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Otto paesi arabi danno carta bianca agli Stati Uniti in Iraq

di Marianna Bielenkaia* - 25/01/2007






Durante la sua tournée nel Vicino Oriente, Condoleezza Rice ha ottenuto il sostegno di otto Stati arabi alla politica statunitense in Iraq. In realtà, ciò che questi Stati approvano è che gli Stati Uniti non puntino più sull’Iran in Iraq, il che non significa che approverebbero un’aggressione contro l’Iran.


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18 gennaio 2007



Mentre a Washington l’élite statunitense si chiede se convenga o meno sostenere la nuova strategia del presidente George Bush in Iraq, i leader arabi hanno espresso il loro accordo con questa strategia.



Martedì, il segretario di Stato Condoleezza Rice, che assisteva nel Kuwait ad una riunione dei capi delle diplomazie del paesi arabi del golfo Persico, della Giordania e dell’Egitto, dedicata alla discussione della nuova strategia di Washington in Iraq, ha potuto sentire dlle espressioni di approvazione.



In fondo, i rappresentanti della direzione saudita hanno ben espresso la posizione comune : la nuova strategia del presidente Bush merita di essere sostenuta se garantisce l’unità dell’Iraq e l’eguaglianza di tutti i gruppi all’interno della società.



Naturalmente, i dirigenti degli otto paesi arabi non sono degli ingenui. Sanno benissimo che la situazione in Iraq è delle più complesse e che la violenza continuerà ancora a lungo a lacerare il paese. Ma sono anche ben consci che la nuova strategia statunitense, che comprende numerose misure delle quali esse da anni ventilavano la necessità, è quanto di meglio Washington possa oggi proporre.



Ci riferiamo, ad esempio, alle proposte di modifiche della Costituzione allo scopo di allargare la partecipazione dei rappresentanti di tutti i gruppi etnici e religiosi al processo politico iracheno, oppure la politica di estensione dei diritti degli Iracheni e di non ingerenza nella loro politica interna o, ancora, la conferma che questo paese resterà indivisibile.



Appare inoltre importante il fatto che la nuova strategia sottolinei che, per ripristinare la sicurezza in Iraq, bisognerà lottare contro tutte le « fonti di violenza », indipendentemente dalla loro origine etnica o religiosa. Tali osservazioni sono, senza dubbio, rivolte agli sciiti e all’Iran. In effetti è noto che, essenzialmente, le forze di sicurezza irachene e statunitensi in Iraq si sono fin qui impegnate a lottare contro le formazioni armate sunnite, mentre hanno chiuso gli occhi sull’attività dei gruppi sciiti, anch’essi responsabili del caos che conosce il paese. Quello che ha inoltre rallegrato i dirigenti di quei paesi arabi, tenuto conto delle loro relazioni con Teheran, è che Washington abbia infine deciso di non puntare sull’Iran per arrivare alla stabilità in Iraq, sebbene di tale questione non si sia apertamente parlato nella recente riunione nel Kuwait.



Un’altra ragione che ha motivato il « sì » agli Stati Uniti di quei paesi arabi sta nel fatto che approvare il piano statunitense non li impegna in nulla. Anche prima di tale incontro dei capi delle diplomazie, Condoleezza Rice si era recata a Ryad, dove ci si poteva chiedere se l’Arabia saudita avrebbe sostenuto il processo di stabilizzazione e di unificazione dell’Iraq. La risposta data dalle autorità saudite non è stata resa pubblica, sebbene esse in precedenza avessero più di una volta dichiarato che la responsabilità del destino dell’Iraq gravava prima di tutto sulle spalle degli stessi Iracheni.



A questo proposito, è il caso di ricordare l’intervista concessa dal principe ereditario saudita Sultan ben Abdel Aziz al giornale Ash-Shark al-Aussat, pubblicata alcuni giorni prima che Bush rivelasse la sua nuova strategia. Il principe osservava che il suo Regno era preoccupato per l’ingerenza straniera nelle questioni irachene, che la dirigenza saudita considerava inammissibile questo comportamento e lasciava agli stessi Iracheni il diritto di cercare il modo per uscire dalla crisi in cui si trovano. Inoltre, egli osservava che l’Arabia Saudita aveva offerto più volte il suo territorio perché si tenessero degli incontri tra i rappresentanti dei diversi gruppi politici iracheni al fine che essi potessero giungere ad un compromesso tra loro. I rappresentanti sauditi avevano pure organizzato delle discussioni con uomini politici iracheni, per tentare di convincerli ad instaurare un dialogo tra di loro. .



La spiegazione di queste affermazioni sta nel fatto che la dirigenza saudita, e quelle degli altri sette paesi, i cui ministri degli esteri hanno incontrato Condoleezza Rice, sono disposte ad apportare un sostegno politico agli Iracheni, a svolgere, se viene loro chiesto, il ruolo di intermediazione tra i diversi gruppi iracheni. Ma, per il momento, non si apprestano a concedere aiuti all’Iraq, né finanziario né militare, visto che non sono disposti ad addossarsi la responsabilità di quanto accade in quel paese. Questo, è stato sottolineato, è il problema degli stessi Iracheni – si è potuto leggere tra le righe che è anche quello di Washington. Se gli Stati Uniti e gli Iracheni arrivassero ad uscire dalla crisi, essi ne saranno felicissimi, se non ne giungessero a capo, se ne laverrbbero le mani.



Eppure, nell’attuale situazione, questo sostegno è per gli Statunitensi importantissimo. Inoltre, è per loro estremamente prezioso che gli otto paesi arabi si astengano, almeno nei loro propositi, dall’imbrogliare le carte in Iraq e dal prendere apertamente le parti di taluna o talaltra forza politica locale. Essi, al contrario, parlano di consolidamento dell’unità degli Iracheni. E questo è essenziale.



Gli Stati Uniti non devono tuttavia cullarsi nelle illusioni. Se hanno ottenuto carta bianca da parte di otto Stati arabi per mettere in opera la loro nuova strategia in Iraq, la condizione è che essa non favorisca l’aggravamento della situazione nella regione. Il capo della diplomazia del Kuwait, Muhammed as-Sabah, si è espresso di recente in questo modo: «siamo gli alleati dell’America, ma non i suoi vassalli ». Questa frase è stata ripresa dal presidente del Parlamento kuwaitiano, Djassem al-Harafi, quando alcuni giornalisti gli hanno chiesto come reagirebbe il Kuwait se gli Stati Uniti arrivassero ad insistere verso un attacco contro l’Iran.



Queste affermazioni non vanno lette unicamente in riferimento alla possibilità dell’inizio di operazioni militari di Washington contro Teheran : esse possono essere applicate a qualsiasi iniziativa statunitense circa la regione del Grande Medio Oriente. Gli otto paesi arabi sosterranno Washington esattamente nella misura in cui ciò corrisponderà ai loro interessi. Ma il loro sostegno non sarà illimitato.



* Osservatrice politica dell’Agenzia RIA Novosti



Voltaire, édition internationale