Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / E' in atto una guerra contro i giovani che accomuna la destra e la sinistra

E' in atto una guerra contro i giovani che accomuna la destra e la sinistra

di Marco Bascetta - 10/02/2007

Gli anni verdi di una classe pericolosa  
E' in atto una guerra contro i giovani che accomuna la destra e la sinistra. Dall'università al lavoro, al tempo libero è un fiorire di leggi preposte a esercitare un ferreo controllo sui loro comportamenti I modelli di gioventù positiva che l'insistenza mediatica ha imposto oscillano tra i papa boys e le scimmiette che applaudono nei talk show. Tutto il resto passa, più o meno, come anticamera del terrorismo o del parricidio


«La società italiana invecchia»; «un tappo generazionale sbarra la strada ai più giovani», «tutte le leve del comando sono saldamente nelle mani dei più anziani»: le lamentazioni sulla gerontocrazia italiana, spesso per bocca della medesima, spalmate sui media d'ogni orientamento e colore si susseguono a ritmo crescente. Grafici e percentuali assegnano agli ultrasessantenni, ai cinquantenni avanzati nel migliore dei casi, parlamento e università, istituzioni e industrie, segreterie politiche e consigli di amministrazione, posizionando sui 65 anni l'età media della classe dirigente. Colpa di una gioventù viziata e inconsistente, sostengono gli uni, responsabilità di una pletora di vegliardi abbarbicati al potere e indifferenti al futuro del paese, rispondono gli altri. In ogni modo non vi è esponente politico di destra o di sinistra, «moderato» o «radicale» che non sbraiti il suo «largo ai giovani», ben guardandosi, naturalmente, dal mettere da parte la sua veneranda persona, anche se qualcuno si azzarda a proporre, con ben pochi rischi di avere seguito, limiti di età per gli incarichi politici.
Tratto comune in questo coro di disappunto è la convinzione che questa gioventù debba accedere agli spazi sociali, politici ed economici oggi controllati dai più anziani, vivacizzandoli con la sua «fresca energia» ma lasciandone in buona sostanza inalterato l'assetto. Così i giovani dovrebbero conquistarsi cattedre nell'università così come è, ma guai se dovesse riaffacciarsi la vecchia nefasta utopia sessantottina di rivoluzionarla. Oppure dare il proprio contributo «innovativo» alle incanutite segreterie di partito, ma ben guardandosi dal mettere in discussione quella forma di organizzazione politica; arrancare nel mercato del lavoro, ma secondo i sacri dogmi del neoliberismo, per gli uni, o conquistandosi il buon vecchio posto fisso «che nobilita l'uomo» per gli altri; abbandonare la casa paterna e farsi una famiglia, ma secondo le regole dettate dal cardinal Ruini. Non è un caso che la conferenza episcopale italiana, nella sua strenua battaglia contro l'introduzione dei Pacs, abbia sostenuto che la posta in gioco consiste soprattutto nel modello di unione (assoluto e non relativo) che deve essere «trasmesso ai giovani». Laddove è implicito che questi ultimi tornano ad essere considerati un soggetto passivo e acritico, destinato a conformarsi ai modelli etici e comportamentali messi a punto e imposti dall'alto. Si richiede insomma una accelerazione del cursus honorum, che non ne intacchi regole e gerarchie.

