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Simmetrie e coefficienti di correlazione (platonici si nasce)

di Sergio Garufi - 18/01/2007

 

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Platonici si nasce, e io, modestamente, lo nacqui. Me ne resi conto un giorno di 8 anni fa, quando un amico, che conosceva la mia passione per Houellebecq e Cioran, mi consigliò di visitare un sito in rete che elaborava dei coefficienti di correlazione fra autori diversi, ossia stabiliva matematicamente quanto due variabili statistiche x e y fossero collegate fra loro. Il risultato per il rumeno e il francese era di 0,98. In sostanza, a un estimatore dell’uno non poteva non piacere l’altro.

Se non fosse che ho sempre dichiarato la mia insofferenza verso la semplificazione delle dicotomie, qui contraddetta in modo imbarazzante, aggiungerei che questo giochino vale anche per le contrapposizioni. Chi ama il compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca non può apprezzare il pudore della crocifissione del Masaccio: nel primo la Maddalena ha i tratti del volto stravolti dal dolore in modo quasi caricaturale e grottesco; mentre nel secondo questo sentimento viene solo suggerito dalla posizione delle braccia di lei, essendo ritratta di spalle. E, in genere, chi preferisce Niccolò dell’Arca è un estimatore del film Magnolia di Paul Thomas Anderson; mentre i “masacciani” (sempre restando su pellicole simili, cioè corali) sono soliti optare per il più sobrio e carveriano America oggi di Robert Altman. A questo punto nulla vieterebbe, se non un briciolo di buon senso, di fantasticare una futura applicazione sentimentale di quei coefficienti di correlazione, una qualche formula matematica in grado di preservarci dal dolore dei brutti incontri e dai traumi delle separazioni.  

 Se le affinità fra Houellebecq e Cioran erano in fondo abbastanza evidenti (il nichilismo, per es.), meno chiare mi apparivano invece le ragioni di altre mie infatuazioni giovanili, quale quella per Borges e Piero della Francesca, se non altro per le differenti epoche storiche e discipline artistiche. Cosa avevano in comune uno scrittore argentino del Novecento e un pittore toscano del XV secolo? Rintracciare il fil rouge delle proprie passioni è un esercizio meno ozioso di quanto possa sembrare. Per certi versi spiega molte cose anche di se stessi, aiuta a conoscersi meglio.  

 Quando studi un artista per anni, in modo quasi monomaniacale, arrivi a un punto in cui hai l’impressione - fallace o autentica non importa - di conoscerlo intimamente, come fosse un amico che incontri tutti i giorni. Per te è, a tutti gli effetti, una sorta di anima gemella che ti parla da un’epoca lontana. Può essere un persona vissuta 500 anni fa, di cui esistono scarsissimi documenti biografici, eppure ne percepisci con forza la personalità, ne intuisci le fattezze, comprendi le ragioni dei mutamenti del suo stile con gli anni. Forse tutto questo precede addirittura lo studio, nel senso che la scelta di studiarlo viene fatta in base all’intuizione delle affinità, piuttosto che rivelarsi successivamente. Successivamente te ne accorgi, ne sei consapevole, sai spiegare in qualche modo le ragioni di quell’interesse, ma queste preesistevano, e si erano manifestate sin dal primo contatto. 

 Pur essendoci enormi lacune documentarie riguardo alla vita di Piero della Francesca, le poche cose certe che sappiamo sul suo conto autorizzano a istituire un parallelo verosimile con Borges. A prima vista entrambi condussero un’esistenza relativamente tranquilla, celibe e agiata. Certo, l’argentino formalmente si sposò, ma i suoi furono matrimoni farsa, contratti di assistenza domiciliare. Entrambi poi furono molto legati alla loro patria e rimasero ciechi in tarda età. La prova che Giorgio Vasari diceva il vero sulla cecità di Piero nelle sue Vite fu una distratta menzione in una Cronichetta biturgense del 1556 ad opera di Berto degli Alberti, nella quale l’autore intervistava alcuni cittadini di Sansepolcro fra cui Marco di Longaro, un piccolo artigiano che realizzava lampade a olio. Leggere quel brano mi colpì, mi identificai un po’ con l’intervistato, ricordando i giorni in cui accompagnavo Borges per le strade di Roma o di Volterra. Rispondendo a una domanda di Berto degli Alberti, l’anziano Marco di Longaro rammentava che da giovane, molti decenni prima, aveva “datto il braccio” al grande pittore cieco per le vie della loro città; e, meno nelle parole che nel tono usato, in lui traspariva un misto di orgoglio e di rimorso, come se si fosse reso conto soltanto in quell’istante che la sua lunga vita, fatta di lavoro e di affetti, sarebbe passata alla storia solo di riflesso, per quell’episodio che all’epoca gli parve insignificante.   

