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Liberalizzazioni del piffero (...che suona un'aria "sinistra")

di Gianfranco La Grassa - 05/02/2007

 

 

Vorrei sviluppare alcune considerazioni sulle recenti “liberalizzazioni”. Non entrerò nei particolari, di tipo tecnico o quasi, limitandomi invece alle considerazioni più generali che si possono fare a tal proposito.

 

Intanto, come al solito, si attaccano i gruppi sociali a volte ricchi (a volte nemmeno tali), ma certo non potenti, tanto meno dominanti. Non si pensa ad alcuna liberalizzazione, né a rinvigorire le “meravigliose” virtù della “libera” concorrenza, quando si tratta della fusione tra Intesa e San Paolo, che ha condotto ad un colosso sul piano dei mercati finanziari del nostro paese (certo nulla a che vedere con le banche americane o giapponesi). E come ci si poteva opporre, visto che Bazoli-Salza giocano senza dubbio il ruolo di “registi” mentre il Premier Prodi è il semplice attore (meglio, guitto) che segue le loro indicazioni? E’ preferibile “limare” i redditi di notai e benzinai, di taxisti e tabaccai e barbieri, ecc. Quando uno (Bersani & C, novelli Don Abbondio) non ha coraggio, come se lo può dare?

Che dire del fatto che non si proferisce verbo, tanto per fare un esempio nemmeno tra i maggiori, sulla società Charme? Quest’ultima è stata impiantata in Lussemburgo (paradiso fiscale) da Montezemolo, Della Valle, Merloni, Unicredit, ecc. (tutti del “piccolo establishment” relativo alla RCS); ha poi fondato una joint venture con una impresa cinese per importare in Europa articoli in cashmere e simili. Il potere di mercato di tale impresa importatrice è ovviamente di tipo oligopolistico, ed essa è in grado di rovinare molte piccole e medie imprese che commerciano con la Cina gli stessi articoli. Si dirà che la grande impresa in questione è in territorio straniero, non ci si può fare nulla. Invece, credo che sarebbe possibile farci molto; in ogni caso, nemmeno si parla di certi problemi, i potenti vengono lasciati tranquilli, sia da sinistra che da destra. Per i “veri grandi ricchi”, le liberalizzazioni intese a favorire la concorrenza sono superflue, non se ne discute neanche per un attimo.

In questo senso, mi sembra particolarmente deleteria la positiva accoglienza riservata al decreto in questione dalle varie associazioni consumatori, che non a caso pendono soprattutto verso una parte politica. Non mi diffondo sull’argomento perché non le conosco bene, ma ho l’impressione che molte cose esse abbiano a cuore, ma assai poco gli interessi dei consumatori, costretti magari a rivolgersi a loro così come i lavoratori, in mancanza d’altro, si debbono indirizzare ai sindacati, organizzazioni che non li rappresentano più realmente, e li difendono solo per il minimo indispensabile a non perdere ogni influenza politica.

 

Da almeno ottant’anni sono state condotte indagini e formulate teorie sulla “concorrenza imperfetta” (e da economisti, di fronte ai quali gli attuali dovrebbero cambiare mestiere e accettare di divenire direttamente fattorini delle varie organizzazioni imprenditoriali, soprattutto finanziarie). I “grandi esperti” di oggi sembrano (dico solo: sembrano) avere esclusivamente in testa le banali curve di offerta e di domanda, il cui incrocio indica il prezzo; e se l’offerta aumenta (“la curva si sposta tutta verso destra”), il punto di incrocio si trova ad un livello più basso. Nella realtà, quando ci sono svariati milioni di consumatori, con molte migliaia di “punti di vendita”, il tutto in territori di dimensioni di centinaia o migliaia di Km., è ovvio che – poiché è impensabile che tutti i consumatori visitino tutti i punti di vendita in cerca del prezzo migliore – i territori in oggetto debbano essere suddivisi in innumerevoli compartimenti di dimensioni credibili, in ognuno dei quali si trovano migliaia di consumatori con poche decine di “punti vendita” (se non ancora meno). Se si “liberalizza” e si aprono altri “punti vendita” in ogni dato compartimento, la domanda dei consumatori esistenti in quel pezzo di territorio – domanda spesso anelastica rispetto al prezzo, in particolare per prodotti alimentari, carburanti, e altri beni necessari – si suddivide tra un numero maggiore di venditori, con diminuzione dell’introito per ognuno di essi. Questi ultimi, non essendo molti in ogni data “porzione di territorio”, si mettono facilmente d’accordo per aumentare i prezzi e ripristinare gli introiti che ritengono necessari per continuare ad esercitare la loro funzione. Con buona pace della concorrenza, della diminuzione dei prezzi, dei vantaggi per i consumatori, ecc.

