiarità con i personaggi. I giudizi morali di persone che non hanno familiarità con essi, pare, vengono dati in base ad una scala di moralità ideale, senza tener conto della simpatia dei personaggi stessi. Ben diversi, invece, i giudizi morali di persone che hanno familiarità con i personaggi, che li "conoscono" o nutrono sentimenti positivi o negativi nei loro riguardi. Ciò che non è ammissibile per le persone che ci stanno antipatiche è perfettamente accettabile da parte di coloro che amiamo». L'oggettiva 6â induzione di una doppia morale (tanto cara, del resto, alle ideocrazie comunista e giudaica) è allora il sesto degli aspetti devastanti la psiche dell'uomo.

Per quanto concerne infine la mondializzazione (la «democratizzazione» cantata da Boorstin!) delle «esperienze», gravissimi appaiono 7â la distruzione delle culture e l'appiattimento delle civiltà su di un unico modello psico-sociale, quello del demoliberalismo/giudaismo. Riguardo ai bambini delle ultime generazioni, ben scrive Marina D'Amato: «Si assiste per la prima volta nella storia dell'umanità alla diffusione di miti uguali per bambini di paesi e culture diversi. Gli stessi cartoni e gli stessi telefilm sono diffusi infatti in molti paesi del mondo contemporaneamente. Non esistono al momento attuale ricerche che indaghino comparativamente su questo fenomeno, e quindi non è possibile intervenire con opinioni in merito che non siano puramente ipotetiche. Ma si può ipotizzare che con le generazioni degli anni Ottanta e Novanta, che a livello planetario stanno crescendo con lo stesso scenario fantastico, psicologi e antropologi dovranno fare i conti considerando questa variabile».

Per secoli le fiabe sono state, con le leggende e le storie, parti essenziali di ogni realtà culturale, della quale si proponevano come esemplificatrici di miti, valori, simboli e comportamenti. Sempre la socializzazione dei giovani è passata attraverso il racconto degli eventi accaduti «prima», capaci di fornire sia paradigmi e strumenti d'azione per l'esperienza quotidiana, sia risposte per i fini ultimi della vita. Il mito, nelle sue diverse accezioni, ha sempre avuto una funzione di guida e riferimento, passando, da elemento religioso e cultuale, a informare da una parte poesia ed arte, dall'altra storia e morale. Anche la fiaba, trasposizione popolare di mitologemi e modalità di trasmissione culturale tra le più efficaci, è stata per millenni, in forme diverse secondo il diverso psichismo dei popoli, depositaria della cultura, che ritrasmetteva ad ogni sua riproposizione. Per millenni essa ha fatto sì che i processi interiori venissero esteriorizzati e resi comprensibili attraverso i personaggi e gli eventi della vicenda. Oggi, con l'avvento della televisione multirete e la contestuale diffusione mondiale del mezzo, si assiste, continua la studiosa, «ad un fenomeno nuovo, perché gli stessi episodi di commedie seriali, di telefilm o di cartoni intrattengono bambini brasiliani, francesi, statunitensi, giapponesi e persino cinesi... È lecito pensare che per la prima volta nella storia dell'uomo si possa andare verso una sorta di "omogeneizzazione culturale"? Siamo entrati da questa via nel villaggio globale ipotizzato da McLuhan? L'ideologia dei giovani del Novanta avrà a che fare con questo processo di socializzazione che la televisione sta operando oggi?».

«È infatti evidente» – commenta Alberto Ostidich – «che, con l'azione incessante e coordinata di immagini e suoni, l'agìto [e non lo spettatore quale attore e sceglitore del programma] venga a subire ciò che gli vien presentato come informazione, suggerimento, esempio, o altro; e la sua disponibilità ad accettarlo come valido ed oggettivo, ossia a coglierne acriticamente il messaggio, cresce nella misura in cui diminuiscono le sue difese inibitorie – immerso com'egli si trova in una realtà dove interagiscono toni suadenti ed effetti speciali, brio e relax, zapping e pensiero episodico. Immagini e suoni, inoltre, si avvalgono di forme non mediate per descrivere l'insieme, recepito come "vero", e quel loro succedersi, rapido e incalzante, imprime nello spettatore sensazioni tali da ridurre molto, assai spesso, o addirittura annullare ogni capacità analitica da parte sua. Se poi consideriamo che il destinatario del "messaggio" altri non è se non un individuo racchiuso ed isolato in una abitazione arredata in serie, e del tutto simile a quella di milioni di altri individui dagli stessi suoi orari di lavoro, pausa-pranzo, trasporto, etc.; che si tratta di un individuo con evasioni programmate, divertimenti e ferie organizzate; alle prese con gli identici, soliti "problemi quotidiani" di tanti e tanti altri, alle prese, soprattutto, con la mancanza di una propria vita interiore; ebbene, risulterà facile che quest'essere massificato e spotizzato vada a confluire, a seconda dei casi o delle situazioni, nella fascia degli sportivi, delle casalinghe pulitodipendenti, dei giovani, degli uomini che non debbono chiedere mai [personaggi-tipo di una campagna pubblicitaria], etc.; fasce verso cui sono distintamente indirizzate le varie forme di "acquisto del consumatore"... nel senso che è quest'ultimo ad essere di fatto acquistato».

