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Allegorie di guerra sulla scacchiera islandese

di Massimo Raffaeli - 30/01/2007

 
Bobby Fischer è un genio ma come propagandista del mondo libero è del tutto controproducente
Prigioniera dei luoghi comuni, la stampa di allora oppose il grigiore oltrecortina dell'amletico Spasskij alla «metafisica della libertà» incarnata da Fischer. Schematismi errati, imposti dal conflitto latente fra Usa e Urss David Edmonds e John Eidinow rievocano in «Bobby Fisher va alla guerra» il clima di tensione intorno alla celebre partita a scacchi che nel '72 a Reykjavik vide la vittoria dell'americano sul sovietico Spasskij


Viktor Sklovskij scrisse in un apologo intitolato Il punteggio di Amburgo che nella città capitale della lotta libera tutti gli incontri venivano regolarmente truccati: una volta l'anno, però, di notte, nella perfetta clandestinità di una taverna a porte chiuse, i lottatori si battevano ad armi pari e il punteggio che ne derivava stabiliva - ufficiosamente ma inderogabilmente - quale fosse il loro effettivo valore. La disputa rispondeva tanto a un'esigenza egualitaria (nel ristabilire, cioè, eque condizioni di partenza) quanto all'umanissima necessità di formulare un giudizio tecnico e di fondare su di esso una gerarchia sportiva.
I meccanismi divisori della Guerra Fredda a lungo hanno mantenuto simili rese dei conti nei rigorosi ambiti di appartenenza, impedendo cimenti che non fossero mediati dalla presenza di «terze forze», neutrali o comunque almeno formalmente equidistanti, come nel caso delle Olimpiadi e dei Mondiali relativi ai maggiori giochi di squadra.
Una sfida in campo neutro

Fu al declino della Guerra Fredda e davanti a una scacchiera, la quale traduceva il conflitto in allegorie feudali, che Usa e Urss si scontrarono e tornarono a dividere il mondo per il tramite di due campioni, Bobby Fischer e Boris Spasskij, e di una sfida in campo neutro, nella sperduta Reykjavik, che durò dall'11 luglio al 1 settembre del 1972 per venti partite complessive.

I lettori meno giovani non dovrebbero faticare a ricordarsene: quella fu in Italia un'estate relativamente calda, tuttavia successiva a elezioni politiche dove a un discreto successo del Pci aveva corrisposto la netta avanzata del Msi di Almirante e l'ulteriore spostamento a destra della Dc di Andreotti e Fanfani; il paese, pure se l'espressione non era ancora entrata nel senso comune, si trovava nel pieno della cosiddetta «strategia della tensione». Ricordo una prima pagina di «Paese sera» (era il quotidiano in cui scrivevano Pasolini, Sanguineti, Gianni Rodari, incluso un narratore di cultura liberale ma di estri imprevedibili come Arrigo Benedetti: è anche per questo motivo che, allora, molti giovani del centrosud leggevano lo scomodissimo lenzuolo del giornale romano e amavano esibirne la fascetta rossonera quasi fosse un simbolo di appartenenza certa ma non di allineamento schematico): nel taglio basso di quella pagina c'era il disegno stilizzato della scacchiera islandese col diagramma della partita in corso mentre, risalendo la pagina, essa si spartiva in un'erma bifronte: il bell'ovale di Spasskij si sovrapponeva, deformandosi, al grugno vagamente suino di Leonid Breznev mentre il profilo imberbe e scavato di Fischer doppiava, rincagnandosi, il ceffo più o meno gangsteristico di Richard Nixon.

Fra gelo e ipocrisia

Non solo i giovani dei movimenti ma larghe fasce dell'opinione pubblica davano entrambi quei leader per irrecuperabili insieme coi sistemi di cui erano espressione: l'uno testimoniava il fallimento della destalinizzazione e insieme il ritorno a un gelo che ipso facto comportava la dittatura del Partito sulla società, perché era l'uomo che aveva fatto processare Daniel e Sinjavskij, che diffamava ogni giorno Solzenicyn, già noto al di qua del Muro sia pure per un solo libro, terribile e meraviglioso, vale a dire Una giornata di Ivan Denisovic; l'altro era l'anti-Kennedy, uno schiaffo in pieno volto al Sogno Americano, era il politicante corrotto, l'uomo dell'ipocrisia puritana e, insieme, dei bombardamenti a tappeto sul Vietnam.
Tutto questo raccontano, convergendo per cerchi concentrici sulla sfida scacchistica, due giornalisti della Bbc, David Edmonds e John Eidinow, nel volume Bobby Fischer va alla guerra. Fischer-Spasskij, il titolo mondiale di scacchi e la guerra fredda (traduzione di Andrea Buzzi, Garzanti, pp. 419, euro 22), un corposo reportage, scritto all'anglosassone e cioè ancorato all'umile scienza della cronologia, intramato di soli fatti, suffragato da documenti sempre di prima mano: un bel libro di storia che non presume affatto di esserlo.