Si è trattato ovviamente di una pura coincidenza, ma comunque “gustosa”: il giorno della deliberazione sulle liberalizzazioni, mi è arrivata una lettera da Sky, in cui mi si annuncia che l’abbonamento mensile viene aumentato di 2 euro (su 30). La lettera mi “dimostra” come io sia fortunato, ci abbia persino guadagnato poiché il prezzo era fermo da tre anni. Quanti sono adesso i milioni di abbonati a Sky, che è un puro monopolio (d’altra parte, il suo proprietario Murdoch, dopo un breve “idillio” con Berlusconi, si è da anni avvicinato al centrosinistra)? Sia chiaro che nemmeno chiedo la “fine del monopolio” e la liberalizzazione dell’etere. Chi volete che apra nuovi canali TV? Magari la RCS (o una parte della stessa come nel già considerato caso della Charme) o De Benedetti o qualche altro “birichino” del genere. Vi sembra che questa sarebbe una liberalizzazione, un aumento della concorrenza, un vantaggio per i consumatori? Ma non diciamo fesserie, per favore!

Il vero fatto è che siamo in mezzo ad una accolita o di banditi o di deficienti “senza arte né parte”. Fa “tenerezza” vedere i “sinistri” – perfino quelli “estremi” (non tutti, per la verità) – ragionare come liberisti; ma quelli “del negozio appena girato l’angolo”, perché, sciocchi e inetti come sono, non riescono nemmeno a pensare di poter raggiungere un “altro quartiere”, si perderebbero per strada. E anche se sono emiliani, quindi concreti e pratici e solidi, di solido – cioè di duro come i sassi – hanno solo la testa, per di più vuota di ogni altro contenuto “più pregiato”. Povero nostro paese, in che mani è capitato. Una volta, dovevamo solo scontare il “peccato originale”; quale altro peccato abbiamo mai compiuto di ancor più grave di quello? 

 

Quanto fin qui sostenuto è però di scarsa rilevanza, in fondo. Il problema centrale è la totale mancanza di visione strategica dei nostri ceti “dirigenti” – economici e politici – che non dirigono più un bel nulla, né in economia né in politica, poiché hanno abdicato ad ogni loro ruolo di minima dignità nazionale per mettersi sotto le ali dei dominanti centrali (imperiali) statunitensi; poco importa se la preminenza spetta, di volta in volta, a questa o quella frazione (economica e politica) di tali (pre)dominanti. E’ ovvio che l’Italia, da sola, non è in grado di aspirare ad una politica dotata di sufficiente potenzialità sul piano della competizione globale. Tuttavia, il nostro non è un paese totalmente ininfluente in Europa; ed eventuali e radicali sconvolgimenti degli strati “dirigenti” (che attualmente non dirigono un bel nulla) produrrebbero effetti anche in altri paesi. L’Italia potrebbe tranquillamente essere un “esempio” – ma soprattutto un supporto, una “testa di ponte” – per analoghi rivolgimenti in alcuni paesi europei, perfino fra quelli di maggior rilievo.

Sarebbe però necessario ci fosse “qualcuno” capace di spazzare via radicalmente i ceti (sub)dominanti servili odierni. Occorrerebbe infliggere un colpo decisivo all’attuale prevalenza del capitale finanziario (a partire dalla “SanIntesa”), assolutamente subordinato a quello americano. Sarebbe necessario azzerare il potere degli attuali vertici confindustriali e di quelli – proni di fronte a questi ultimi – delle organizzazioni delle piccole e medie imprese dell’industria e del commercio; e bisognerebbe infine liberare i lavoratori salariati dalla loro obbligata “sudditanza” rispetto ad organismi sindacali corrotti e legati a filo doppio al potere capitalistico italiano, servo degli USA. Una vera “rivoluzione”, da non affidare certo agli sparuti gruppetti che dichiarano tuttora di essere “comunisti”; si debbono ignorare non perché si pretendono tali, ma perché il riproporre nella presente situazione, del tutto “disperata”, il progetto già miseramente fallito nel XX secolo è inaccettabile. Per il momento, sarebbe già tanto – perfino incredibile nel suo coraggio di osare – il proposito di potenziare effettivamente il nostro apparato economico, dando impulso ai settori di punta della nuova “rivoluzione industriale”; e senza “rompere i coglioni” – come fanno sparuti gruppi di “compagni” e di pacifisti – nel caso, ad es., di imprese quali la Finmeccanica perché “produce armi”. Essa produce anche, ed essenzialmente, nuove tecnologie avanzate in settori decisivi, che avrebbero poi, se assistite da una politica di “non asservimento” agli USA, ricadute importanti e generali su gran parte del sistema produttivo complessivo (e non solo italiano).

