Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ultime notizie dal mondo 1/ 15 Gennaio 2007

Ultime notizie dal mondo 1/ 15 Gennaio 2007

di redazionale - 27/01/2007


 

 

a) Somalia / Etiopia. Il nuovo fronte aperto dagli Stati Uniti nel Corno d’Africa non è così chiuso come potrebbe sembrare, nonostante la schiacciante superiorità militare dell’asse etiopico/statunitense. Cfr. 1, 2, 3, 5, 7, 8, 11, 13, 15.

 

b) Euskal Herria. L’esecutivo spagnolo dichiara la fine dei negoziati per una soluzione politica nei Paesi Baschi. Sarà proprio così? Intanto il punto sulla situazione con dichiarazioni di Batasuna ed ETA. Scarrellata di notizie al 3, 4, 8, 10, 11, 14, 15.

 

c) Iraq. Uno sguardo alla cosiddetta “nuova” strategia dell’amministrazione Bush nel paese arabo occupato con relative reazioni (12). Poi un bilancio della “missione” italiana al seguito dell’alleato/padrone statunitense. Un’inchiesta puntualizza dati interessanti (12). Quindi news sull’esecuzione di Saddam (3). Per altro ancora, vedere al 4, 7, 8, 14.

 

Sparse ma significative:

 

  • Israele / Palestina. Stati Uniti e Israele investono nella guerra civile palestinese (cfr. 6 e 13) e Mahmud Abbas (Abu Mazen) continua a prestarsi compiacente (7). Intanto la colonizzazione prosegue (9 e 10), nasce un movimento giovanile israeliano per la «pulizia etnica» dei palestinesi in Cisgiordania (9) e si parla di utilizzare il nucleare contro l’Iran (8). Singolare coincidenza d’intenti con Washington (cfr. USA. 13)

 

  • Venezuela. Dopo la riconferma, Chávez punta a rafforzare la sovranità nazionale per una prospettiva socialista e preannuncia nazionalizzazioni che mandano su tutte le furie Washington (cfr. 9 e 13). In Bolivia, Morales persegue strade analoghe (cfr. il 5 per le nazionalizzazioni), ma deve fare i conti con spinte non nascostamente filo-USA di certi governatori (cfr. 14). E intanto replica, visto su visto, a Washington (1).

 

  • Bielorussia / Russia. La questione energetica e gli interessi geostrategici ad essa connessi ricordano che le ambizioni imperiali, in questo caso moscovite (con buona pace della “fratellanza euroasiatica” con la sorella Bielorussia), non guardano in faccia a nessuno.

 

 

Tra l’altro:

 

Irlanda del Nord (4 gennaio).

Corsica (4 gennaio).

Libano (10 gennaio).

Cina (5 gennaio).

Nicaragua (10 gennaio).

Nepal (15 gennaio).

 

 

  • Somalia. 1 gennaio. Gli Stati Uniti stanno addestrando le truppe etiopi e hanno incoraggiato il governo di Addis Abeba a lanciare l’offensiva in Somalia, nella speranza di piegare le Corti islamiche che controllano gran parte del paese. Lo scriveva mercoledì scorso il New York Times e lo conferma l’ambasciatore Princeton Lyman, ex assistente segretario di Stato e responsabile degli studi sull’Africa del Council on Foreign Relations. Secondo il Times, militari statunitensi si trovano in Etiopia, da diversi mesi, addestrano le truppe di Addis Abeba e la zona delle operazioni è sorvolata da aerei spia degli Stati Uniti. «L’obiettivo degli Stati Uniti è mettere i fondamentalisti islamici in un angolo», ha spiegato Lyman, «per spingerli ad accettare l’autorità del governo provvisorio (...). L’amministrazione Bush ha incoraggiato l’azione militare di Zenawi, perché spera che la aiuti a raggiungere il proprio scopo». Lyman considera però pericolosa l’offensiva etiope: «Le forze di Addis Abeba sono sicuramente in grado di battere gli estremisti islamici sul piano militare, ma non di governare la Somalia. Questa offensiva corre quindi il rischio di aumentare l’instabilità regionale, allargando il conflitto anche all’Eritrea e Gibuti, senza centrare l’obiettivo di eliminare i fondamentalisti. Per risolvere la crisi serve un’iniziativa diplomatica che coinvolga tutta la regione».

 

  • Israele. 1 gennaio. Anno record per le esportazioni di armi: 4.4 miliardi di dollari. È la cifra fornita ieri dal ministero della difesa israeliano sul commercio d’armi per l’anno 2006, che pone Israele al quinto posto mondiale fra gli esportatori di armi, subito dietro a USA e Gran Bretagna. L’India è il maggior acquirente di armamento israeliano, con un volume d’affari di 1.5 miliardi, spesi soprattutto per il sistema anti-missile navale Barak. Altro acquirente di peso gli Stati Uniti (1 miliardo contro i 300 milioni del ’99). I paesi europei hanno fatto acquisti bellici in Israele per 800 milioni. I ¾ delle vendite totali hanno riguardato l’estero mentre il ¼ restante è stato comprato dalle forze armate israeliane.

 

  • Bolivia. 1 gennaio. Visto d’ingresso per i cittadini USA. La decisione, dall’inizio dell’anno, è stata così motivata dal presidente Morales: «Per quanto piccola sia la Bolivia, per quanto sia un paese cosiddetto sottosviluppato, ha la stessa dignità di qualsiasi altro paese». Washington pretende il visto da tutti i boliviani che desiderano entrare in territorio USA. La stessa misura è stata decisa l’anno scorso, e per il medesimo motivo, anche dal Brasile.

 

  • Somalia. 2 gennaio. Cade anche Kismayo, seconda città per importanza della Somalia ed ultima roccaforte dell’Unione delle Corti islamiche. Anche in questa occasione, come giovedì scorso per la capitale, i dirigenti delle Corti hanno scelto di ritirarsi «per evitare la distruzione della città e un bagno di sangue». Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, uno dei dirigenti islamici, ha dichiarato che «l’Etiopia non dimenticherà mai la lezione che stiamo per infliggerle. D’ora in avanti attaccheremo le truppe etiopi secondo le regole della guerra di guerriglia». Secondo fonti vicine alle Corti, i leader islamici, con i loro miliziani, sarebbero diretti nella regione di Bur Gabo, sul lato somalo del confine con il Kenya, dove c’è una vegetazione simile alla giungla («La regione del basso Jubba è come il Vietnam») ed è difficilissimo inseguirli. L’area interessata va dalla zona accidentata e collinosa di Buur Gaabo a quella fitta di foresta di Ras Kamboni. Zone quasi impenetrabili con mezzi e forze tradizionali. Una base classica per lanciare assalti di guerriglia. Proprio per questo timore navi militari statunitensi –della flotta USA di stanza a Gibuti– stanno pattugliando le acque al largo e a sud di Kismayo.