Come per il cinema, uno degli aspetti più rilevanti dell'Operazione Piccolo Schermo – la diffusione cioè dei paradigmi mondialisti praticata dai Regimi di Occupazione Democratica imposti dopo il conflitto mondiale – si lega strettamente all'antirazzismo del Sistema, all'esaltazione della società multiculturale come massima ed anzi unica espressione possibile dell'essenza umana, alla raffigurazione del crogiolo multirazziale come Sommo Bene. Nulla serve di più, allo scopo, delle fittizie «famiglie» multicolori di serial tipo Diff'rent Strokes, «Arnold», o Webster (id.), o Small Wonder, «Super Vicky». Nel primo, prototipo di tutti gli altri, il protagonista, un ragazzino nero particolarmente odioso interpretato dal venticinquenne Gary Coleman cui un morbo renale ha «donato» un eterno aspetto infantile, viene adottato da una coppia di bianchi dell'alta borghesia newyorkese. Con lui, in una casa elegante e dotata di domestica bianca, vive un «fratello» più grande, anch'egli negro adottato. I problemi affrontati in ogni episodio riguardano i contrasti del Nostro con gli altri e con il mondo esterno, che la saggezza e la bontà del padre riescono di solito a ricomporre. La «saggezza» di Arnold, le sue analisi delle situazioni sono talmente proverbiali da costituire uno stereotipo; le sue espressioni di rammarico, di gioia o di meraviglia vengono talmente esaltate dai tratti del viso da sembrare una maschera (gli spettatori devono conoscere il mondo non dall'interazione con esso, non dagli specifici contesti storico-sociali o dal particolare comportamento dei diversi gruppi razziali, ma unicamente dalle smorfie dei protagonisti, smorfie uguali per il bianco come per il negro, per il giallo come per il meticcio). Il viso del protagonista mette in risalto ancor più la diversità razziale dei «genitori» e contribuisce a creare nella retina (e nel cervello) dello spettatore l'immagine dell'integrazione totale.

L'elemento che caratterizza i tre serial, secondo anche la D'Amato, «è quello dell'adozione di un "essere" diverso. Il fatto che famiglie bianche di media e alta borghesia adottino un bambino nero è un messaggio esplicito di integrazione razziale e di disponibilità a ridurre fino ad annullare la distanza sociale. Il problema del pregiudizio etnico viene così affrontato e risolto nel migliore [e più falso] dei modi, la commedia annienta la distanza sociale, paradossalmente esaltando le diversità. Infatti, in tutti i serial esaminati, i genitori hanno un aspetto che denuncia la loro origine WASP, detentori di buone posizioni sociali [...] di attività lavorative gratificanti, di mogli emancipate, gradevoli, intraprendenti».

Nella massima parte di tali spettacoli la quotidianità prevale sul mondo dell'avventura, caratterizzandosi per la perdita dell'eccezionale e il predominio dell'intimismo sentimentale: il minimalismo la fa da sovrano. La quotidianità offerta non è mai drammatica e si basa sulla contrapposizione dell'elemento interno con quello esterno, perturbatore ed imprevedibile, con lo scioglimento della vicenda in un'apoteosi di riassicurazione, finale ampiamente prevedibile fin dall'inizio. L'amicizia, l'affetto, l'amore sono gli elementi più frequenti; il conflitto sostituisce la guerra che, quando compare, è in relazione a cartoni tipo Robotech e Transformers (anche tali guerre sono sempre e solo azioni di difesa nei confronti di attacchi esterni, che minacciano la sempre pacifica esistenza dei «nostri»). La famiglia, cioè il contesto più scontato del piccolo teleutente, non viene comunque pressoché mai rappresentata nella sua dimensione «normale»: non esiste la famiglia biologica, composta da padre, madre e figli (e, perché no, anche nonni). La famiglia televisiva è invece un'unità atipica, fatta di volta in volta di padre e di figli, di madre e di bambini, di genitori separati o di vedovi, talvolta risposati fra loro, di nonni e di nipoti (l'unico esempio di famiglia «normale», nota caustica la D'Amato, è la mostruosa Famiglia Addams).

