Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Fuga da Baghdad

Fuga da Baghdad

di Eri Garuti - 31/01/2007

Una famiglia irachena come tante, rifugiate in Giordania per sfuggire dagli orrori della guerra

 
 
Layla non voleva lasciare Baghdad. Con la sua famiglia, è rimasta in Iraq durante gli anni della guerra con l’Iran, poi sotto le bombe americane del ’91 e durante i 13 anni di embargo che hanno impoverito il Paese e corrotto la società stessa. Layla non si è allontanata neanche durante la guerra del 2003, scoppiata quando lei era sposata da poco e incinta. Dopo la caduta di Saddam ha sperato che nel suo Paese, assieme agli americani, potesse arrivare un po’ di benessere economico, anche se il comportamento degli occupanti e la violenza dei ribelli l’hanno presto disillusa.
 
bambini iracheni senzatetto chiedono un aiuto per la casaUna lunga storia. Nel 2004 e nel 2005, nonostante le quotidiane sparatorie e autobombe che la costringevano a stare sempre in casa, non ha perso la speranza e non ha voluto lasciare il suo Paese. Fino a che non è stata costretta. Dopo l’attentato del 22 febbraio 2006 alla moschea di Samarra, che ha dato il via alla faida interreligiosa, ovvero alla guerra civile, lei e suo marito hanno ricevuto minacce. Per Layla, sunnita, e Ali, sciita, non c’era più un quartiere di Baghdad in cui poter vivere al sicuro. Certo non quello di Ghazalyah, alla periferia ovest della capitale, dove erano sempre vissuti, accanto ai genitori di lei. Nella zona, da tempo controllata da miliziani sunniti integralisti, sono stati diffusi volantini che intimavano agli sciiti di sparire entro 48 ore se non volevano essere uccisi. Layla e suo marito non hanno avuto scelta e sono partiti per Amman. Lui, ingegnere edile con una grande esperienza come capo progetto, cerca lavoro in Giordania da quasi un anno, ma per i profughi è diventato impossibile ottenere un impiego, soprattutto da quando un attentato di matrice irachena sventrò l’hotel Radisson di Amman, nel novembre 2005. E così Layla e Ali stanno finendo gli ultimi risparmi, poi saranno forse costretti a tornare in Iraq, dove sanno che qualcuno li aspetta per ucciderli. O per rapirli, come è successo al marito di Muna, la sorella di Layla. Muna era rimasta a Baghdad per partorire il suo secondo figlio, ma, alla vigilia del giorno stabilito per il ricovero in ospedale e per il cesareo, suo marito è uscito in cortile per accendere il generatore di corrente (visto che, come sempre, a Baghdad mancava l’elettricità) e non è più rientrato. I vicini hanno detto a Muna che quattro uomini avevano caricato suo marito in macchina a forza e si erano allontanati a gran velocità. Pochi giorni dopo, ecco arrivare una richiesta di riscatto di 100mila dollari, una cifra irraggiungibile per un iracheno medio, anche per un commerciante come lui. Dopo lunghe trattative, la richiesta si è ridotta alla metà e tutti i parenti si sono dati da fare per mettere insieme il denaro e consegnarlo ai sequestratori. L’uomo è stato rilasciato dopo circa un mese e si considera molto fortunato: i rapitori gli hanno detto chiaramente che, se non fosse stato sciita come loro, lo avrebbero ucciso dopo essersi intascati i soldi. E’ stata questa la sorte di molti vicini e conoscenti di Layla, spariti nel nulla nonostante il pagamento di 60 o 70mila dollari di riscatto, in un Paese in cui i rapimenti sono diventati la prima fonte di finanziamento della guerriglia, sia sunnita che sciita.
 
un gruppo di profughi in fuga dall'iraqProfughi in fuga. Ora Muna, suo marito e i loro bambini sono ad Amman, a ingrossare le fila dei profughi iracheni destinati a rimanere disoccupati, anche se in cerca di un lavoro qualsiasi che consenta loro di mantenere la famiglia e, in questo caso, di restituire ai parenti i soldi prestati per il riscatto.
I genitori di Layla e Muna hanno tentato di uscire dall’Iraq con il figlio minore, poco più che ventenne, per salvarlo dai combattenti delle opposte fazioni. I giovani sono ricercati sia dalle milizie del proprio gruppo religioso, che li vogliono arruolare a forza, sia da quelle rivali, che cercano di eliminare i ragazzi prima che vengano assoldati.
Genitori e figlio sono stati però bloccati alla frontiera e hanno scoperto che la Giordania aveva deciso di impedire l’ingresso degli iracheni maschi tra i 18 e i 35 anni. Tutti e tre sono tornati a Baghdad e solo qualche mese dopo il ragazzo è riuscito a passare il confine, dimostrando di essersi iscritto a una facoltà di Amman. Il padre e la madre sono rimasti a Baghdad, dove insegnano entrambi in quell’università, colpita quasi ogni settimana dai terroristi, che vogliono impedire alla gente di studiare e di imparare a difendersi dal loro modello culturale distorto. Entrambi aspettano con ansia di poter andare in pensione. Continuano a vivere a Ghazalyah e sempre più di rado si avventurano a far visita a una sorella di lei, Hiba, che abita ad Arassat El Hindya, quartiere misto del centro, un tempo popolato soprattutto da cristiani, che oggi sono in gran parte fuggiti all’estero. Hiba, sunnita, ha ricevuto minacce dagli sciiti del vicino quartiere di Jadryah, che pretendono di estendere la zona di loro pertinenza includendo Arassat El Hindya, fino a pochi anni fa sinonimo di ricchezza e di apertura all’occidente, con i suoi negozi pieni di abiti attillati e di ristoranti con nomi europei. Ora i ristoranti sono chiusi e nessuna donna si azzarda più ad uscire di casa senza il velo.