 

E’ ormai insopportabile sentire qualcuno – per fortuna sono pochi – che ancora parla di imperialismo italiano, come se noi fossimo sullo stesso piano degli USA. Il vero limite del capitalismo italiano non è certo la politica imperialistica, bensì un dominio esercitato – con modalità sempre meno “democratiche” (pur quelle soltanto formali di tipo “borghese”) – sul piano interno, ma solo per favorire i progetti globali del vero imperialismo, quello americano, cui si oppongono con sempre maggior vigoria e qualche successo (intanto sul piano “regionale”) altre potenze che, “in prospettiva”, sono anch’esse imperialiste e non certo interessate al “socialismo”, ormai accantonato per un lungo periodo storico. E’ inutile che mi si venga a ricordare che i nostri ideali di un tempo erano quelli “giusti”. Lo so benissimo, ma sentirsi nel “giusto” e non tentare nemmeno di pensare qualcosa di nuovo in una situazione di involuzione come quella odierna, che durerà per anni e decenni, è pura attitudine a “ritirarsi dal mondo”; se poi questo ritiro si maschera dietro roboanti dichiarazioni “rivoluzionarie” – che magari conducono soltanto all’appoggio elettorale di ambigui e anche loschi personaggi di questa squallida “sinistra” – allora è impossibile frenare il disgusto nei confronti di simili sparute pattuglie di “radicali” parolai.

Per il momento, sarebbe “gran cosa” se venisse spazzata via tutta questa genia di servi e di incapaci, che effettuano un autentico “sfruttamento”; non nel suo effettivo significato scientifico (l’estrazione di plusvalore), ma più semplicemente in quanto rastrellamento di reddito a favore di finanzieri parassiti, di industriali incapaci, di politici disonesti, privi di una qualsiasi strategia tesa a perseguire interessi minimamente generali; questi scadenti dominanti nostrani cercano solo di sopravvivere e di farsi “belli” di fronte ai padroni americani. Per il momento, mi accontenterei di una organizzazione politica (non di un generico movimento) capace di ripulire ogni angolino da costoro, onde dare forza al sistema complessivo e a quei settori che dovrebbero assumere il ruolo di effettiva avanguardia e traino di quest’ultimo. E vorrei una politica estera di avvicinamento alle nuove potenze in crescita (pur se non “socialiste”); non certo però per cercare nuove sudditanze, bensì per controbilanciare il predominio imperiale statunitense e, se possibile, favorirne il declino. Questo è nel nostro interesse, oltre a rispondere ad intenti antimperialistici (cioè contro l’egemonia globale statunitense); di questo è necessario convincere il nostro popolo, non semplicemente che comportandoci così saremo “buoni” verso i diseredati del mondo arabo o africano, ecc.          

Una forza politica del genere avrebbe anche un impatto “popolare”. Essa la smetterebbe sicuramente di mettersi alla coda delle indicazioni, pressanti e arroganti, degli organismi europei e di quelli internazionali (subordinati agli Stati Uniti), che – con la solita e ormai “scoperta” solfa dell’insostenibilità del debito e del deficit pubblici – vogliono sgretolare il nostro sistema pensionistico, quello sanitario, accentuare la “flessibilità” del mercato del lavoro, ecc. Tali organismi chiedono cioè un attacco frontale e generalizzato alle condizioni di vita delle grandi masse del nostro paese, al solo fine di aiutare i peggiori, fra i nostri ceti (sub)dominanti, a procurarsi i mezzi per prolungare il (per loro lucroso) servaggio, in perfetta combutta con i loro simili di questa inqualificabile area europea. Una forza politica, appena un po’ indipendente e interessata a promuovere un effettivo sviluppo del paese, si appoggerebbe ai ceti popolari – lo farebbe per necessità, non “per bontà” – e ne manterrebbe, per l’essenziale, il tenore di vita. Inoltre essa – interessata al sistema complessivo e non ai Bazoli, Montezemolo & C., o alle varie cosche ormai in sorda lotta fra loro (con, al momento, il relativo soccombere dei Tronchetti, Benetton, Geronzi), ecc. – non promuoverebbe azioni tali da mettere il lavoro salariato e quello autonomo, indipendentemente dalle loro varie stratificazioni di reddito, l’uno contro l’altro.

Sarebbe questo un cedimento rispetto agli “ideali” della perfetta eguaglianza, della indistinzione tra chi si impegna e chi no, tra chi ha slancio verso il nuovo e chi frena con gli occhi rivolti al passato, tra chi vuole crescere e chi fermarsi? Certo che lo sarebbe, perché quei falsi ideali non sono nemmeno quelli del comunismo di Marx, ma solo di gerarchie di (sub)potere parassitarie – come quelle sindacali, tanto per fare un esempio – che prosperano all’ombra dei poteri capitalistici (sub)dominanti, adattatisi a vivacchiare nella sfera di influenza americana. Occorrerebbe una “grande scopa” contro questa cianfrusaglia, questo ciarpame economico e politico (e culturale), che impedisce ai più di guardare al futuro con maggiore ottimismo. “Ripensare Marx” significa intanto ridare slancio a nuove prospettive, che sono comunque favorevoli alla maggior parte della popolazione – e incrinano il divide et impera tipico dei vili (sub)dominanti italiani, con le loro appendici “di sinistra” – pur se non immediatamente tese alle “magnifiche sorti e progressive” del sedicente comunismo e della sedicente classe universale che ci dovrebbe portare in Paradiso.

Per questo, non per le futili e meschine liberalizzazioni inventate da “progressisti” retrogradi e parassiti, vale la pena di battersi nell’immediato futuro. Pur se questa, lo sappiamo benissimo, non è ancora la “rivoluzione sociale”.