Nuovi schemi vengono instillati nel software della mente e nell'hardware delle reti neuronali, categorie di valori non solo differenti da quelle del plurimillenario vivere dei popoli, ma proprio nuove modalità di pensiero. L'incessante flusso di immagini e suoni relega la parola tra i ferrivecchi, poiché tutto può essere percepito anche senza l'audio (si pensi che, se nel Medioevo una persona-tipo entrava in contatto con una quarantina di immagini «finte» – affreschi, dipinti ed icone – nel corso di tutta una vita, oggi la stessa viene assalita da qualcosa come 400.000 immagini al giorno). All'aumento di importanza della comunicazione non-verbale segue quindi la resa della parola, poiché il significato di tutte le azioni può essere dedotto senza difficoltà anche dalle sole espressioni e dai gesti: «La fisiognomica ha un ruolo fondamentale, i volti sono degli universali simbolici. La collera, l'ira, la dolcezza, la bontà, la cattiveria, l'invidia sono atteggiamenti irrevocabilmente definiti dai segni che definiscono, pietrificandoli, tutti i personaggi. In questo contesto la vista ridiventa infinitamente più importante dell'udito, l'espressione diviene assolutamente più significativa delle parole, l'ambiente quasi inutile».

In questo contesto che privilegia l'azione e la suggestione, non ha più spazio la riflessione, nessuna cittadinanza l'argomentazione, nessuna possibilità la ragione.

Come hanno documentato Marie Winn e Allan Bloom, la TV ha effetti oltremodo perniciosi sia sull'educazione che sull'istruzione dei ragazzi. Il costante calo di voti degli studenti USA viene messo da molti in chiara correlazione con l'aumento del numero dei possessori di televisione dal 1950. È inoltre nell'autunno 1974 che un sondaggio indica che per la prima volta la maggioranza degli americani si abbevera, per conoscere il mondo, più alla televisione che ai quotidiani. La storia non offre altri esempi di Stati all'apogeo della potenza il cui livello culturale medio sia declinato così in fretta e con tanta profondità. Quattro soli dati tra i mille che potremmo citare: 42 studenti su cento dell'Università di Miami non hanno la minima idea di dove sia Londra; quasi 50, di fronte a una carta muta degli USA, non sanno trovare Chicago; uno su due non ha mai sentito nominare Moby Dick, uno dei romanzi fondanti della letteratura americana; due cittadini su tre non sanno indicare, nell'ottobre 1993, in quale continente si trovi la Somalia, terreno di caccia ai riottosi seguaci del generale Aidid per gli elicotteri clintoniani (da giugno ad ottobre, per inciso, a fronte della morte di un'ottantina di militari onusici vengono uccisi 6-8000 somali; nella sola maxi-sparatoria del 3 ottobre gli americani, presi dal panico, mitragliano indiscriminatamente la folla, uccidendo – a fronte delle duecento vittime ufficialmente ammesse – oltre mille persone, tra cui centinaia di donne e bambini).

Netta è la contrapposizione tra l'approccio televisivo al sapere e quello offerto dalla scrittura, tra l'uomo-non-verbale della televisione (homo videns, lo dice Giovanni Sartori, sottolineando come il Piccolo Schermo, producendo immagini passive, cancelli i concetti e atrofizzi «la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire») e l'uomo-tipografico del libro (che da parte nostra potremmo, con un pizzico di parzialità in suo favore, dire tout court homo sapiens); netta è la contrapposizione tra il mondo dell'intelligenza simultanea, che opera «sui dati simultanei e per così dire sinottici (come gli stimoli visivi, che si presentano in gran numero nello stesso momento, e tra i quali è difficile stabilire un ordine) e quindi ignora il tempo» e richiede un basso grado di governo (Raffaele Simone) e quello dell'intelligenza sequenziale, che opera sulla successione degli stimoli e li dispone in linea, astraendoli, analizzandoli e articolandoli gerarchicamente.

Ben si esprime Neil Postman: «Nella scuola due grandi tecnologie si scontrano, senza possibilità di compromesso, per conseguire il controllo dei cervelli degli studenti. Da una parte sta il mondo della parola stampata, che punta sulla logica, i rapporti di successione, la storia, l'esposizione, l'obiettività, il distacco, la disciplina. Dall'altra, il mondo della televisione, imperniato sulla fantasia, il racconto, la contemporaneità, la simultaneità, l'intimità, la gratifica immediata e la rapida risposta emotiva. A sei anni i bambini sono già profondamente condizionati dalla televisione. A scuola fanno conoscenza col mondo della parola stampata e si instaura una specie di guerra psichica, in cui i feriti sono molti: i bambini che non possono o non vogliono imparare a leggere, i bambini che non riescono ad organizzare il pensiero nemmeno nella struttura logica di una semplice frase, i bambini che non sono capaci di seguire una lezione o una spiegazione verbale per più di pochi minuti. Sono un disastro, ma non perché siano stupidi. Sono un disastro perché è in corso una guerra dei media e loro sono dalla parte sbagliata, almeno per il momento».

