Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ussari. Lo stile è tutto, oltre le ideologie

Ussari. Lo stile è tutto, oltre le ideologie

di Stenio Solinas - 23/01/2007

Accomunati da molta presunzione, da uno stile fiammeggiante, dal gusto per la provocazione

e per lo scandalo, da notevole esibizionismo, ma soprattutto dal piacere dello scontro.

Il ritorno del

morto”. Si

chiama così

la commedia

che Gustave

Flaubert

avrebbe voluto

scrivere e a cui Paul Morand

non fa che pensare. La Seconda

guerra mondiale è finita e quello

che è stato il più popolare e invidiato

scrittore francese degli anni

Venti e Trenta si ritrova nei panni

scomodi del “proscritto”, del collaborazionista”.

Vive in Svizzera, i

suoi vecchi libri non si ristampano

più e quanto ai nuovi è costretto a

pubblicarli per editori minori, tiratura

e distribuzione mediocre, nessun

battage, nessuna eco di stampa.

Quando - e se - citano il suo

nome, gli intellettuali alla Jean-

Paul Sartre, che ora vanno per la

maggiore, lo liquidano come

“scrittore borghese di prima della

guerra”... lui che ha inventato un

genere e rivoluzionato uno stile,

lui che ha “introdotto il jazz” nella

cartesiana lingua della letteratura

francese, l’unico - per ammissione

di Céline - con una “musica” paragonabile

alla sua per timbro e originalità.

Céline, già... Anche l’autore

di Viaggio al termine della

notte è in quegli anni un “proscritto”,

un “collaborazionista” cui la

Danimarca ha dato un’ospitalità

“pelosa”, e quindi quel giudizio

che un tempo era un complimento,

oggi suona come una condanna,

meglio non tirarlo fuori, ”quieta

non movere”, meglio forse farsi

dimenticare, accontentarsi di non

averci lasciato la pelle, per propria

scelta, per decisione altrui. A

Drieu, a Brasillach, in fondo è

andata peggio.

E tuttavia sul “ritorno del morto”

Morand continua a fantasticare.

L’idea della pièce flaubertiana ruotava

intorno alla scomparsa di uno

scrittore famoso, alla gioia che

rivali sconfitti in letteratura e in

amore, semplici invidiosi, falsi

amici, provano alla notizia: ora che

non c’è più, che non può più né

difendersi né offendere, ora che

non fa più paura, si può dare libero

sfogo all’odio, alla calunnia, alla

maldicenza... Ma al secondo atto lo

scrittore ricompare e la gioia si

trasforma in costernazione, nel

timore di una vendetta, nella consapevolezza

del disprezzo che si

legge nei suoi occhi. Morand ha

sessant’anni ed è così che sogna il

suo ritorno sulla scena letteraria di

Parigi. Ha solo bisogno che qualcuno

creda in lui e lo riporti in vita.

Le soufre et le moisi. La droite littèraire

aprés 1945. Chardonne,

Morand et les Hussards (Perrin,

237 pagine, 126, 45 euri) di François

Dufay racconta proprio questo:

il “secondo atto”, ovvero la

resurrezione di uno scrittore. Lo fa

attraverso un lavoro di archivio, di

testimonianze e di corrispondenze

private che ci consegna un inedito

ritratto della Repubblica delle lettere

francesi nel momento in cui,

attenuatosi il fuoco dell’epurazione

idelogica e politica e della

riprovazione morale pubblica e privata,

i giochi si riaprono e ci si

accorge che non basta aver vinto

per scrivere buoni libri e l’aver perso

non significa necessariamente

scriverne di brutti.

Una nota polemica di Roger Nimier

indirizzata alla giornalista dell’Express

Madeleine Chapsal riassume

benissimo la questione. “Voi non

amate che la sbobba malcotta dei

vostri amici, gli esistenzialisti. Provate

dunque dei cibi più raffinati, vi

educheranno il gusto. Cominciate a

leggere Nimier, Marcel Aymé, Céline,

Chardonne infine! Naturalmente,

abituata al rancio, all’inizio vi

sembreranno magri. Ma ci farete

l’abitudine”. Nimier è il capofila di

quelli che verranno definiti “gli

ussari”, scrittori e giornalisti che in

quegli anni Cinquanta hanno intorno

ai trent’anni, detestano Sartre e

Simone de Beauvoir, “i Bouvard e

Pecuchet della Rive Gauche”, trovano

noiosa la letteratura “impegnata”,

ce l’hanno con i funzionari

di partito che scrivono romanzi, disprezzano

le ideologie e puntano tutto

sullo stile.