 

  • Somalia. 2 gennaio. La dirigenza e circa 3mila miliziani delle Corti non si sono sbandati. Lo scrive la Reuters che ha raccolto ieri testimonianze a Kismayo, l’ultima roccaforte delle Corti. Il primo ministro del governo federale di transizione (Tfg), Ali Mohammed Ghedi, largamente minoritario nel paese e sostenuto da USA ed Etiopia, ha chiesto all’Unione africana di inviare «nel minor tempo possibile» un contingente di pace, giacché la presenza di 20mila militari etiopi ed un numero largamente inferiore, ma imprecisato di militari USA sta già dando nel paese l’idea di un’occupazione militare. Ghedi ha poi lanciato un appello al Kenya perché blindi il suo confine settentrionale con la Somalia e impedisca agli islamici di rifugiarsi nel suo territorio. Nairobi sta mantenendo allo stato una posizione defilata e ambigua, soprattutto perché teme scontri alla frontiera ed attentati degli islamici in Kenya, dove si contano almeno 160mila profughi scappati dalla Somalia. Resta insomma altamente probabile l’inizio di una guerriglia in stile iracheno contro un governo che molti vedono come marionetta straniera.

 

  • Somalia. 2 gennaio. Il governo di transizione –diviso e con deboli forze armate– non sembra poter garantire la sicurezza del Paese. Analisti, poi, affermano che parte dei miliziani delle Corti sono rimasti sia a Mogadiscio che a Kismayo dopo aver cambiato la tuta mimetica con una jellaba “civile”. Pronti a entrare in azione per attacchi, attentati e sabotaggi. Gran parte della popolazione è contraria all’occupazione da parte di soldati di un paese, l’Etiopia, considerata un nemico storico della Somalia. Da Addis Abeba gli ordini sono di tenere un profilo basso e nelle due città gli etiopi sono trincerati nei siti strategici, porto, aeroporto. Ma col passare delle settimane la loro presenza potrebbe divenire ingombrante e vi è sempre più la prospettiva che il vuoto di sicurezza e di potere sia riempito dal ritorno dei “signori della guerra”. Gli stessi che negli anni scorsi hanno preparato il terreno alla vittoria degli islamici. Costoro, intanto, parlano di pace, ma molti si lamentano già del trattamento che stanno ricevendo dal primo ministro, che accusano di fare una politica tribale che tende a cancellare dalla mappa del potere alcuni clan.

 

  • India / Pakistan. 2 gennaio. India e Pakistan scambiano la lista delle installazioni nucleari. Ieri è stato così adempiuto l’accordo tra i due paesi che li impegna a non attaccare i rispettivi centri atomici. Ne dà notizia il ministero indiano degli Affari Esteri. Lo scambio di queste informazioni avviene tutti gli anni dal 1° gennaio 1992. I due paesi si sono scontrati militarmente in tre occasioni dopo le rispettive indipendenze dalla Gran Bretagna nel 1947.

 

  • Cuba. 2 gennaio. Nel 2006 Cuba ha registrato il tasso di mortalità infantile più basso dell’America Latina (5,3°/°°) e il secondo del continente, superato solo dal Canada. Questo risultato, il migliore nella storia dell’isola, è stato reso possibile grazie a nuovi metodi diagnostici per la ricerca di malattie genetiche e a un vasto programma di vaccinazione. Nel 1960 il tasso di mortalità infantile era del 37,3°/°°. Inoltre, sempre l’anno scorso, sono stati destinati quasi mille milioni di dollari a migliorare l’alimentazione; 110mila abitazioni sono state costruite e sono state inaugurate oltre 650 opere per l’educazione e la salute. Lo stanziamento di fondi per la collettività è la più elevata dell’emisfero, oltre ad investimenti di interventi sociali gratuiti in altri paesi, ad es. il Venezuela con l’Operazione Milagro.

 

  • Messico. 2 gennaio. Presidi per i prigionieri politici di Oaxaca davanti ai penitenziari. Militanti dell’Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca (Appo) e familiari dei detenuti chiedono che le persone arrestate nelle scorse settimane per le proteste contro il governatore Ruiz, vengano scarcerati. Promettono di non desistere finché il Ministero degli Interni, che aveva promesso la liberazione di tutti i prigionieri politici entro la fine del 2006, non terrà fede ai propri impegni.

 

  • Euskal Herria. 3 gennaio. «Il processo è rotto, liquidato, finito». Josè Luis Rodriguez Zapatero cede alle pressioni dell’opposizione di centrodestra, e rompe il processo di pace e il dialogo con l’ETA. L’annuncio l’ha dato ieri il ministro dell’interno Alfredo Perez Rubalcaba, dopo che il Partito Popolare aveva preteso «una dichiarazione formale» dello stesso Zapatero. La causa è l’attentato di sabato all’aeroporto di Madrid. In una dichiarazione a caldo, dopo l’attentato, Zapatero aveva annunciato «la sospensione» dei contatti con ETA, ma aveva evitato di parlare di «rottura» del processo negoziale, per lasciare una porta aperta ad un progetto sul quale ha puntato molto della sua credibilità politica.

 

  • Euskal Herria. 3 gennaio. Per Batasuna, l’ala politica dell’organizzazione indipendentista basca armata ETA, il processo di pacificazione «non è interrotto» ed è necessario rinnovare il dialogo «per trovare una soluzione politica al conflitto». Dopo l’attentato di Madrid rivendicato dall’ETA, Xabier Larralde, membro della direzione di Batasuna, ha detto che la preoccupazione «è di riaffermare che il processo di pace non è interrotto: ognuno dia prova di responsabilità per rilanciare un dialogo».

 

  • Somalia. 3 gennaio. «Gli etiopi resteranno». Il primo ministro somalo, che sulla presenza degli etiopi basa tutto il suo futuro politico, ha fatto sapere che questi soldati dovranno rimanere «diverse settimane, forse mesi, per cancellare ogni minaccia terroristica dalla Somalia». La presenza di presunti combattenti stranieri jihadisti nei ranghi delle Corti è la giustificazione esplicita per il mantenimento di un’occupazione che la popolazione somala non vede di buon occhio. Gedi sa benissimo che, senza gli etiopi e il sostegno degli Stati Uniti, il suo potere è prossimo allo zero e che, se a Mogadiscio la situazione è apparentemente calma (hanno riaperto i cinema e si è ricominciato a masticare il khat, l’erba eccitante che le Corti avevano proibito), il fuoco cova sotto la cenere.