La televisione, continua il neurofisiologo Herbert Krugman in Memory without recall, exposure without perception, "Memoria senza ricordo, esposizione senza percezione", «insegna al bambino piccolo a "imparare a imparare" in un modo molto particolare, in qualche misura prima che sia in grado di parlare e, in molte famiglie di bassa condizione socio-economica o in società semi-analfabete, prima ancora che abbia mai visto un libro. Così il bambino impara a imparare con occhiate veloci. In seguito, se il bambino vive in una società in cui si richiede la capacità di leggere, egli confronta il nuovo strumento per "imparare a imparare" con le abitudini acquisite in precedenza dalla TV. Si sforza di comprendere i caratteri con occhiate veloci. Non funziona. Imparare a leggere è difficile, faticoso, e arriva come un fulmine a ciel sereno, in molti casi intollerabile».

I bambini che guardano la televisione molte ore al giorno – aggiunge l'olandese Cees Koolstra dell'Università di Leida, sottolineando di avere riscontrato in loro più difficoltà dei loro coetanei nella comprensione di testi scritti e nell'organizzazione del linguaggio – pensano per schermate, come facessero zapping col pensiero, percependo la realtà non come un tutto organico, ma come un insieme di immagini accostate a caso, non come una serie di eventi connessi da cause ed effetti. In più, tali bambini sono meno creativi di chi dedica il tempo libero alla lettura, sono più impoveriti nel gioco simbolico, fondamentale per lo sviluppo cognitivo. Diversi studi hanno ormai dimostrato che i ritmi rapidi e spezzati, le dissolvenze, gli zoom e la musica ad alto volume abbassano la soglia di attenzione. L'abitudine alla comunicazione per immagini, e quindi a tempi di attenzione brevissimi, rende gli scolari insofferenti ai ritmi esplicativi, piuttosto lenti, di una lezione dalla cattedra; i programmi densi di stimoli eccitativi ne aumentano i comportamenti impulsivi, le emozioni forti li allontanano da una vera comprensione degli eventi, spingendoli a rispondere ai problemi senza pensare più che tanto.

Significativamente, all'enorme aumento della varietà degli stimoli uditivi che veicolano messaggi e della tipologia delle immagini visive corrisponde un graduale e sempre più rapido arrestarsi, in tutto il mondo, del decremento dell'analfabetismo e all'aumento dell'analfabetismo di ritorno: «Stiamo tornando a una dominanza dell'orecchio e della visione non-alfabetica, e le giovani generazioni sono un'avanguardia di questa migrazione a ritroso. Il passaggio dalla dominanza dell'orecchio a quella dell'occhio, conseguente alla nascita della scrittura, era apparso un progresso definitivo, e ora invece si mostra come una delle fasi di un pendolo», una fase in cui l'uomo ha forse «rinunciato a una conquista evolutiva che la scrittura aveva stimolato, per fare un passo indietro. È quasi come se si lasciasse da parte la visione alfabetica – un medium pieno di trensioni e di "fatica" – per tornare a media più naturali, più primitivi, di minor grado di governo» (Raffaele Simone).

Sempre a prescindere dall'intrinsecità delle cose trasmesse, i media che veicolano le notizie vengono generalmente percepiti dall'uomo come supporti neutrali di accumulo e trasmissione di «dati» obiettivi; non viene cioè considerata nel giusto peso la loro natura di elaboratori di un'informazione che viene sempre e comunque pre-disposta dal cameraman e dal regista. Il Piccolo Schermo agisce sull'inconscio grazie al suo linguaggio particolare, poiché il funzionamento degli strumenti di ripresa è molto diverso da quello dell'occhio umano: la telecamera non riprende mai quello che lo spettatore vedrebbe se fosse davvero sul posto. L'occhio opera sui campi lunghi, offre continuità di azione e panoramiche complete, eventualmente scendendo sui dettagli in un secondo tempo. La telecamera invece riprende, indugiandovi innaturalmente, soprattutto i particolari, poiché i dettagli attirano maggiormente l'attenzione dello spettatore. Non solo: essa può essere posta in modo da deformare o persino celare la realtà: due inquadrature diverse di una piazza riempita da scioperanti, nota Focus, possono far sembrare la manifestazione un successo o un fallimento. L'impressione di vedere gli avvenimenti coi propri occhi può poi essere accresciuta in diversi modi. Nei collegamenti in diretta i rumori di fondo, anche se forti, vengono solitamente conservati, anche se le diverse piste del sonoro permetterebbero di eliminarli. Inoltre, il conduttore può interrogare dallo studio l'inviato sul posto, inducendo lo spettatore a far sue le domande a questo rivolte. Tale effetto è ancora più evidente se il presentatore è posto davanti a uno schermo dal quale le immagini arrivano in diretta: l'identificazione di chi guarda da casa è completa, la censura invisibile è completa, essendo fatta implicita, interiorizzata negli occhi, ricreata e persino voluta dal cervello dello spettatore (altro, quindi, che «finestra sul mondo»!).

