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Il Nicaragua che non ti aspetti

di Fabrizio Casari - 23/01/2007

 


Lo avevano definito con due letture contrapposte: una che lo voleva “demonio” e l’altra che lo trovava aspirante angelo del paradiso del compromesso. Daniel Ortega, neopresidente del Nicaragua, ha subito la singolare sorte di non piacere a nessuno al di fuori dei sandinisti, che corrispondono più o meno a quel 39 per cento di nicaraguensi che l’hanno votato e che, con il determinante contributo della divisione fratricida dei liberali, gli hanno aperto le porte alla vittoria elettorale dopo tre sconfitte.
Ortega ha dato inizio al suo mandato nel modo che pochi si aspettavano. Persino i suoi detrattori di estrema destra, tenutari dell’animo somozista che alberga nelle case ricche della borghesia compradora nicaraguense, avrebbero comunque giurato di vedere il neo presidente indossare i panni dell’agnello per nascondere bene il pelo del lupo. Gli altri, quelli della sinistra sempre “oltre”, indice puntato e naso all’insù, (molti residenti in Italia) erano del resto convinti che i concetti di “amore e riconciliazione” fossero entità sostitutive di quelli di riscatto popolare e giustizia sociale nel lessico del neosandinismo. Spiazzati.



Ortega, sin dal suo giuramento, ha stravolto i pronostici, almeno quelli mediatici. Ha reso Hugo Chavez testimonial principale della sua cerimonia di trasmissione dei poteri presidenziali. Con al fianco il presidente venezuelano ha pronunciato il suo discorso d’investitura di fronte a centinaia di migliaia di nicaraguensi. Un discorso come quello che la militanza sandinista si attendeva: guerra alla povertà, niente liberalizzazioni se non convenienti, sovranità nazionale ed unità latinoamericana. Dunque ALBA e non ALCA, cooperazione e non indebitamento, salute e istruzione gratuita. Parole latitanti da sedici anni che hanno ritrovato vigenza. Con loro, Evo Morales, presidente della Bolivia e membro autorevole dell’asse latinoamericana, che vede nella sovranità nazionale, nell’indipendenza da Washington e nell’integrazione regionale, la trinità della nuova era per il paese andino e per la regione tutta.

E mentre Chavez e Morales atterravano nelle loro rispettive capitali, in Nicaragua giungeva il Presidente iraniano Ahmadinejiad, protagonista assoluto dello stato canaglia che, proprio con Chavez, Castro ed alcuni miliardi di individui globalizzati, formano densità e confini dell’”Impero del male”, cioè quello che non obbedisce all’impero del “Bene”.
Proveniente da Caracas, dove insieme a Chavez ha discusso di strategie da concertare in seno all’Opec per frenare l’offerta e dunque il ribasso del greggio, il presidente persiano è giunto a Managua, dove è stato accolto con tutti gli onori. Con lui Ortega ha condiviso poche parole e siglato molte intese. Se Ahmadinejiad ha inteso proporre un ruolo di Teheran in America latina, anche per sfuggire all’isolamento politico che l’Occidente gli ha prescritto, il Nicaragua, che invece con l’Iran ha un dialogo forte (come del resto con la Libia) è pronto ad interloquire. Se, come pare, Teheran ha intenzione d’investire in Centro e Sud America, per ampliare il raggio d’azione delle sue relazioni commerciali e far fruttare ulteriormente i proventi del suo export petrolifero, Managua è pronta a coglierne i frutti.

Così come, d’altra parte, è pronta ad accogliere i poderosi investimenti che la Cina ha intenzione di rovesciare sull’America Centrale, dopo quelli (circa 1000 miliardi di Euro) investiti nel Cono Sud, in particolare tra Brasile e Argentina solo nel 2006. La Cina guarda con molto interesse all’enorme mole di finanziamenti che permetteranno la costruzione del nuovo canale interoceanico proprio in Nicaragua. Il nuovo canale, collegando oceano Atlantico e Pacifico con una capacità di navigazione di gran lunga superiore per dimensioni a quella di Panama, rende il Nicaragua paese quanto mai strategico nell’equilibrio geopolitica della regione.

Con l’apertura degli investimenti in Nicaragua, Pechino da un lato amplierebbe i suoi affari in Centro America, fino ad oggi limitati ad un notevole ammontare solo a Cuba; dall’altro, il suo attivismo commerciale e politico produrrebbe una brusca marcia indietro per Taiwan, fino ad oggi spacciatore di zone franche in Nicaragua ad altissimo profitto e zero diritti. I taiwanesi, infatti, hanno letteralmente “arato” il Nicaragua dei governi liberisti negli ultimi 16 anni, ma il loro planare sull’economia nicaraguense e sul tessuto sociale del piccolo paese centroamericano è stato simile a quello delle cavallette.

Con la riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba, la sigla dell’ALBA, la cooperazione (enorme) con il Venezuela e gli accordi con l’Iran, Daniel Ortega é passato così di nuovo da “oggetto d’attenzione” a “oggetto di preoccupazione”. Gli Stati Uniti, dai quali si attendeva una reazione infastidita, ai limiti della crisi diplomatica, non sembrano però voler inviare avvertimenti di sorta. Anzi, i suoi funzionari del Dipartimento di Stato, accompagnati da quelli degli organismi internazionali, continuano a dirsi fiduciosi in relazione all’agenda politica del governo sandinista.

Lo stesso Ortega, del resto, continua a dirsi pronto ad intensificare i rapporti con Washington aggregando la semplice quanto devastante postilla della “pari dignità” al tavolo dei negoziati. Che riguardano la modifica del Cafta, il ruolo delle forze armate nello scacchiere regionale, la lotta al narcotraffico e alla corruzione. Tira un vento nuovo su Managua: gli anni ’80, nonostante le rievocazioni simboliche, appaiono lontani. L’inesperienza di ieri è diventata l’abilità dell’oggi.