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Nuova luce sull'orrore delle foibe

di Gianni Oliva - 10/02/2007

 
La Giornata del ricordo oggi celebra una memoria finalmente condivisa. Ma sloveni, croati e italiani devono interrogarsi ancora sul proprio passato

Primavera 1945: mentre il resto dell’Italia esce dal conflitto tra le ferite da rimarginare e l’ansia del «si ricomincia», sul confine Nord orientale la guerra prosegue nella pace. A Trieste, a Gorizia, nell’Istria molti italiani scompaiono portati via dalle proprie case dall’Ozna, la polizia politica dell’esercito jugoslavo del maresciallo Tito. Si tratta di persone coinvolte con il vecchio regime fascista, di antifascisti attivi nel comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia, di impiegati dello Stato italiano, di cittadini che non appartengono a nessuna di queste categorie ma che per una vendetta privata, un regolamento di conti vengono coinvolti nel dramma di quei giorni. Gli arrestati «scompaiono» e di loro non si sa più nulla: molti saranno uccisi e gettati nelle foibe, i grandi inghiottitoi naturali di cui è cosparso il territorio Carsico.

Altri moriranno in campi di concentramento in Slovenia e in Croazia. Difficile dire quanti: la cifra oscilla tra una valutazione minima di 5 mila morti e una massima di 12 mila: in ogni caso si tratta di una strage che non trova paragoni nella storia italiana in tempo di pace.

Il maresciallo Tito voleva l’Istria e Trieste

Il retroterra di questa violenza sono le sedimentazioni del ventennio fascista, le arroganze del nazionalismo italiano del ventennio, le durezze dell’occupazione italo-tedesche dei Balcani nel 1941-‘43. Su questo retroterra si inserisce però un preciso progetto politico del nazionalcomunismo di Tito: il maresciallo voleva raggiungere il confine dell’Isonzo e annettere alla nuova Jugoslavia le terre mistilingue dell’Istria e quelle a netta prevalenza italiana di Trieste, Gorizia e Monfalcone. Perché al tavolo delle trattative di pace venisse riconosciuta una annessione così ampia era però necessario che nessuno, in quelle terre, difendesse l’identità italiana: da qui la strage etnico politica delle foibe.

Su questi fatti è caduto nel corso del tempo un triplice silenzio. Silenzio internazionale, in primo luogo: quando nel 1948 Tito rompe i rapporti con l’Unione Sovietica di Stalin diventa per l’Occidente un interlocutore che, come tale, non deve essere messo in difficoltà con domande imbarazzanti. Silenzio di partito: per il Pci di Togliatti parlare di foibe significava evidenziare le contraddizioni tra la sua natura di partito «nazionale» e la sua politica «internazionalista». Silenzio di Stato: l’Italia del 1945 vuole presentarsi come un Paese vincitore e rimuove dalla sua memoria tutto ciò che riguarda la sconfitta. Non si parla di infoibati e di profughi giuliano-dalmati perché nessun Paese vincitore ha migliaia di concittadini assassinati dopo la fine della guerra e altre centinaia di migliaia costretti ad abbandonare le loro terre.

Non più bandiera della destra, tabù della sinistra

Oltre sessant’anni dopo ci sono le condizioni per una memoria condivisa? Per molti anni le foibe sono state considerate una bandiera dalla destra e un tabù dalla sinistra. La larga maggioranza parlamentare che nel 2004 ha istituito del 10 febbraio la Giornata nazionale del ricordo è stato il segnale importante di un superamento delle lottizzazioni ideologiche del passato.

Tanta strada è però ancora da percorrere: sloveni e croati da un lato, italiani dall’altra, se vogliono essere consapevolmente cittadini d’Europa devono interrogarsi sul proprio passato, gli uni riconoscendo gli orrori delle foibe, gli altri le violenze del fascismo e della guerra ’41-’43 nei Balcani. Le «memorie» che vogliono rafforzare il presente e guardare al futuro non possono essere fatte di omissioni e di censure, ma devono fondarsi su consapevolezze critiche e onestà intellettuale.