L'idea del medium «neutrale» deriva in effetti dall'alfabetizzazione, che ci fa considerare la stampa come il medium informativo tipico, ove è il lettore ad agire da elaboratore, e cioè da soggetto attivo. Per intendere una sequenza di parole, cioè una successione di neri segni grafici su una superficie, l'uomo deve infatti trasformarli attivamente in immagini mentali; la lettura richiede al lettore di ricreare da sé il mondo del testo nella sua mente, ricostruendo da sé e dentro di sé il contenuto dell'informazione. Quando leggiamo, scrive Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan, dobbiamo creare «un senso interiore»: «Oltre ad essere il materiale di cui è fatta la nostra immaginazione, la lettura è anche il principale strumento grazie a cui possiamo mantenere il controllo di un processo immaginativo destinato a nutrirsi di libri nel corso della vita. Durante la lettura di una sequenza di lettere prefissate la mente è libera di prendere autonome decisioni. È anzi addirittura plausibile che l'idea stessa di Io individuale e di senso d'identità derivi in primo luogo dalla lettura».

Solo chi può sviluppare un proprio punto di vista è, invero, a tutti gli effetti un agente libero: «Con la TV, però, il punto di vista è al di fuori, e vi guarda dentro attraverso un fascio di elettroni [...] Quando il mondo occidentale era regolato solo dai libri, c'erano un "dentro" e un "fuori" per le nostre esperienze psicologiche. Il dominio esterno era pubblico, collettivo, stabile, affidabile ed oggettivo, era istituzionalizzato dalla legge, dall'istruzione e dalla scienza. Il dominio interno della mente, per ognuno di noi, rimaneva privato, personale e soggettivo [...] La TV fornisce [invece] un tipo di realtà "mentale" al di fuori del corpo e della mente. Mentre guardate la TV, se la vostra mente non si mette a vagare, se non avete in mano il telecomando, le immagini dello schermo si sostituiscono alle vostre. Partecipate all'immaginario collettivo, al pensiero collettivo che essa vi offre. In televisione, le immagini non provengono da esperienza personale, ma dal lavoro di una équipe di produzione professionale, spesso fortemente influenzata dalle statistiche e dalle indagini di mercato».

* * *

Le confuse particelle d'informazione lanciateci dal Piccolo Schermo e concernenti il nostro mondo problematico, complesso ed estremamente vario, non rappresentano alcunché di vicino al reale. Non è con gli spezzoni sincopati d'immagini accompagnati da commenti artefatti, che possiamo avvicinarci alla realtà. Quanti dei telespettatori dell'esecuzione, il 1â febbraio 1968, del «povero giovane» Van Lem, ufficiale dei Vietcong celato dietro il nome di battaglia di Bay Lop, da parte del generale Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia di Saigon, conoscono i retroscena del fatto? L'esecuzione, ripresa dal fotografo Eddie Adams dell'Associated Press e dal cameraman sudvietnamita Vo Suu della NBC, viene trasmessa il giorno seguente col titolo Rough Justice on a Saigon Street, "Giustizia sommaria in una via di Saigon", ed entra nei libri di storia. Enorme è l'impressione sul pubblico, nonostante i ritocchi compiuti onde evitare agli spettatori il fiotto di sangue che sprizza dalla testa del condannato. Quanti condividono i termini, usati da Stanley Karnow per Loan, di «spietato ufficiale», «spietata repressione» e «ben poca magnanimità», e della riduttiva qualifica di «uomo sospetto di appartenere al Vietcong» per il terrorista? Molti, certo. Quasi tutti, forse. Ma quanti sanno che, poco prima, il «povero giovane» cui salta la testa sotto l'impatto della pallottola aveva brutalmente assassinato diverse persone, tra cui un poliziotto, sua moglie e i tre bambini, ai quali non era stata concessa l'eguale fortuna di avere a disposizione una squadra di cameramen, cadendo per questo in un eterno oblio? (rintracciata trent'anni dopo dal settimanale People, ben confessa ad Adams la propria gratitudine Nguyen Thi Lop, vedova di Van Lem: «Senza la sua foto mio marito sarebbe scomparso nel nulla»).