Ne fanno parte Michel Déon, François

Nourissier, Jacques Laurent,

Antoine Blondin: c’è chi morirà

giovane, per un incidente di macchina

o per eccesso di alcol, chi

Accadémie française... Tutti o quasi

sono orfani di padre: Nimier ha perso

il suo a 14 anni, Déon a 13,

Nourissier a otto, quello di Blondin

è addirittura morto suicida... Tutti

però sono accomunati da molta presunzione,

uno stile fiammeggiante,

dal gusto per la provocazione e per

lo scandalo, da un certo esibizionismo,

dal piacere dello scontro.

“Ussari”, appunto, secondo la

definzione di un collega, Bernard

Franck, che non li ama e però li

rispetta. E come ogni ussaro degno

di questo nome, hanno i loro “grognards”,

i veterani da cui hanno

imparato a combattere, i veterani

per i quali si farebbero uccidere.

Paul Morand è fra i grognards preferiti.

Poi c’è Chardonne...

Chardonne è l’altra faccia di

Morand. È sedentario quanto l’altro

è nomade, provinciale e non cosmopolita,

calvinista e non pagano,

platonico e non libertino. “Amo in

Morand il contrario di ciò che io

sono” dirà a Jean Paulhan, il guru

delle edizioni Gallimard: “di me

stesso ne ho abbastanza e detesto i

miei parenti o discendenti”. Di

quattro anni più vecchio, ciò che lo

accomuna al brillante amico è l’essere

stato anche lui dalla parte sbagliata,

anche se in modo meno

vistoso, l’aver fatto della scrittura

una religione, la secchezza dello stile,

il cinismo di chi ritiene di avere

una missione artistica da compiere,

la voglia di rivincita. È da Chardonne,

nella sua casa di campagna, che

per primi andranno gli “ussari”, è

Chardonne che li farà incontrare

con Morand e orchestrerà il “ritorno

del morto” sulla scena letteraria.

Da Morand i giovani “ussari” imparano

l’arte di vivere. Le lettere che

egli scambia con loro, le colazioni

al Crillon o al Ritz sanno di macchine

sportive, biancheria di Charvet,

alberghi di Lisbona, isole della

Grecia, spiagge di Tangeri, annate

di Chateau-Latour e di Roederer

rosé. Da Chardonne i giovani “ussari”

vanno a scuola di letteratura: l’erudizione

è sterminata, il giudizio

sicuro, la condanna senza appello.

Quello che sia l’uno sia l’altro non

si stancano mai di insegnare è la

scrittura come impegno quotidiano,

la fatica davanti al foglio, il non

accontentarsi, il non cedere alle

lusinghe del successo, della pubblicazione

a tutti i costi. Quello che

entrambi vorrebbero trasmettere è

però qualcosa che non si può imparare:

il talento.

Nota François Dufay che nel rifiuto

dell’engagement, della politica, “gli

ussari” giocano sporco... Non è tanto

o solo perché i loro due idoli si

sono bruciati al fuoco delle ideologie

che essi li aborrono e predicano

il piacere della scrittura e del

romanzo puro, l’indifferenza nei

confronti della Storia. È anche perché,

chi più chi meno, provengono

dallo stesso ambiente, una destra

borghese e nazionalista, reazionaria

e nostalgica, quella stessa destra

che per molti versi Vichy ha dannato

in eterno. Come scriverà intelligentemente

Bernard Franck “la

maggior parte degli scrittori di

destra non sono scrittori che prendono

in giro la politica o credono

che la politica sia un male per la letteratura:

in realtà sono le circostanze

che li obbligano a comportarsi

così”.

La cosa diverrà più evidente quando,

alla fine degli anni Cinquanta, i

fatti d’Algeria li vedranno in prima

fila, impegnati, arrabbiati, schierati,

ovviamente a favore dell’Algeria

francese, e bellamente dimentichi di

tutto ciò che avevano sino ad allora

predicato. Ma non è un caso che

questa volta gli “ussari” non troveranno

al loro fianco i “veterani“:

per Chardonne e Morand la partita

si è chiusa nel’45, hanno perso e

non c’è nessun tempo supplementare

da giocare. È stata una catastrofe

e si possono avere idee politiche

solo al passato remoto.