  • Somalia. 3 gennaio. Con la ritirata dei miliziani islamici, diversi signori della guerra (warlords) hanno fatto rientro nei loro “feudi” di Mogadiscio suddivisi per clan di appartenenza. Uno di loro, Abdi Hassan Awale conosciuto come ‘Qeybdid’, ha pubblicamente dichiarato di non voler compiere rappresaglie contro gli islamici, che lo avevano sconfitto nei mesi scorsi malgrado l’appoggio indiretto degli USA ai signori della guerra. Un altro warlord, oggi ministro degli Interni e vicepremier –Hussein Mohamed Aidid, figlio del generale Farah Aidid che rovesciò Siad Barre nel 1991 e scatenò poi con il suo rivale Ali Mahdi una guerra senza quartiere che distrusse Mogadiscio– ha detto che il governo intende cancellare i confini tra Somalia ed Etiopia, dove secondo lui vivrebbe circa il 60% dei 2 milioni di rifugiati somali. Quest’ultima dichiarazione dà ovviamente da pensare...

  • Somalia. 3 gennaio. Nemmeno un’arma. L’appello lanciato da Gedi ai miliziani islamici perché lascino le armi è caduto nel vuoto. Deserti i due punti di raccolta armi approntati a Mogadiscio. Abdirrahim Ali Modey, uno dei portavoce degli islamisti, raggiunto dall’agenzia Reuters, ha promesso battaglia: «A chi crede che siamo morti diciamo che siamo vivi. Rinasceremo dalle ceneri».

  • Somalia. 3 gennaio. Miliziano islamista uccide due soldati etiopi e ferisce gravemente un ufficiale dell’esercito occupante, poi viene ucciso. È accaduto a Jilib, 100 km a nord di Kismayo. Il miliziano aveva attaccato una prima volta con successo una base occupante e si era poi disperso tra la folla. Ha quindi tentato un secondo attacco che però gli è stato fatale. È uno dei primi attacchi che si segnala contro chi ha invaso il paese. Intanto elicotteri etiopi hanno bombardato «per errore» un posto di frontiera con il Kenya.

 

  • Iraq. 3 gennaio. Saddam «fino alla sua morte aveva lo status di prigioniero di guerra e doveva come tale beneficiare della Convenzione di Ginevra del 1949». Lo sostiene uno degli avvocati francesi di Saddam, Emmanuel Ludot, in una lettera al segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, chiedendo una commissione d’inchiesta. Polemiche anche a livello internazionale, con il Vaticano in prima linea. Ieri l’Osservatore romano scriveva che l’esecuzione di Saddam rappresenta, per i modi e la risonanza mediatica «un altro esempio di violazione dei più elementari diritti dell’uomo». Secondo Javier Saavedra Fernandez, avvocato spagnolo del collegio difensivo dell’ex leader iracheno, intervistato da il Manifesto, il processo, viziato da irregolarità, non aveva alcuna legittimità («è stato cambiato il giudice quando ci si è accorti che le opinioni del giudice scelto non erano in linea con quelle del governo. Inoltre, noi avvocati abbiamo dovuto sforzarci a livelli inverosimili per poter fare il nostro lavoro. Tre difensori di Saddam sono stati uccisi. Da parte sua, il presidente del tribunale ha respinto vari testimoni in modo ingiustificato. Non è stato garantito nessuno dei requisiti stabiliti dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani o dalla legge penale internazionale. E, anche nel caso in cui Saddam fosse stato condannato al termine di un processo regolare con le prove e le garanzie necessarie, avrebbero dovuto condannarlo a una pena detentiva, non alla pena di morte»). Prosegue Saavedra Fernandez: «Credo che si sia agito in fretta perché il secondo processo sarebbe stato molto imbarazzante. La grande domanda del secondo processo sarebbe stata: chi ha fornito il gas per sterminare i kurdi? (...) Che cosa rimane dei propositi di coloro che hanno invaso l’Iraq, che volevano convertirlo in un paese libero e democratico?».

 

  • Iraq. 3 gennaio. Saddam Hussein è stato impiccato non certo per quei poveri 148 sciiti trucidati nel 1982. Nel 1984 (dopo l’eccidio e l’attacco all’Iran), a seguito di una visita di Saddam in Italia, le doti di statista del leader iracheno furono apertamente lodate dal nostro governo. Saddam è finito appeso per il collo, con una esecuzione di tipo mafioso, per il classico «sgarro» fatto dal cane che morde la mano del padrone e va al di là dei compiti (vedi contenimento dell’Iran khomeinista) che gli erano stati assegnati. Saddam è morto incaprettato, insultato e vituperato per dimostrare che chi si rifiuta di pagare il pizzo agli USA viene spazzato via.

 

  • Iran. 3 gennaio. «Potremmo uscire dal TNP». Teheran si riserva l’opzione di uscire dal Trattato di non Proliferazione Nucleare (TNP), per fronteggiare le pressioni internazionali alle quali potrà essere sottoposto per il suo programma in campo atomico. Lo ha fatto capire ieri il portavoce del governo, Gholam Hossein Elham. Elham, nella sua conferenza stampa settimanale, ha fatto riferimento ad una legge approvata dal Parlamento alla fine di dicembre che chiede al governo di «rivedere la cooperazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica». Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato il 23 dicembre sanzioni sulle importazioni iraniane di tecnologia nucleare e missilistica dopo che Teheran ha rifiutato di sospendere l’arricchimento dell’uranio.

 

  • Russia / Iran. 3 gennaio. Mosca consegnerà missili a Teheran, nonostante l’opposizione di Israele e di Washington. L’annuncio di Mosca è arrivato ieri e riguarda 29 sistemi di missili antiaerei di difesa, di cui arriverà in tempi brevi più della metà. In questo modo l’Iran disporrà di un arsenale di missili Tor M-1 per proteggere le installazioni nucleari da un eventuale attacco aereo israeliano. Le autorità russe negano che questa vendita supponga un inadempimento della risoluzione adottata dall’ONU lo scorso 23 dicembre contro la vendita di materiale destinato al programma nucleare iraniano.

 

  • USA. 3 gennaio. Abusi a Guantanamo? Sì, per ventisei agenti dell’FBI che vi hanno assistito. Sono svariate decine i casi per ora sotto inchiesta. Ma se ne preannunciano a valanga. Lo rivelano documenti dell’FBI ottenuti e diffusi dall’ACLU, organizzazione per i diritti civili negli USA, nell’ambito di una causa intentata contro l’ex capo del Pentagono Donald Rumsfeld per conto di ex detenuti che sostengono di essere stati maltrattati nella base statunitense di Guantanamo, a Cuba. A una domanda specifica sulle presunte violenze, 26 agenti su 493 hanno risposto affermativamente di aver avuto modo di «assistere» agli interrogatori che militari, agenti della CIA e contractor privati facevano. Agli agenti dell’FBI militari e contractor ripetevano tranquillamente che ciò che stavano facendo era autorizzato dal ministero della Difesa, anzi direttamente dall’allora ministro Donald Rumsfeld. D’ora in avanti non ci saranno più problemi di questo tipo: in nome della legge si potrà infatti torturare. Se la legge che di fatto autorizza la tortura a quel tempo non era ancora in vigore, ora c’è perché George Bush se l’è fatta approvare in extremis quando il Congresso era ancora a maggioranza repubblicana.