Ciò che le immagini fanno realmente, è invero, con le parole di Jeffrey Mander, «rendere il mondo tanto confuso, grossolano e spento quanto lo stesso mezzo televisivo». Al posto del silenzio, della completezza dell'informazione, della meditazione permessa dal libro e dalla ricerca, spesso non facile, di una esaustiva documentazione, ci sono nella televisione frastuono, frammentazione, suggestione e tecniche di persuasione, esplicita o più o meno occulta, facenti leva sulle caratteristiche sensoriali e mentali più basse dell'essere umano. Con la sua sola presenza, e a maggior ragione col vibrare delle onde elettromagnetiche, la televisione minaccia la sacrosanta autonomia che l'essere umano ha faticosamente acquisito grazie al leggere-scrivere.

Sempre più arduo, quando non impossibile per chi non abbia la mente – e il cervello – pre-strutturati, si fa il pensiero meditato e lineare, logico e consequenziale. Come rileva lo psichiatra Vittorino Andreoli, la televisione, in particolar modo quella commerciale, porta a smarrire la parola, disorganizza e de-struttura il pensiero (soprattutto nei giovani), massacra non solo e non tanto i programmi trasmessi ai suoi fini, quanto la più profonda capacità di coerenza dell'essere umano, la sostituisce con l'evocazione (passiva) di «punti» meramente suggestivi – spot – e schegge telefilmiche. «Ogni storia» – scrive Andreoli – «è frammentata dal produttore per inserirvi spot, la vera motivazione dell'impresa televisiva, e dal singolo per la curiosità di verificare gli altri canali [...] Le immagini sono più efficaci del linguaggio verbale, sia perché sono immediate, sia perché suscitano emozioni forti. Una foto è generalmente più espressiva di una parola e ancor più di un suono e di un rumore. Nello zapping si uniscono i due codici di comunicazione e l'insieme ricorda un caleidoscopio parlante, con variazioni di colore, di toni e di vocaboli urlati o sussurrati [...] Se confrontato con il sistema della Scolastica e dunque con il procedere per gradi e per regole fisse (il sillogismo, la metafora, la sineddoche), lo zapping appare follia, schizofrenia appunto. Un disturbo che si caratterizza per la dissociazione logico-verbale e per la mancanza di qualsiasi coerenza razionale [...] Lo zapping ha tre possibilità: ordinarsi in categorie della mente preformate (innate) o di formazione storica, o riflettersi senza elaborare nulla. La mente in quest'ultimo caso è passiva e si azzera non appena lo stimolo si spegne. La constatazione è che il giovane d'oggi non funziona per sistemi: non rispetta le sequenze né della logica razionale né di altre logiche. Come se tutto si accumulasse senza ordine. Rimane naturalmente la facoltà di pronunciare parole, suoni, di usare espressioni mimiche: insomma di comunicare per zapping. I giovani d'oggi sono abilissimi nell'evocare, ma incapaci di costruire periodi. Come se le strutture della mente si fossero fermate e, appunto, dissociate».

E all'italiano si affianca De Kerckhove (nel saggio dal significativo titolo Il corpo tecnologico): «Quando si legge un romanzo, la parola scritta è interiorizzata e questa interiorizzazione è anche la condizione di appartenenza al Sé e di organizzazione della coscienza personale. La coscienza individuale non esiste senza questa appropriazione dell'immaginario e la riappropriazione dell'immaginario dipende dallo sviluppo della storia della letteratura, che è fondamentale per l'educazione dell'immaginario privato degli individui: leggere romanzi, poesie, è una forma di riappropriazione di sé stessi. Ma quando appaiono la fotografia, il cinema e soprattutto la televisione, tutto cambia [...] È con la televisione che si completa la rivoluzione dell'esteriorizzazione totale del principio d'immaginazione, portato all'esterno della mente, su di uno schermo». «Tra tutti i sistemi di scrittura» – continua il canadese in La civilizzazione video-cristiana – «l'alfabeto fonetico è quello che favorisce maggiormente la messa in circolazione dei concetti. Questo implica che le attività cerebrali incoraggiate dalla scrittura e dalla lettura alfa-fonetiche ci allontanino doppiamente dall'esperienza sensoriale immediata, innanzitutto con la rappresentazione e poi con la concettualizzazione a cui questa rappresentazione rinvia».