Da questo punto di vista la corrispondenza

di quest’ultimi assomiglia

a quella dei grandi “centauri”,

metà giornalisti, metà ideologhi,

dell’Italia del dopoguerra, gli

Ansaldo, i Missiroli, i Longanesi.

Orfani del fascismo e di Mussolini

gli resta la diffidenza per la democrazia,

l’odio e il disprezzo per i

comunisti, la paura per un futuro

che non si comprende, la logica del

meno peggio. Si ritrovano fuori dalla

storia e non sanno più come rientrarvi,

o forse non ne hanno più

nemmeno voglia. È anche per questo

che le loro analisi politiche sono

superficiali, velleitarie, quasi sempre

sbagliate.

In quella stessa fine degli anni Cinquanta,

un primo tentativo di far

eleggere Morand all’Accadémie

Française e suggellare così la sua

resurrezione, fallisce. “La sua

nomina significherebbe la rivincita

del collaborazionismo” gli viene

fatto sapere e quindi è meglio che

ritiri la sua candidatura. Morand fa

finta di niente, ma deve abbozzare,

Chardonne si indigna. “Andrò a

sputare sui loro scranni” dice parlando

dei Quaranta immortali che la

compongono.

Ci vorranno ancora nove anni, prima

che il veto cada. In fondo de

Gaulle non ha mai dimenticato che

quando nel’40 volò a Londra,

Morand che era a Londra volò a

Vichy... Quanto a quest’ultimo, ha

insegnato al proprio cane a sdraiarsi

per terra quando lui gli grida “morte

a de Gaulle”. Ma nel 1969 gli

avversari di allora hanno ormai più

di ottant’anni e continuando sempre

e comunque a scrivere, Morand ha

dimostrato che almeno la letteratura

non l’ha mai tradita, e dunque... Nel

suo diario, un paio d’anni dopo

essere finalmente divenuto accademico,

scrive: “Rileggo la corrispondenza

degli anni 50-60 e sono

colpito da tante lettere amicali

(Nimier, Laurent, Déon eccetera).

Oggi, pochissime notizie da loro.

Mia moglie dice che è l’Accademia

ad aver scavato un fossato; io non

faccio più parte dei giovani, Nimier

non è più là per mettermi davanti,

né Chardonne. Resto sul mio scranno

dorato, come Tutankamen”.

Accadémie française... Tutti o quasi

sono orfani di padre: Nimier ha perso

il suo a 14 anni, Déon a 13,

Nourissier a otto, quello di Blondin

è addirittura morto suicida... Tutti

però sono accomunati da molta presunzione,

uno stile fiammeggiante,

dal gusto per la provocazione e per

lo scandalo, da un certo esibizionismo,

dal piacere dello scontro.

“Ussari”, appunto, secondo la

definzione di un collega, Bernard

Franck, che non li ama e però li

rispetta. E come ogni ussaro degno

di questo nome, hanno i loro “grognards”,

i veterani da cui hanno

imparato a combattere, i veterani

per i quali si farebbero uccidere.

Paul Morand è fra i grognards preferiti.

Poi c’è Chardonne...

Chardonne è l’altra faccia di

Morand. È sedentario quanto l’altro

è nomade, provinciale e non cosmopolita,

calvinista e non pagano,

platonico e non libertino. “Amo in

Morand il contrario di ciò che io

sono” dirà a Jean Paulhan, il guru

delle edizioni Gallimard: “di me

stesso ne ho abbastanza e detesto i

miei parenti o discendenti”. Di

quattro anni più vecchio, ciò che lo

accomuna al brillante amico è l’essere

stato anche lui dalla parte sbagliata,

anche se in modo meno

vistoso, l’aver fatto della scrittura

una religione, la secchezza dello stile,

il cinismo di chi ritiene di avere

una missione artistica da compiere,

la voglia di rivincita. È da Chardonne,

nella sua casa di campagna, che

per primi andranno gli “ussari”, è

Chardonne che li farà incontrare

con Morand e orchestrerà il “ritorno

del morto” sulla scena letteraria.

Da Morand i giovani “ussari” imparano

l’arte di vivere. Le lettere che

egli scambia con loro, le colazioni

al Crillon o al Ritz sanno di macchine

sportive, biancheria di Charvet,

alberghi di Lisbona, isole della

Grecia, spiagge di Tangeri, annate

di Chateau-Latour e di Roederer

rosé. Da Chardonne i giovani “ussari”

vanno a scuola di letteratura: l’erudizione

è sterminata, il giudizio

sicuro, la condanna senza appello.