In altri termini, un libro sorprendente perché sfata innanzitutto il più inveterato dei luoghi comuni, secondo cui Spasskij, il perdente, avrebbe rappresentato allora il grigiore oltrecortina, la mutria sovietica, mentre Fischer, il vincente, avrebbe incarnato la metafisica della libertà, uno spirito così eslege e indipendente da rasentare l'anarchia, o meglio l'utopia di un romanticismo assoluto. Che le cose non stessero affatto così e anzi contraddicessero in maniera imbarazzante il relativo stereotipo dei campioni, Edmonds ed Eidinow lo documentano nella prima metà del libro dedicata al romanzo di formazione dei due fuoriclasse.

E qui va detto subito che alla stampa di allora, travolta da un fatto che quotidianamente incrementava attenzione e consenso, non conveniva proprio derogare dal luogo comune e attestare per esempio come Spasskij, il presunto burocrate, la macchina-da-scacchi, disponesse in realtà di un repertorio spettacolare, fosse forte di un talento in cui si combinavano memoria e inventiva, tale da richiamare in più di un'occasione il nome temerario di Mozart; mentre Fischer, l'artista conclamato, amasse compensare la scarsa fantasia delle aperture (tanto limitate da farlo scambiare talora per un qualsiasi professionista) con una condotta di gioco prudente e persino avara, tuttavia portata fino in fondo da una ossessione cognitiva capace di cadenze ipnotiche. (Per dirla in termini tennistici, è il sovietico a profondere i colpi alla McEnroe, quando lo statunitense, fedele al proprio metronomo, somiglia in tutto a Bjorn Borg, «pallettaro» sublime).
Tutti e due hanno avuto una infanzia difficile e rapporti controversi col sistema, tutti e due, in misura diversa, conoscono la dura condizione dell'orfano. Spasskij è nato a Leningrado nel '37; a diciannove anni, dentro il monopolio sovietico, risulta già tra i primi cinque scacchisti al mondo; vince il mondiale nel '69 battendo l'armeno Tigran Petrosian, vecchia gloria socialista, giocatore algido e infinitamente cogitabondo, un mago dello zero a zero; peraltro Spasskij, senza essere un dissidente, non è iscritto al Pcus, sembra parlare in pubblico solo per l'imbarazzo dei burocrati, dice di amare Dostoevskij e di obbedire esclusivamente ai dogmi della Chiesa ortodossa; a Reykjavik, chiuso in albergo, non ha voglia di allenarsi, ha il pallore del principe Amleto, rifiuta la «protezione» del Kgb e si fa accompagnare da assistenti di secondo piano, vecchi amici e personaggi poco ingombranti: l'apparato peraltro non lo ama affatto, egli si sente solo e semmai si chiede se davvero ne valga la pena, se cioè non sia meglio perdere pur di liberarsi dall'obbligo di vincere recitando per l'ennesima volta, suo malgrado, la parte dell'eroe positivo.

Viceversa, fosse nato in Unione Sovietica, di Bobby Fischer avrebbero senz'altro tollerato il filisteismo e celebrato lo zelo; costui ha appena ventinove anni, è figlio di padre ignoto (si saprà poi trattarsi di un fisico ungherese, forse comunista) e di un'ebrea polacca iperprotettiva, militante a sinistra e sottoposta per decenni a costante controllo dagli agenti di Hoover. Bobby si forma a Brooklin, nel '56 è già campione juniores e ha completamente sviluppate le sue caratteristiche: alto, magro, isolato e perso dentro una specie di autismo scacchistico, non gli si conoscono interessi che vadano oltre i pezzi bianchi e neri (dicono giocasse contro se stesso anche a tavola), il denaro di cui si dice avido nello stesso momento in cui proclama di non averne bisogno, e infine una vera passione per la propaganda anticomunista e antiebraica: in vista dell'incontro è infatti lusingato dalle telefonate incoraggianti di Henry Kissinger e, pur rispettando a suo modo lo Sabbath, non smette le sparate antisemite sul tono di quelli che in seguito dirà essere i suoi libri essenziali, nientemeno i Protocolli dei Savi di Sion e Mein Kampf; oltretutto Fischer scatena una mezza crisi diplomatica, arriva in Islanda con giorni di ritardo, si produce in ogni genere di bizza e ripicca, straparla e ricatta, pretende che intorno a lui si apra un vuoto silenzioso e adorante, insomma il Nirvana più propizio alla sua immancabile apoteosi.