Analizzando il contrasto o, meglio, la radicale alternativa tra parola ed immagine, uno studio inglese compiuto su un campione di quarantamila persone, pubblicato nell'autunno 1994 dalla rivista scientifica Nature rileva lo strapotere del medium televisivo nei confronti, ad esempio, della radiofonia (e tanto più nei confronti della parola scritta). Conviene maggiormente – chiedono gli autori – ad un uomo politico che vuol dare di sé un'immagine suadente, servirsi più della radio o del Piccolo Schermo? L'ovvia risposta – concorderà il lettore – è la seconda: in televisione, a meno di evenienze del tutto singolari, legate soprattutto a chi lancia il messaggio, le bugie passano più inosservate, sicché lo spettatore si lascia convincere più facilmente. E la differenza tra i media non dipende dal tipo di pubblico che segue i programmi, perché, nel caso della radio, una stessa persona rileva più facilmente se chi parla afferma il falso o non è convincente. A governare l'imbonimento televisivo è infatti il meccanismo dello sfruttamento dell'attenzione selettiva: il concentrarsi dello spettatore su stimoli particolari, accompagnato dallo «spegnimento», più o meno radicale, degli altri. Sul Piccolo Schermo passano così in netto secondo piano i segnali verbali (le parole, il loro numero, la lunghezza delle frasi), travolti o perfino sostituiti da quelli vocali (il modo con cui le parole sono pronunciate, l'intensità della voce, le pause, le esitazioni) e da quelli visivi emessi durante la comunicazione (presentazione globale, sguardo, movimento del corpo, espressione del viso).

Inoltre, rileva Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell'Età Evolutiva, a differenza che per la vita reale, ove quando guardiamo un gruppo di persone o un paesaggio percepiamo soltanto una parte del quadro visivo con la fovea – cioè con quel punto della retina in cui la visione raggiunge la maggiore acutezza – percependo il resto con la meno nitida visione periferica, quando guardiamo il teleschermo «poichè esso è di piccole dimensioni, noi percepiamo l'intera immagine con l'acuta visione della fovea: in questo modo, mancando la visione periferica, la nostra attenzione per l'immagine televisiva aumenta e, aumentando l'attenzione, tende ad aumentare anche il rilievo che noi diamo alle immagini che stiamo guardando. Un secondo fattore è legato al movimento. La nostra attenzione di spettatori dipende anche dalla quantità di movimento presente sullo schermo: un ritmo veloce ha in linea di massima l'effetto di aumentare il livello di attenzione. Movimenti rapidi, musica incalzante o forte producono uno stato di allerta del sistema nervoso».

Col passare del tempo, tale ipercinesia comporta però conseguenze sgradite di affaticamento, calo dell'attenzione cosciente e intorpidimento: «In più dell'80% delle persone il cervello ha un ritmo alfa durante l'ascolto prolungato, si verifica cioè una condizione cerebrale di rilassamento prossima al dormiveglia in cui i muscoli sono rilassati e gli occhi atonici. A quel punto gli stimoli provenienti dal teleschermo possono assumere una valenza irreale, simile al sogno. Questo spiega quella sorta di trance in cui cadono molti spettatori dopo un'ora o più di esposizione al teleschermo. E può spiegare anche la funzione ipnotica della TV, la difficoltà a "staccarsi" dallo schermo e il fatto che su alcuni la televisione agisce come un sonnifero».

Dal punto di vista neurofisiologico l'attenzione è stata studiata misurando i tipi di onde cerebrali che si attivano quando uno stimolo viene inviato da un certo centro piuttosto che da un altro e attraverso un certo canale sensoriale piuttosto che un altro. Nell'area corticale in cui lo stimolo viene decodificato, ad esempio, si verificano particolari modificazioni elettro-chimiche, dovute all'entrata in gioco della formazione reticolare e del talamo, due centri nervosi da cui dipendono le caratteristiche degli stati di vigilanza. Come rileva De Kerckhove: «Alcuni generi di attività concertate e praticate a lungo incoraggiano delle specializzazioni selettive, che si inscrivono e si consolidano nell'insieme relativamente flessibile del cervello e di tutto il sistema nervoso, soprattutto nella prima infanzia».

Sono i «nuclei della base» – la sostanza reticolare ed il talamo – a determinare gli stati di attivazione della corteccia, cioè uno stato di maggiore o minore attenzione a questo o a quello stimolo; attraverso un complesso gioco di azione/retroazione, essi aprono però i canali preferenziali per gli stimoli non tanto in modo autonomo, quanto in seguito alla superiore «decisione» della corteccia di prestare al mondo esterno un particolare tipo di attenzione. Attraverso tali meccanismi la coscienza, cioè la risultante sistemica dell'attività integrata di ogni singolo centro nervoso, tale per i miliardi di eventi che l'hanno strutturata quale unicum irripetibile, può 1. focalizzarsi su un certo aspetto del mondo esterno, 2. vagare senza un punto fisso di interesse o 3. trovarsi in uno stato di confusione nel quale gli stimoli si accavallano in continuazione e l'attenzione fluttua anarchicamente.