Quello che sia l’uno sia l’altro non

si stancano mai di insegnare è la

scrittura come impegno quotidiano,

la fatica davanti al foglio, il non

accontentarsi, il non cedere alle

lusinghe del successo, della pubblicazione

a tutti i costi. Quello che

entrambi vorrebbero trasmettere è

però qualcosa che non si può imparare:

il talento.

Nota François Dufay che nel rifiuto

dell’engagement, della politica, “gli

ussari” giocano sporco... Non è tanto

o solo perché i loro due idoli si

sono bruciati al fuoco delle ideologie

che essi li aborrono e predicano

il piacere della scrittura e del

romanzo puro, l’indifferenza nei

confronti della Storia. È anche perché,

chi più chi meno, provengono

dallo stesso ambiente, una destra

borghese e nazionalista, reazionaria

e nostalgica, quella stessa destra

che per molti versi Vichy ha dannato

in eterno. Come scriverà intelligentemente

Bernard Franck “la

maggior parte degli scrittori di

destra non sono scrittori che prendono

in giro la politica o credono

che la politica sia un male per la letteratura:

in realtà sono le circostanze

che li obbligano a comportarsi

così”.

La cosa diverrà più evidente quando,

alla fine degli anni Cinquanta, i

fatti d’Algeria li vedranno in prima

fila, impegnati, arrabbiati, schierati,

ovviamente a favore dell’Algeria

francese, e bellamente dimentichi di

tutto ciò che avevano sino ad allora

predicato. Ma non è un caso che

questa volta gli “ussari” non troveranno

al loro fianco i “veterani“:

per Chardonne e Morand la partita

si è chiusa nel’45, hanno perso e

non c’è nessun tempo supplementare

da giocare. È stata una catastrofe

e si possono avere idee politiche

solo al passato remoto.

Da questo punto di vista la corrispondenza

di quest’ultimi assomiglia

a quella dei grandi “centauri”,

metà giornalisti, metà ideologhi,

dell’Italia del dopoguerra, gli

Ansaldo, i Missiroli, i Longanesi.

Orfani del fascismo e di Mussolini

gli resta la diffidenza per la democrazia,

l’odio e il disprezzo per i

comunisti, la paura per un futuro

che non si comprende, la logica del

meno peggio. Si ritrovano fuori dalla

storia e non sanno più come rientrarvi,

o forse non ne hanno più

nemmeno voglia. È anche per questo

che le loro analisi politiche sono

superficiali, velleitarie, quasi sempre

sbagliate.

In quella stessa fine degli anni Cinquanta,

un primo tentativo di far

eleggere Morand all’Accadémie

Française e suggellare così la sua

resurrezione, fallisce. “La sua

nomina significherebbe la rivincita

del collaborazionismo” gli viene

fatto sapere e quindi è meglio che

ritiri la sua candidatura. Morand fa

finta di niente, ma deve abbozzare,

Chardonne si indigna. “Andrò a

sputare sui loro scranni” dice parlando

dei Quaranta immortali che la

compongono.

Ci vorranno ancora nove anni, prima

che il veto cada. In fondo de

Gaulle non ha mai dimenticato che

quando nel’40 volò a Londra,

Morand che era a Londra volò a

Vichy... Quanto a quest’ultimo, ha

insegnato al proprio cane a sdraiarsi

per terra quando lui gli grida “morte

a de Gaulle”. Ma nel 1969 gli

avversari di allora hanno ormai più

di ottant’anni e continuando sempre

e comunque a scrivere, Morand ha

dimostrato che almeno la letteratura

non l’ha mai tradita, e dunque... Nel

suo diario, un paio d’anni dopo

essere finalmente divenuto accademico,

scrive: “Rileggo la corrispondenza

degli anni 50-60 e sono

colpito da tante lettere amicali

(Nimier, Laurent, Déon eccetera).

Oggi, pochissime notizie da loro.

Mia moglie dice che è l’Accademia

ad aver scavato un fossato; io non

faccio più parte dei giovani, Nimier

non è più là per mettermi davanti,

né Chardonne. Resto sul mio scranno

dorato, come Tutankamen”.