 

  • Euskal Herria. 4 gennaio. Batasuna ribadisce l’«impegno inequivoco della sinistra abertzale (patriottica, ndr)» con il processo. Per la formazione indipendentista il processo politico «non è rotto», ed invita «tutti gli attori coinvolti» a ribadire i loro impegni e volontà affinché, mediante il dialogo e la negoziazione politica, si arrivi alla ricerca di soluzioni. L’appello di Batasuna «alla serenità e alla responsabilità politica» è arrivato ieri, in una congiuntura critica creata dopo l’esplosione che ha devastato, sabato scorso, il Terminal 4 dell’aeroporto madrileno di Barajas. Pernando Barrena, dell’esecutivo di Batasuna, ha aggiunto in conferenza stampa che, «nel più breve tempo possibile», si avvierà un tavolo di contatti con «tutti gli attori coinvolti».

 

  • Euskal Herria. 4 gennaio. «Le responsabilità stanno anche dall’altra parte». E ancora: «Con sicurezza, ci sono stati accordi che non sono stati rispettati». È Joseba Azkarraga, consigliere della Giustizia del governo autonomico di Lakua, in dichiarazioni a Radio Vitoria, a sostenere di non essere d’accordo con la tesi che «l’unica responsabilità sul fatto che il processo è praticamente stato cancellato sia solamente di una solo delle parti». Riferendosi al governo spagnolo, ha rilevato «che, durante nove mesi (dalla dichiarazione di cessate-il-fuoco dell’ETA, ndr), è andato vantandosi di aver fatto meno, nel processo di pace, di quanto aveva fatto il Partito Popolare (PP, ndr) durante la tregua del 1998 e che nella politica penitenziaria non ha mosso un dito». Il riferimento è a un DVD editato e distribuito a fine novembre scorso dal PSOE messo in rete con il titolo “L’altra tregua, come ha agito il PP quando stava al governo”, il cui obiettivo era dimostrare, appunto, che l’esecutivo Zapatero si era mosso meno del PP nel 1998. Dopo aver condannato l’esplosione del furgone bomba di sabato scorso a Madrid, Azkarraga ha criticato l’esecutivo di Rodríguez Zapatero per aver agito «in funzione delle pressioni del PP o di determinati mezzi di comunicazione».

 

  • Corsica. 4 gennaio. Attacco dinamitardo nella serata di ieri a Sollaro, vicino Sollenzana, nel nord dell’isola. Nell’esplosione è morto lo stesso attentatore. È Ange-Marie Tiberi, 50 anni, militante del FLNC (Fronte di Liberazione Naziunale di a Corsica – Unione dei Combattenti) e membro di Corsica Nazione, militante nazionalista di vecchia data; il ferito è Alain Rugeri, ricoverato ora a Bastia. L’esplosione si è verificata in una zona residenziale della Marina di Sollaro. Sei bombe sono esplose durante la notte in Corsica, ben cinque contro succursali bancarie.

 

  • Iraq. 4 gennaio. Testimoni e funzionari presenti all’esecuzione di Saddam sono stati portati da elicotteri USA e i marines –con buona pace di un «affare tutto iracheno»– hanno persino perquisito, prima di farli scendere dall’elicottero per entrare nella camera della morte, sia i funzionari che gli esponenti del governo. Lo sostiene al Daily Mail il procuratore capo al processo farsa a Saddam, Munkith al Faroon, che chiama in causa direttamente gli occupanti USA nella tragica sceneggiata messa in piedi. La ripresa dell’esecuzione, quindi, sarebbe stata consentita. Forse per esacerbare gli animi tra gli iracheni ed arrivare alla progettata divisione territoriale in tre parti dell’Iraq? Tra chi lo pensa c’è lo scrittore iracheno Walid al Zubaydi che, intervistato dall’emittente qatariota Al Jazeera, si dice convinto che il fatto che la registrazione dell’esecuzione di Saddam sia filtrata ai mezzi di comunicazione, è dovuta ad «un piano elaborato dagli Stati Uniti per fomentare la sedizione in Iraq».

 

  • Iraq. 4 gennaio. Prosegue il flusso di iracheni che da ogni parte dell’Iraq arriva a Tikrit per rendere omaggio alla salma dell’ex presidente nel villaggio natale di Aoja. La stampa irachena ha riferito ieri di delegazioni in arrivo non solo dalle città sunnite ma anche da molti centri a maggioranza sciita, come Basra, la capitale del sud, le città sante di Kerbala e Najaf, e persino da Dujail, la città che in piena guerra con l’Iran, vide il fallito attentato a Saddam Hussein da parte del partito sciita, ora al potere, “al Dawa” e la successiva uccisione per rappresaglia di 148 abitanti sospettati di aver aiutato il commando, per la quale Saddam è stato condannato a morte. Manifestazioni in ricordo di Saddam anche a Samarra dove un grande corteo si è concluso nella moschea sciita dalla cupola d’oro, e a Falluja dove è stata intitolata a Saddam la principale piazza della cittadina e dove i muri si sono ricoperti di centinaia di volantini di condoglianze firmati da vari gruppi della resistenza, come l’Esercito islamico, l’Esercito di Maometto, le Brigate di resistenza patriottica, l’Esercito di al Rashidayin.

 

  • Iraq. 4 gennaio. «Concentrare ogni azione della resistenza contro le forze USA e uscire dalle organizzazioni che, genuine o manovrate, compiono attentati contro la popolazione sciita». È l’appello lanciato oggi dal nuovo segretario del Baath, l’ex vicepresidente Izzat Ibrahim, nominato al posto di Saddam Hussein, ed è segno della preoccupazione che suscita, tra i principali gruppi della resistenza, il progetto USA di irachizzare il conflitto spostandolo all’interno della popolazione. In particolare Izzat Ibrahim, sul cui capo pende dal 2003 una taglia di dieci milioni di dollari, ha invitato soldati e ufficiali sciiti del vecchio esercito ad entrare nella resistenza nazionalista per difendere il paese «dall’invasione» e combattere contro gli occupanti e ogni forma di divisione settaria. L’esponente del Baath si è anche appellato «agli eroici combattenti» perché rispettino «la sicurezza e le proprietà della popolazione espellendo qualsiasi forma di terrorismo».

 

  • Somalia. 5 gennaio. Almeno «3500 islamisti si nascondono a Mogadiscio» e un numero imprecisato nel sud del paese. Lo ha dichiarato il ministro degli interni Hussein Aidid. Intanto si definisce sempre meglio il ruolo dell’amministrazione statunitense nell’attacco etiopico. Da informazioni riprese anche dalla stampa statunitense, emerge che i soldi dell’operazione non sono venuti da Addis Abeba. L’impressione netta è che il tutto rientri in una strategia regionale di Washington iniziata con la vittoria-truffa del primo ministro etiope Zenawi alle elezioni. Il prezzo del silenzio USA su quella truffa e la successiva repressione dell’opposizione etiopica è stato pagato con l’attacco alla Somalia.

