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L'abisso (recensione)

di Gianluca Morozzi - 08/02/2007

       
 

Autore: Gianluca Morozzi
Titolo: L'abisso
Edizioni: Fernandel, Ravenna 2007
Pagine: 192


[Sarà in libreria a partire dal prossimo 13 marzo il nuovo romanzo di Gianluca Morozzi, dal titolo "L'abisso".]

Ecco l'inizio:
Quasi l’alba, adesso.
Tra ventiquattro ore mia madre si alzerà tutta giuliva, s’infilerà nel suo tailleur rosa confetto, farà colazione canticchiando, uscirà di casa camminando su nubi di soffice vapore.
«Vado alla laurea di mio figlio!» ripeterà ai vicini di casa, logorroica come un nastro spezzato. «Vado alla laurea di mio figlio! Mio figlio diventa dottore! Presto sarà un avvocato!», e detto questo centomila volte salirà in macchina tutta contenta, guiderà giù per i tornanti di montagna che ama tanto, arriverà a Bologna puntualissima, pronta a cingermi la fronte con la corona d’alloro.
In perfetto orario per la laurea di suo figlio. Il momento che aspetta da tutta una vita.
Tutto bellissimo. Quasi commovente.
Se escludiamo il dettaglio che non ci sarà nessuna laurea, domattina. Sarebbe un po’ pretenzioso volersi laureare con quattro soli esami sul libretto.
Il libretto vero, intendo.
Non quello a uso e consumo di mia madre.

Io sono buono, è il fango dentro che mi frega. Affilate la lama di un coltello, tagliatemi in due, e un fiume di melma schifosa coprirà la mia casa, i miei dischi, l’intera città.
Io sono al capolinea. Mi sono ficcato in una situazione assurda e non so come uscirne, me lo ripeto ancora e ancora, non so come uscirne, non so come uscirne, non so come uscirne, lo ripeto finché le parole replicate all’infinito non perdono di significato, non so come uscirne, non so come uscirne, non so come uscirne, le ripeto come una cantilena, incollato al divano, con l’orologio del videoregistratore che segna le cinque del mattino e i muscoli dello stomaco che si contraggono sotto la spinta dell’alcol che cerca di risalire, l’alcol che ho buttato giù ieri sera per non dover pensare a niente. Se potessi vomitare me ne libererei, ma non ci riesco, a vomitare. Lo schifo risale fin quasi alla gola ma poi si ferma lì, non va su, non va giù.
Tengo la testa in avanti, allora. Guardo la tv senza volume.
C’è Ambra, alla tv. Una replica tardonotturna di Non è la Rai, ragazzine in età scolare che ballano sotto i riflettori come tanti elfi colorati.
Contraggo i muscoli dello stomaco, con la melma che non va né su né giù.

Io ho due libretti universitari chiusi nel cassetto. Uno è il libretto ufficiale. L’altro no.
Sul vero libretto, di esami ce ne sono quattro e solo quattro.
Sul falso libretto, ce ne sono ventuno. Su ventuno previsti dal vecchio ordinamento.
Sul falso libretto ho finito gli esami con una media da magistrato della Corte dei Conti. Fuoricorso, sì, ma neanche di tanto.
Le firme false sul secondo libretto le hanno fatte Drugo e Scaglia. Oppure la mia mano sinistra.

Il giochino era facile e divertente.
Io me ne stavo a Bologna a fare il cazzone e godermi la vita. Ogni tanto spacciavo a mia madre un esame brillantemente superato, lei si sdilinquiva in complimenti e mi allungava trecentomila lire. Destinate a trasformarsi in centocinquanta euro, al cambio di moneta.
Il giochino era così redditizio da volerlo ripetere ancora e ancora e ancora, per diciotto volte. Fino a quando, otto mesi fa, la somma di tre esami veri e diciotto esami finti non ha fatto ventuno.
Su ventuno.

Io ero convinto che avrei recuperato il terreno perduto, in quegli otto mesi. E infatti, in quegli otto mesi gli esami veri da tre sono diventati quattro.
Un trionfo senza precedenti.

Certo, sarebbe stato più saggio da parte mia giocarsi un po’ meglio questa brillante carriera universitaria. Alternare finti esami andati bene a finti esami andati male. Guadagnare tempo. Arrivarci più lentamente, a quel ventunesimo esame che funge da soglia per la tesi di laurea.
Solo, mi dispiaceva per mia madre. Mi dispiaceva telefonarle e dire: «Mamma, stamattina mi hanno bocciato a diritto penale, quei bastardi».
Era brutto farla star male, visto che in realtà la mattinata l’avevo passata sotto le coperte a riprendermi da una festa devastante. Mia madre era così contenta di quei trenta e lode mai esistiti, così orgogliosa, che era proprio brutto farla star male.
Così un giorno avevo balbettato al telefono: «Gli esami li ho finiti, mi ci vorranno almeno otto mesi per laurearmi».
E otto mesi, detti così, al telefono, sembravano un tempo lungo una vita.
Ecco. Gli otto mesi che sembravano una vita, si esauriscono domani mattina.
Alle dieci, di domani mattina.

Il cuore di mia madre è molto, molto debole. Se scopre che le ho mentito, se di colpo il giorno più bello della sua vita si rivela per quello che è, cioè nient’altro che una penosa messinscena, di certo mi muore sul portone della facoltà.
Se scappo oltreoceano per evitare di cozzare contro le mie responsabilità, tipo, scopre la messinscena e muore uguale.
Se confesso tutto, idem come sopra.
Se mi butto dalla finestra – soluzione, peraltro, lontanissima dalle mie corde – non regge al colpo e schiattiamo in due. Spreco inutile, direi.

A un certo punto, mentre sto selezionando la meno peggiore di queste ipotesi stupende, l’alcol sembra averla vinta. Corro in bagno, rimango dieci minuti in ginocchio davanti al water. La melma alla bocca dello stomaco non va né su né giù, non riesco a vomitare, giuda porco. Tutto lo schifo rimane dentro e si accumula, si accumula e contamina, giuda lercio, lercio d’un giuda.
Torno sul divano a guardare Ambra. Con la saliva acida che continua a germogliare in gola.

Mia madre domattina si presenta in facoltà vestita a festa.
Che faccio?
Che cazzo faccio?
Cosa m’invento stavolta, come ne esco?

Sono sul ciglio dell’abisso, e sono arrivato fin sul ciglio dell’abisso per colpa di mia madre, dell’incidente, di Scaglia, di Drugo. Per colpa di un barista idiota. Per colpa di Marianna, per colpa di tutto, per colpa di tutti.
Per colpa della mia malefica testaccia di cazzo, troia puttana.