È stato in tal modo osservato, rileva il fisiologo Alberto Oliverio, che se si presta attenzione ad un unico canale sensoriale – quello uditivo nel caso della radio – tutti gli altri stimoli vengono tagliati fuori, per cui l'ascoltatore ha modo di rilevare, e analizzare criticamente a dovere, le pause, le inflessioni della voce, i tentennamenti e le ripetizioni, tutte cose che spesso «spiazzano» chi vuol far credere qualcosa di falso. Nel caso del Piccolo Schermo, invece, l'abile mentitore ha tutto il modo di distrarre lo spettatore, in quanto questi si sofferma «naturalmente» sullo sguardo accattivante di quello, magari sul tic che lo "fa personaggio", sul modo in cui è vestito, etc., trascurando le caratteristiche intrinseche del messaggio uditivo.

Inoltre, «spettacolarità e ritmi delle trasmissioni creano condizioni di facile credibilità e favoriscono il formarsi di opinioni che sono razionali solo in apparenza [...] La nostra mente, infatti, è caratterizzata da strategie che le consentono di rispondere rapidamente a una particolare situazione sulla base di un giudizio di massima, ma questo giudizio va rivisto e corretto attraverso una logica meno "intuitiva", il che non è generalmente possibile quando i tempi sono molto rapidi, come negli show televisivi in cui succedono "tante cose", una serie di eventi e testimonianze che di continuo propongono nuovi problemi, senza lasciare il tempo di affrontare razionalmente un problema posto all'inizio».

In particolare nel campo della pubblicità (ma non meno in quello dei notiziari giornalistici), a prescindere dall'incredibile alluvione di vacuità e (apparenti) insensatezze, si «sparano» senza problemi immagini velocissime con continui mutamenti di scena che provocano una «conoscenza involontaria» attraverso un autistico aumento dell'attività cerebrale (in uno spot della Pontiak l'immagine più lunga fu di un secondo e mezzo, la più breve di un quarto di secondo!). È indispensabile, quando ci si proponga di catturare l'attenzione dei telespettatori, rispettare una precisa cronodinamica fatta di ritmi rapidi, di frasi semplici e brevi, di immagini che colpiscono immediatamente la fantasia e i sentimenti, è indipensabile limitare quando non escludere esplicitamente il processo logico.

Ben commenta, attraverso un suo personaggio, il romanziere John Fowles: «Per qualche minuto parlammo di cinema. Avevo l'impressione che continuasse a recitare. Mi ascoltava fissando il suo bicchiere e scuotendo i cubetti di ghiaccio, con deferenza innaturale come se avesse preferito chiacchierare con la hostess. Poi ricominciò a parlare di televisione, della sua natura effimera, della "quantità sbalorditiva di puttanate" che i suoi programmi contenevano. Era un trauma, o un tormento, per il quale ero passato anch'io; la tirannide di un pubblico di massa, la necessità di eliminare istinto, cultura, finezze e tante altre cose per arrivare alla verità basilare della condizione umana: che la maggioranza è ignorante e vuol essere trattata da idiota, o almeno è per questo che paga. Gli spettatori sono coglioni, come mi disse sinteticamente una volta un famoso regista di Hollywood, e i coglioni odiano l'intelligenza».

Come sottolinea compiaciuto uno dei «maghi» del palinsesto, l'ex anarchico sessantottino Carlo Freccero, già direttore della programmazione di Italia 1 e nel 1996 sinistro direttore di Raidue, «per avvincere il maggior numero di spettatori per il maggior tempo possibile, la TV deve domandare uno sforzo mentale minimale». La maggior parte delle tecniche televisive affonda infatti le radici nello sfruttamento e nell'inversione di una tendenza umana con basi emotive: l'interesse per i momenti salienti. Con ciò non solo suggerendo implicitamente l'inutilità dello sforzo, dell'applicazione e della fatica personale ai fini della crescita informativa/intellettuale (e quindi in ogni caso morale), ma anche trascurando o relegando in secondo piano ogni sfumatura psicologica e l'incredibile, meravigliosa complessità della vita.

Occorre quindi da parte nostra avere sempre presente tutta la profondità della confessione di Bob Silberberg, che va perfino al di là di ogni manipolazione specificamente politica (anche se fare di una persona uno zombi è un fatto, ovviamente, politico): «L'errore più grave consiste nel credere che noi in televisione lavoriamo per produrre programmi. Ciò è assolutamente falso. Benché le trasmissioni siano il nostro prodotto visibile, in realtà le grandi reti televisive americane lavorano per produrre telespettatori» (corsivo n