 

  • Somalia. 5 gennaio. L’Etiopia, con la benedizione di Bush, ha invaso la Somalia per schiacciare un gruppo religioso, ritenuto colpevole di aver cacciato i signori della guerra di Mogadiscio, finanziati dagli USA. Colpevoli anche di aver introdotto un nuovo progetto religioso e politico, là dove le varie dottrine democratiche occidentali avevano fallito e prodotto solo miserie, guerre civili e dipendenza. Le Corti, che hanno preferito non accettare lo scontro nelle città per evitare un bagno di sangue tra la popolazione civile, sono un’aggregazione tradizionale, forze religiose globali con aspirazioni nazionali. Al loro interno vi sono figure militari, giovani radicali e professionisti stanchi del girotondo della politica somala. Dall’altra parte abbiamo un governo provvisorio guidato da Abdullahi Yusuf e Ali Mohammed Gedi, con al suo interno un misto di signori della guerra, giovani opportunisti e vecchi arnesi del regime di Siad Barre, pronto ad allinearsi a qualsiasi governo straniero che offra loro sopravvivenza provvisoria.

 

  • Somalia. 5 gennaio. L’Etiopia ha sempre rivendicato e usurpato territori e diritti del popolo somalo, dall’imperatore Menelik sino a Zenawi, appoggiandosi all’Occidente, ai sovietici e agli africani. I somali hanno combattuto ferocemente questo impero feudale e oscurantista negli ultimi 200 anni per motivi territoriali, religiosi e strategici. Ma soprattutto per la sopravvivenza della loro cultura, religione e nazione. Meles Zenawi, l’ultimo rais d’Etiopia, è un uomo che, dopo aver perso le ultime elezioni, ha soppresso le poche voci democratiche in Etiopia con il finanziamento di Washington e la copertura della «guerra al terrorismo». Ha incarcerato i parlamentari dell’opposizione, sparato agli studenti che manifestavano e ora si presenta come il liberatore della Somalia dalle Corti islamiche, l’unico gruppo politico, però, che ha pacificato l’impenetrabile fortezza di Mogadiscio. Le Corti avevano cacciato le sanguisughe warlords, riaperto il porto e l’aeroporto di Mogadiscio. Cose essenziali per la sopravvivenza di 2 milioni di abitanti. L’interesse USA nel conflitto sta nell’importanza strategica della Somalia, posta all’entrata e uscita del golfo arabico dove passano tutti i mercantili verso Africa, Nord America e altri destinazioni. Senza contare che il territorio somalo è ricca di petrolio e gas naturale.

 

  • Cina. 5 gennaio. Benin, Guinea equatoriale, Guinea Bissau, Ciad, Repubblica centrafricana, Eritrea e Botswana. Sono le tappe dell’ennesima visita, nel continente africano, del ministro degli Esteri cinese Li Zhaoxing. Nel Benin è giunto a capodanno ed ha siglato tre accordi di cooperazione: una riduzione del debito contratto con la Cina, un ulteriore prestito di 2,9 milioni di euro e un pacchetto d’aiuti per la struttura amministrativa e le infrastrutture del settore dei trasporti. Con un interscambio di 826 milioni di euro nel 2005, la Cina è diventata il primo partner commerciale e primo investitore. Ieri, in Guinea equatoriale, ha incontrato il presidente Teodoro Obiang Nguema –accusato di governare con il pugno di ferro dopo aver preso il potere con un golpe nel 1979– e il primo ministro Ricardo Mangué Obama Nfunea, inaugurando nella capitale Malabo gli studi della Radiotelevisione nazionale costruiti da un’azienda cinese grazie a un credito senza interessi concesso da un istituto di credito di Pechino. Il viaggio, ancora in corso, segue il vertice sino-africano tenutosi a novembre a Pechino cui parteciparono i delegati di 48 paesi africani, tra cui 41 capi di stato e di governo. In quell’occasione il primo ministro cinese Wen Jiabao annunziò che la Cina intendeva raddoppiare gli scambi commerciali con l’Africa, già quadruplicati negli ultimi cinque anni, sino a raggiungere nel 2010 i 100 miliardi di euro.

 

  • Bolivia. 5 gennaio. Ora l’energia. Dopo la nazionalizzazione degli idrocarburi e del gas naturale, il governo di La Paz ha preannunciato una riforma della Ende, Empresa Nacional de Electricidad, perché possa essere restituita allo Stato. L’impresa, privatizzata nel 1996, era stata poi ceduta a compagnie statunitensi. Grazie a questa riforma, l’amministrazione Morales prevede a medio termine l’esportazione di energia ai paesi vicini per un valore annuo di circa mille milioni di dollari.

 

  • Palestina. 6 gennaio. Washington investe nella guerra civile e stanzia 86 milioni di dollari per armare le forze di sicurezza di Abu Mazen, che si preparano allo scontro finale con la milizia di Hamas. A rivelarlo è un giornalista dell’agenzia Reuters entrato in possesso di un documento riservato dell’Amministrazione USA. La notizia ha messo in difficoltà Abu Mazen perché ha consentito ad Hamas di rilanciare l’accusa a lui e al suo entourage di «lavorare per conto degli Stati Uniti». Gli 86 milioni di dollari, è scritto nel documento ottenuto dalla Reuters, verranno usati per «assistere la presidenza dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndr) nell’adempiere all’impegno fissato nella Road Map di smantellare le infrastrutture del terrorismo e stabilire la legge e l’ordine in Cisgiordania e a Gaza». In parole povere ad usare la forza contro Hamas nonostante il rischio di una guerra civile. La Reuters ha aggiunto che persone a conoscenza del piano di aiuti dicono che i finanziamenti serviranno ad addestrare la guardia presidenziale, composta da 3.700 uomini, e a fornirle equipaggiamento. Con i fondi a disposizione Abu Mazen sarà in grado di portare ad almeno 5.000 il numero delle sue guardie e di metterle in condizione di fronteggiare, grazie anche ad un armamento superiore, i circa 6000 uomini della “Forza di pronto intervento” di Hamas. Fonti israeliane sostengono che Washington ha già rifornito di armi e munizioni la guardia presidenziale, l’ultima volta la settimana scorsa. Un deputato di Hamas, Mushir Masri, ha esortato Abu Mazen a non accettare questi fondi.