 “Tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici”. Così sentenzia Samuel Taylor Coleridge in Table talk (1832). “Gli uni” – chiosa Borges – “sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo giuoco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale.” In questo senso, Borges e Piero (e pure il mio io di allora) appartenevano indubbiamente alla seconda categoria.  

 Studiando le loro opere, la prima cosa che notai fu l’amore per le simmetrie. Per entrambi la simmetria è il punto di sintesi, lo strumento grazie al quale ogni antinomia si placa e si risolve. Un evidente esprit de geometrie anima le loro opere. Penso alla riflessione verticale degli angeli della Madonna del Parto di Monterchi, disegnati con lo stesso cartone, o agli alani contrapposti di Sigismondo Malatesta a Rimini, o ancora ai ritratti dei duchi di Urbino e alla Madonna della Misericordia. In Borges la simmetria si manifesta in un gioco di contrapposizioni tematiche, vedi ad esempio la disputa fra i due teologi, che agli occhi di Dio sono le due facce della stessa medaglia, o i destini speculari del guerriero e della prigioniera. Ma tracce di questa ossessione simmetrica si potrebbero rinvenire pure nello stile, con l’uso insistito della doppia aggettivazione. La simmetria trasmette loro un senso di ordine, di armonia, di bilanciamento dei contrasti. Il fine dell’arte sembra essere quello di ridurre la massa caotica delle vérités de fait all’ordine divino delle vérités de raison. L’impersonalità e l’atarassia dei loro personaggi sono gli attributi di un mondo reificato, che anela alla grazia e all’innocenza dell’inorganico, un mondo in cui è bandito il dolore. 

 Le rare volte in cui l’asimmetria si manifesta nelle loro composizioni è come se la vita irrompesse brutalmente a urlare il suo strazio. La Pala Montefeltro è la prima opera di Piero che vidi. Subito mi balzò agli occhi quell’assenza sottolineata, come se tutte le linee della composizione precipitassero in un buco nero, ossia là dove era lecito aspettarsi la presenza di Battista Sforza orante in ginocchio sotto l’omonimo santo. Ogni cosa si bilancia intorno all’asse della Madonna con Gesù bambino, l’architettura stessa pare disporre le figure: due angeli per lato e tre santi da entrambe le parti. Poi il donatore, Federico, e dall’altra parte nessuno. Quel vuoto è l’elemento che ha permesso di datare il dipinto, realizzato successivamente alla morte della moglie, ossia dopo il 1472. Ma quell’asimmetria è soprattutto il dolore inconsolabile di un lutto. E in fondo cos’è un amore non corrisposto, se non un’asimmetria dei sentimenti? E le malattie?   

 Anche in Borges le asimmetrie compaiono di rado, e veicolano il medesimo messaggio. Al pari di Piero, il suo universo platonico, incorruttibile ed eterno, è fondato sulla geometria. Ne La morte e la bussola egli sviluppa un puro problema di logica e geometria, fondato sui simboli del numero 3 e del numero 4, del triangolo e del rombo. Dice bene Ernesto Sábato: Red Scharlach pensa ed esegue un piano matematico. Il criminale ucciderà il detective che gli dà la caccia in un punto prefissato della città, come chi termina una dimostrazione: more geometrico, perché in quel racconto non si commettono omicidi, si dimostra un teorema. La stessa ambientazione, opportunamente privata di precise e riconoscibili coordinate spaziali, serve alla dimostrazione, tanto che, a rigore, il testo avrebbe potuto cominciare con la formula rituale dell’universo matematico: “si prenda una qualsiasi città X”. Trasformandosi in pura geometria, il racconto entra nel regno dell’eternità, si sottrae alla maledizione di Eraclito

 Per Borges e Piero l’universo platonico è un invulnerabile rifugio di astrazioni in cui si annullano le differenze individuali e il dolore e i sentimenti non hanno cittadinanza. Lo spirito incarnato, la realtà sudicia e infetta va indovinata nelle pieghe nascoste dei loro giochi intellettualistici, là dove il pudore vien meno. E’ il caso del finale di Nuova confutazione del tempo, il saggio di Borges più lungo ed elaborato (incluso in Altre Inquisizioni). Dopo un’estenuante e pedantissimo elenco delle teorie filosofiche che confutano l’esistenza del tempo, tutte presentate con una costruzione sintattica specularmene simmetrica, nella chiusa l’argentino confessa, in modo intenso e commovente, che “negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete […] Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono quel fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.”