Che la stampa di allora, inclusa la nostra e di sinistra (sottolineano oggi Edmonds ed Eidinow), spacciasse quel prodigio di arroganza e di maleducazione per un'esotica bohème e dunque ritraesse l'elegante amletismo di Spasskij nei modi della mediocrità brezneviana e del torpore burocratico, ciò è qualcosa che si spiega soltanto, e appunto, con le schematiche semplificazioni della guerra ideologica in corso, sia pure al suo ultimo atto (e si veda, al riguardo, la chiara e sintetica disamina che ne propone Bruno Bongiovanni in Storia della guerra fredda, Laterza 2001).
Fischer si può dire abbia vinto prima ancora che si degni di sedere alla scacchiera. Gli farebbe orrore ammetterlo ma adotta la tattica dei Vietcong, provoca l'avversario e fugge, logorandolo, con la muta e interessata complicità degli arbitri e dell'intera organizzazione. Ora non gli vanno le luci, la distanza dal pubblico, il colore delle pareti, ora il ronzio delle telecamere, ora i pezzi sulla scacchiera, ora persino le venature iscritte nel marmo della stessa. Ritardi, dilazioni, controversie, patteggiamenti, palesi ricatti che a nessuno sarebbero concessi se non a chi sta dimostrando, con una facciatosta senza pari, che se il genio ha davvero un valore esso deve avere anche un prezzo, il più esoso, e che infine il tempo, tutto il tempo, per lui significa denaro. Qui Fischer si dimostra un uomo d'affari nella versione più raffinata, in quanto filosofo del plusvalore immateriale e teorico del profitto virtuale.

Spasskij, sportivo fino all'anima e all'autolesionismo, accetta quei capestri in blocco e ha il torto, se è un torto, di battersi purchessia, contro colui che deve vincere, contro il suo mondo medesimo, di cui deve avvertire l'agonia e che pure è costretto a rappresentare, forse contro se stesso. Il decorso dell'incontro, documentato con puntiglio filologico da Edmonds e Eidinow nella seconda parte del volume, è ormai risaputo.

In anticipo sul verso della storia

Buon esordio del russo, poi sostanziale parità, con progressiva rimonta e sorpasso dell'americano fino alla partita decisiva, la tredicesima (nove ore, qualcosa di epico ricordano gli specialisti), cui segue una serie abbastanza stucchevole di pareggi: sull'11,5 a 8,5, prima della ventunesima partita, Spasskij abbandona e cede lo scettro di campione del mondo allo sfidante. In conclusione, si domandano gli autori del reportage: «Con lo sguardo del XXI secolo, il trionfo di Fischer rappresentò una vittoria (quantomeno simbolica) nella guerra fredda che contrapponeva gli Stati Uniti all'Urss, eterno nemico? Una delle pecche della lettura dell'incontro nell'ottica della guerra fredda balza subito agli occhi. Sia Fischer sia Spasskij erano decisamente inadatti a rappresentare i sistemi politici dei rispettivi paesi. Spasskij non era un patriota sovietico, e non lo nascondeva. Il comportamento asociale e idiosincratico di Fischer ne faceva, agli occhi di numerosi connazionali, un non-americano. Sul "Sunday Times" del 2 luglio, Arthur Koestler, autore del terribile saggio sullo stalinismo Buio a mezzogiorno, ammoniva blandamente: "Bobby è un genio ma come propagandista del mondo libero è del tutto controproducente". Il "Washington Post" osservava che il comportamento di Fischer aveva trasformato l'incontro da "evento sportivo a revival della guerra fredda". Uno dei lettori del giornale scrisse che Fischer "è l'unico americano in grado di far tifare gli Usa per i russi"». Fatto sta che le cose andarono in quel modo, seguendo il verso della storia o meglio anticipandolo.
Nella notte di Amburgo

Da tempo entrambi i campioni hanno smesso di giocare a scacchi. Fischer, l'ineffabile, è stato annientato dal proprio personaggio; dopo decenni di randagismo e di trovate ai limiti del surreale, adesso vive a Reykjavik, esponendosi ogni tanto ai turisti, dove il governo islandese lo mantiene alla stregua di una rarità dopo avergli pagato la cauzione per una brutta storia capitatagli recentemente a Tokio: l'isteria anticomunista e antisemita si è accentuata al punto da fargli pronunciare, dopo l'11 settembre, frasi indegne di un essere umano che abbia mantenuto l'uso della ragione. Senza abiurare nulla del suo passato, Boris Spasskij vive nei sobborghi di Parigi, a Meudon (Edmonds e Eidinow non lo rilevano, ma abita in effetti a duecento metri appena dalla casa che fu di Louis-Ferdinand Céline); contrariamente a Fischer, egli non ha nulla di céliniano e tanto meno di beckettiano, anche se per Samuel Beckett la pedana più adatta alla rappresentazione del suo capolavoro, Finale di partita, avrebbe dovuto essere proprio una scacchiera. Perché Spasskij è sempre rimasto un genio cortese, un signore dall'aria pensosa e vagamente amletica: così ci piace immaginare che, si fossero incontrati ad Amburgo nottetempo e a porte chiuse, avrebbe vinto lui.