 

  • Somalia. 7 gennaio. Manifestazioni spontanee con forte presenza anche di donne e bambini contro l’occupazione etiope e la presenza statunitense nel paese. Il governo fantoccio somalo, sostenuto dall’esercito etiope, da un lato si è visto costretto a sospendere il tentativo in atto di disarmare la popolazione, dall’altro ha ordinato una repressione dura delle proteste. Il bilancio è di un adolescente morto e sette persone ferite da proiettili. Obiettivo a Mogadiscio è il poderoso clan Hawiye, egemonico nella capitale somala, che ha formato una delle forze principali delle milizie delle Corti islamiche. Il suo concorso è stato essenziale agli islamisti per sbaragliare, nel luglio 2006, l’alleanza dei signori della guerra sostenuta dagli Stati Uniti. Intanto proliferano i segnali di qualcosa di già annunciato: altri due soldati etiopi sono morti giovedì per spari con pistole al silenziatore.

 

  • Palestina. 7 gennaio. Abbas dichiara «illegale» la forza di polizia del governo palestinese. Hamas reagisce annunciando che raddoppierà il contingente della Forza Esecutiva del Ministero degli Interni dagli attuali 5.500 a 12mila. Hamas ne ha deciso la costituzione ad aprile, per aggirare il rifiuto di Al Fatah di trasferire al nuovo esecutivo il controllo degli organismi di sicurezza. Il presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha offerto di integrare quel corpo di polizia in altri organismi già esistenti, sempre sotto il controllo della sua formazione, sottolineando che l’offerta «ha breve scadenza». Il primo ministro dell’ANP, Ismail Haniyeh (Hamas), ha replicato insistendo sulla legalità di questa forza e ribadendo la disponibilità della formazione islamista di liberazione nazionale al dialogo e a un governo di concentrazione nazionale.

 

  • Palestina. 7 gennaio. Decisione «fuori luogo». E ancora: «Sono assolutamente convinto che c’è chi non vuole che i palestinesi godino di calma e stabilità, né che si crei l’atmosfera appropriata per iniziare un dialogo profondo volto a costituire un governo di unità nazionale». Così sostiene Fauzi Barhoum, portavoce del Movimento della Resistenza Islamica (Hamas), riferendosi a misure come quella di Abbas che acuiscono il rischio di un confronto interpalestinese totale. L’annuncio di Mahmud Abbas (Abu Mazen) segue quello di circa un mese fa di convocazione di nuove elezioni, anche se, allo stato, non ha potuto ancora rendere effettiva la misura, «incostituzionale» secondo l’Esecutivo di Haniyeh. Intanto il portavoce del Ministero degli Interni, Khaled Abu Hilal, ha giustificato l’aumento degli effettivi «in vista del deterioramento della sicurezza» e denunciato il significato dell’annuncio di Abbas che apre la porta a possibili attacchi contro i membri di questa forza governativa. Questa unità, ha avvertito Abu Hilal, «risponderà con fermezza» a qualunque attacco.
  • Palestina. 7 gennaio. Haniyeh è riuscito ad introdurre milioni di dollari a Gaza. Lo assicura il quotidiano israeliano Haaretz, secondo il quale il primo ministro dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), Ismail Haniyeh, ha introdotto, giovedì scorso, a Gaza, un totale di 20 milioni di dollari attraverso la frontiera dell’Egitto e con l’approvazione del governo di questo paese. Fonti egiziane hanno poi dato conferma. Fonti dell’Unione Europea, che controllano il passo di Rafah, hanno detto che gli egiziani avevano assicurato loro che non portava denaro. Haniyeh tornava dal suo pellegrinaggio a La Mecca.

 

  • Iraq. 7 gennaio. Legge irachena «made in USA». Il parlamento iracheno sta preparando una legge che consentirebbe alle compagnie petrolifere straniere (specialmente statunitensi) di controllare circa il 70-75% del profitto nelle future esplorazioni di greggio. Lo scrive oggi il britannico Independent on Sunday, secondo il quale una legge «concederebbe alle compagnie petrolifere occidentali una grossa fetta delle terze maggiori riserve al mondo. Ai vincitori il petrolio? È così che alcuni esperti vedono questo accordo senza precedenti con un importante produttore petrolifero del Medio Oriente che garantisce agli investitori enormi profitti per i prossimi trent’anni». La legge costituirebbe una sorta di pericoloso precedente per l’Organizzazione dei paesi esportatori da sempre nel mirino dei «neocon» secondo i quali la guerra e l’occupazione dell’Iraq sarebbero dovute servire sia per disgregare i paesi arabi, prima l’Iraq, poi la Siria e infine l’Arabia Saudita e quelli musulmani come l’Iran, sia per lasciare campo libero ad Israele sia per assestare un colpo definitivo all’Opec.

 

  • Iraq. 7 gennaio. A redigere la legge che legalizza la rapina delle risorse irachene è stata la BearingPoint, società USA assoldata da Washington per «consigliare» le autorità di Baghdad. Ha un proprio rappresentante fisso presso l’ambasciata USA nella «zona verde». Nel giugno del 2003 la BearingPoint ricevette un contratto per «facilitare la ripresa economica irachena» al quale si aggiunsero una serie di compiti assai delicati: redigere il budget iracheno, riscrivere la legge sugli investimenti, organizzare la raccolta delle tasse, redigere le nuove regole liberiste per il commercio e le dogane, privatizzare le imprese irachene, porre fine alla distribuzione di generi alimentari a prezzi politici, creare una nuova valuta e fissare i tassi di cambio. Una volta perfezionata, la legge sul petrolio è stata presentata al governo USA, alle società petrolifere e, a settembre, al Fondo Monetario Internazionale. Molti deputati iracheni ancora ne sono all’oscuro.

 

  • Iraq. 7 gennaio. «Un paese che naviga sul petrolio». Così Paul Wolfowitz, uno dei falchi di Washington, definì l’Iraq. Un paese considerato il terzo al mondo per riserve petrolifere, dopo l’Arabia Saudita e l’Iran, ma che potrebbe essere in realtà il secondo, se non il primo. Ufficialmente l’Iraq ha riserve per 115 miliardi di barili di petrolio, il 10% del totale mondiale, ma in realtà nel deserto occidentale vi sarebbero quantità di petrolio ancora sconosciute. Si tratta di un petrolio di ottima qualità e molto facile da estrarre a tal punto che in alcune zone le autorità hanno dovuto gettare colate di cemento per evitare che i cittadini, scavando, facessero zampillare dal suolo l’oro nero. Un petrolio che quindi costa pochissimo da estrarre.

 

  • Iraq. 7 gennaio. La legge che sta per essere votata si basa sui cosiddetti PSA, Production Sharing Agreements, cioè Accordi per la condivisione della produzione. I colossi petroliferi investiranno di tasca loro per rimodernare le infrastrutture irachene, ma per ripagarsi le spese si prenderanno il 70-75% dei profitti. Quando avranno finito di ripagarsi, la percentuale scenderà al 20%, se mai verrà quel giorno. Si tratta di percentuali altissime: in altri Paesi, le percentuali sono in genere del 40% nella fase del recupero dell’investimento e del 10% dopo. Per di più i contratti avranno una durata trentennale e se qualche futuro governo iracheno dovesse cambiare idea e rivendicare la sovranità dell’Iraq sul suo petrolio ci saranno sempre i marines a ricordargli i suoi doveri. Le società petrolifere, secondo il documento ottenuto dall’Independent, potranno inoltre esportare liberamente i loro profitti senza alcuna condizione e nel farlo non saranno soggette ad alcuna tassa.

 

  • Iraq. 7 gennaio. Se la legge passerà, come appare scontato, la nazionalizzazione vigente nel Paese dal 1972 verrà ufficialmente abbandonata. A trarne profitto, a condizioni di grande favore, già si sono affacciate grandi multinazionali come la Bp e la Shell britanniche e le statunitensi Exxon e Chevron. Magari qualche briciola relativa ai giacimenti di Nassiriya potrebbe anche essere lasciata dalle compagnie USA all’ENI. Ma non è ancora certo. La decisione viene spiegata con la necessità di portare in Iraq i colossi internazionali in grado di rimodernare un’industria petrolifera gravemente invecchiata e danneggiata sia da anni di economie che da varie guerre. Attualmente i pozzi iracheni riescono a produrre poco più di un milione e mezzo di barili al giorno, ma se le infrastrutture venissero aggiustate, entro cinque anni potrebbero superare quota 4 milioni e mezzo di barili.

  • Iraq. 7 gennaio. L’approvazione di questa legge, fortemente voluta dalla Casa Bianca, coincide con l’accelerazione di un altro progetto USA riguardo il petrolio del Medio Oriente: secondo quanto denunciava ieri il Los Angeles Times, l’Amministrazione Bush sta cercando di mettere in ginocchio la produzione petrolifera iraniana. Per le pressioni della Casa Bianca, infatti, varie banche hanno rinunciato a contratti per finanziare lo stesso tipo di ammodernamento delle infrastrutture irachene anche in Iran. E l’Iran ha molto bisogno di quei finanziamenti, se non vuole trovarsi con una bella crisi petrolifera fra le mani. L’Iran esporta oggi più di due milioni e mezzo di barili di greggio, ma se non riuscirà ad aprire nuovi pozzi e ad ammodernare quelli già esistenti, la produzione entro una decina d’anni si dimezzerà. Ma se questo danneggerà l’Iran e il suo popolo, non dovrebbe danneggiare il mercato petrolifero mondiale, se a quel punto la produzione irachena sarà aumentata.

 

  • Ecuador. 7 gennaio. Promuoverò un’Assemblea Costituente, «anche se ciò dovesse costarmi l’incarico». È il monito del presidente eletto, Rafael Correa, che si insedierà il 15 gennaio, lanciato al Congresso (dove non ha una rappresentanza, non avendo presentato candidati alle elezioni parlamentari). I partiti d’opposizione minacciano di destituire Correa se questi insiste con la sua ipotesi di Costituente. Nei giorni scorsi il futuro presidente aveva presentato il suo governo, nel quale figurano sette donne e dieci uomini. Oltre ad una maggiore rappresentatività di genere, il nuovo gabinetto include esponenti delle varie province e delle diverse minoranze etniche del paese.

 

  • Euskal Herria. 8 gennaio. Inchieste lasciano la porta aperta al dialogo con ETA. Diverse inchieste degli ultimi giorni, commissionate dai periodici El Mundo, Abc e la Cadena Ser a caldo delle conseguenze dell’attentato al parcheggio T-4 dell’aeroporto di Barajas, indicano che la ricerca di un dialogo con ETA, che porti alla fine del conflitto, ha un ampio sostegno sociale e anche maggioritario tra i votanti del PSOE. Dei sondaggi conosciuti, quello che ha maggior dimensione è il cosiddetto Pulsómetro de la Ser. Sulla base dei dati emersi, il 55,2% delle persone intervistate in Spagna ritiene che «nonostante l’attentato dell’altro giorno, il governo deve continuare a tentare di ottenere una conclusione dialogata al terrorismo». Un 38,3% ritiene di no ed il 6% risponde di «non sapere». Il 64,2% nutre la «speranza che in futuro si riannodi il processo di pace», contro il 26,1% che non la pensa così.

 

  • Somalia. 8 gennaio. L’esercito etiope ha arrestato ieri un alto ufficiale militare somalo, comandante in capo dell’esercito somalo nelle province centrali del paese, colonnello Mujtar Husein Afrah, per essersi rifiutato di consegnare loro un dirigente islamista recentemente amnistiato. L’arresto mostra chi detiene realmente il potere in Somalia.

 

  • Israele / Iran. 8 gennaio. Israele è pronto ad usare armi nucleari tattiche di ridotto potenziale per distruggere gli impianti iraniani per l’arricchimento dell’uranio. Secondo  il domenicale britannico Sunday Times, due squadriglie dell’aeronautica militare israeliana si starebbero addestrando a compiere il primo attacco con armi atomiche dalla Seconda Guerra Mondiale contro la centrale iraniana di Natanz, dove il regime di Teheran sta installando migliaia di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Secondo le indiscrezioni della testata, i comandi militari israeliani intenderebbero inoltre colpire, questa volta con armi convenzionali, altri due siti: quello di Arak, in cui viene prodotta acqua pesante, e quello di Isfahan, che serve per la conversione dell’uranio. «Appena scatterà il semaforo verde, ci sarà una missione, un solo attacco e il progetto nucleare iraniano sarà distrutto», ha dichiarato alla testata britannica una delle fonti. Secondo alcuni analisti militari, tale attacco non sarebbe imminente e Israele, facendo trapelare i piani, intenderebbe in realtà esercitare pressioni su Teheran affinché cessi l’arricchimento dell’uranio e sugli USA affinché intervengano.

 

  • Iraq / USA. 8 gennaio. Giovane, bianco e dell’«America profonda», cioè oriundo degli Stati rurali e più poveri degli Stati Uniti del Middle West. È il ritratto del soldato statunitense morto nell’Iraq occupato dall’invasione del 2003. Il 30% dei morti non supera i 22 anni. Solo il 22% supera i 30 anni di età. Contrariamente a quel che si pensa, le minoranze «apportano» relativamente una piccola percentuale di perdite mortali. L’11% dei soldati morti sono ispanici, il 9% afroamericani ed il 74% bianchi.

  • Israele. 9 gennaio. Nasce un movimento giovanile israeliano per espellere i palestinesi dalla Cisgiordania. Lo ha annunciato il deputato del partito Unione Nazionale, Ariel Eldad. Il movimento intende spingere per il «trasferimento», con la forza, dei palestinesi di Cisgiordania in altri paesi arabi vicini. L’idea della «pulizia etnica» è una soluzione diffusa in tutto l’arco politico israeliano, dai laburisti fino alla destra del Likud, passando per il governativo e «centrista» Kadima­, ma solo l’ultradestra si azzarda ad esporla esplicitamente e pubblicamente. In dichiarazioni al quotidiano Yediot Aharonot, Eldad ha giustificato la creazione del movimento, che ha battezzato con il nome di Amihai, «per coprire il vuoto esistente tra gli adolescenti, che mi chiedono di continuo “dove andiamo?”, “che possiamo fare?”». Fonti del governo israeliano hanno ammesso la possibilità che il Ministero dell’Educazione riconosca questo nuovo movimento, nonostante la «pulizia etnica» sia una pratica contraria al diritto internazionale.

 

  • Israele / Palestina. 9 gennaio. Nel 2006 è cresciuto di quasi il 6% il numero dei coloni ebrei che risiedono in Cisgiordania. Lo riferisce il quotidiano Maariv secondo cui da 253mila sono passati a 268mila, Gerusalemme est esclusa. Secondo il giornale, la crescita è legata anche al trasferimento in Cisgiordania di una parte dei 9mila coloni sgomberati dalla striscia di Gaza nell’agosto 2005.

 

  • Venezuela. 9 gennaio. «Patria e socialismo o morte». È l’espressione che il presidente Chávez, 52 anni, nel corso della cerimonia d’insediamento per il terzo mandato, ha aggiunto al giuramento nella formula tradizionale. Ha giurato anche su Cristo «il più grande socialista della storia» affinché lo guidi nella costruzione della sua rivoluzione bolivariana. Nel discorso inaugurale, durato quasi tre ore, ha delineato i prossimi passi per avanzare verso un nuovo modello economico e sociale. «Stiamo recuperando la riserva petrolifera più grande del mondo», ha detto, aggiungendo che l’art. 302 della Costituzione, secondo il quale lo Stato si riserva la proprietà del petrolio, andrà modificato con l’inclusione del gas naturale e l’eliminazione di tutte le eccezioni che proteggono gli interessi delle transnazionali. «Qui non si privatizza più nulla (...). Bisogna nazionalizzare ciò che è stato privatizzato», riferendosi a elettricità, telecomunicazioni e altri settori strategici. Un altro intendimento dichiarato da Chávez è quello di voler eliminare l’autonomia della Banca Centrale (un concetto proprio dell’era «neo-liberista») in quanto i suoi rappresentanti, espressione di quelle élite a lui contrarie, si sono spesso opposti alla politica di riutilizzo dei proventi delle esportazioni petrolifere per le classi meno abbienti della popolazione per il timore che tali iniziative potessero favorire l’inflazione, secondo i più tradizionali dettami delle teorie economiche neoliberiste.

 

  • Venezuela. 9 gennaio. Sotto tiro ci sono Cantv e Edc. La compagnia dei telefoni è l’unica impresa del Venezuela quotata a Wall Street ed è controllata dalla statunitense Verizon (ma ci sono anche la Telefonica spagnola, la Deutsche Bank tedesca, l’UBS svizzera, la Morgan Stanley statunitense e fondi di investimento californiani ed elvetici); la compagnia elettrica, privatizzata nel 2000, è controllata dalla AES Corp. base ad Arlington, USA. È la strada per quella che Chávez ha definito «la Repubblica socialista del Venezuela». Non solo, l’ex ufficiale dei parà sembra intenzionato a sottrarre al controllo privato (in gran parte multinazionali ‘europee’ e statunitensi) anche le attività estrattive petrolifere della regione dell’Orinoco. Il greggio venezuelano rifornisce il 15% del mercato interno USA e per le compagnie a stelle e strisce il Venezuela continua a essere una festa. Le affermazioni di Chávez hanno comportato reazioni scomposte e di vero e proprio panico tra gli operatori finanziari. Minacciosa la prima reazione di Bush: «Le compagnie USA dovranno essere risarcite adeguatamente».

 

  • Venezuela. 9 gennaio. Purtuttavia Washington, dopo la fallimentare gestione del rapporto con il Venezuela di Chávez e con l’intera America Latina (in particolare dopo il fallito colpo di stato contro il leader di Caracas dell’aprile 2002), sembra intenzionata ad adottare un atteggiamento meno conflittuale con le nazioni sudamericane e in particolare il Venezuela. Lo scorso 14 dicembre l’ambasciatore statunitense a Caracas William Brownfield si è incontrato con il ministro degli Esteri venezuelano Nicolas Maduro e molti hanno definito i colloqui una vera e propria svolta nelle conflittuali relazioni bilaterali Washington-Caracas.

 

  • Venezuela. 9 gennaio. Nei giorni scorsi Chávez ha attuato un profondo rimpasto di governo, nominando nuovi responsabili (quindici) di quelli che sono stati ribattezzati Ministerios del Poder Popular. La rimozione più rilevante riguarda il vicepresidente Rangel, sostituito dallo psichiatra ed ex presidente del Consiglio Nazionale Elettorale Jorge Rodríguez. «Non è stata facile per me la decisione di rimuovere José Vicente Rangel, per il quale sento l’affetto e il rispetto di un figlio verso il padre», ha detto Chávez. E l’ex vicepresidente, salutato con tutti gli onori e con in dono una replica della spada del Libertador, ha dichiarato: «Noi che lasciamo il governo non lasciamo la rivoluzione. Usciamo dal governo per difendere nelle strade il socialismo».

 

  • Venezuela. 9 gennaio. Chávez traccia la sua strategia per i prossimi 6 anni: 5 gli assi –o «motori»– su cui si muoverà «la rivoluzione». Fra ieri e oggi ha ribadito i passaggi. La nuova Ley Habilitante votata dall’Assemblea nazionale (dove, dopo il ritiro dell’opposizione dalle elezioni del dicembre 2005, tutti i 167 seggi sono chavisti) per avere i poteri speciali necessari ad adottare le riforme; la riforma costituzionale «in senso socialista»; l’«educazione popolare»; la «nuova geometria del potere»; lo «Stato comunale» («una specie di confederazione regionale, locale, nazionale dei consigli comunali») quale primo passo dello «Stato socialista, dello Stato bolivariano capace di guidare una rivoluzione». Per avviare questi 5 «motori», dovrà essere riformata «profondamente» la costituzione bolivariana che allora, nel ’99, già diede un colpo forte ma non ancora letale al vecchio sistema della democrazia rappresentativa, formale ed escludente che aveva retto il Venezuela dal ’58 al ’98 preservandolo da golpe e dittature militari ma facendo di quell’Eldorado petrolifero il paese dell’incredibile tasso di povertà (l’80% dei 26 milioni di venezuelani). La struttura economica che Chávez sembrerebbe preferire per la società venezuelana è quella che i suoi consiglieri economici definiscono di «sviluppo endogeno», fondata cioè sulla produzione interna di beni agricoli e industriali da parte di cooperative di lavoratori, ma in cui lo spazio per gli imprenditori privati non è escluso, anzi, per molti versi appare necessario. Chávez è infatti ben consapevole che non potrà fare a meno degli investimenti delle grandi imprese private nazionali ed estere per ammodernare la realtà economica del suo Paese.