Liberalpaternalismo

Qualcuno ha definito efficacemente l'ideologia oggi dominante come «liberalpaternalismo», indicando con questa espressione una micidiale combinazione di liberismo economico e autoritarismo sociale, di permissività per le fasce alte della gerarchia sociale e controllo per le più basse. La retorica giovanilista si combina così con una inclinazione profondamente conservatrice (ma che paradossalmente si fregia oggi del nome di «riformismo»). Dai giovani si pretenderebbe dunque non un cambiamento, ma un ricambio, la continuità piuttosto che la trasformazione. Si reclamano insomma eredi devoti, non nuove soggettività. Le regole, i comportamenti, i «valori», gli stili di vita restano dettati dall'alto, saldamente nelle mani della deprecata «gerontocrazia».
La «questione giovanile» si pone innanzi tutto, come un problema di «integrazione». Di questo orientamento è emblematica l'istituzione di ministeri, di sapore squisitamente saddamista, come quello «per le politiche giovanili e per lo sport» o quello della famiglia, destinati a coniugare la ghettizzazione del tema con l'invadenza dello stato. I modelli di «gioventù positiva» che il discorso pubblico e l'insistenza mediatica hanno imposto negli ultimi anni oscillano tra i papa boys e le scimmiette che applaudono nei talk shows, tra «i nostri ragazzi in Irak» e i volontari della croce rossa. Tutto il resto passa, più o meno, come anticamera del terrorismo o del parricidio. Va da sé che con queste premesse e con questi modelli il «largo ai giovani» si riduce a poco più che una retorica di regime e una proliferazione di portaborse.

La ragione di questo «blocco generazionale» è ben lontana dalle spiegazioni di comodo che l'etablishment ne dà e risiede precisamente in quell'orientamento conservatore che, proiettandosi nel futuro, si pretende addirittura fattore di sviluppo e conduce, nei fatti, una guerra senza quartiere contro i giovani che finge di voler promuovere. Una guerra che, almeno per il momento, sembra avere vinto. Cosa ha permesso questa vittoria? E con quali strumenti è stata combattuta la guerra? In primo luogo ha pesato un fattore banale e universalmente noto: il calo demografico intensificatosi a partire dalla fine degli anni '60.

Demografia sovversiva

La fascia giovanile si è dimezzata dopo il 1980. Se negli anni del «miracolo economico» circa venti milioni di cittadini erano sotto i 21 anni, nel 2005 sono ridotti alla metà. Ma questo calo dell'incremento demografico è stato prevalentemente preso in considerazione con l'occhio rivolto ai consumi, al peso della previdenza sociale, all'occupazione, al rapporto tra popolazione immigrata e autoctona. Assai meno in rapporto all'incidenza culturale e politica delle diverse fasce di età sull'assetto sociale complessivo. Se la popolazione giovanile diminuisce, il suo peso politico e culturale è destinato a sua volta a diminuire in proporzione, penalizzando il desiderio di nuove esperienze rispetto al bisogno di sicurezza e alla riconferma di consolidate certezze. Senza alcuna pretesa di scientificità, a livello del tutto indicativo, potremmo considerare la popolazione tra i 17 e i 30 anni come la più attiva nei movimenti politici e culturali insorgenti. Potremmo allora imputare i movimenti dal 1968 al 1977 ai nati tra il 1945 e il 1958, circa tredici milioni di individui. Se consideriamo l'Italia del 1969 con i suoi 54 milioni di abitanti, questa gioventù ribelle rappresentava circa il 24 per cento della popolazione totale. Spostiamoci ora al 2002, l'anno dopo gli scontri di Genova e di piena espansione del movimento «altermondialista» in Italia. Se consideriamo le stesse fasce di età, e cioè i nati tra il 1972 e il 1985, siamo scesi a circa 10 milioni di individui e al 17 per cento della popolazione (immigrazione inclusa).
Questa flessione quantitativa contribuisce, certamente insieme con altri fattori, a un mutamento dei rapporti di forza tra le diverse generazioni che investe tutti gli ambiti della vita sociale e culturale. La pressione per la conquista di spazi autonomi, dalle abitazioni, agli spazi culturali, dalle abitudini di vita ai modi del lavoro, diminuisce sensibilmente. Non tanto da cancellare la «questione giovanile», ma abbastanza da ridurla, appunto, a «questione», e cioè a oggetto di un ordine del discorso che si svolge interamente all'interno dell'establishment in termini di «risposte» da dare a un diffuso e generico «disagio», oppure di problemi economici e sistemici, come l'andamento dei consumi o il finanziamento delle pensioni. E' l'immaginario degli «adulti» a dirigere l'orchestra a dettare gli stili di vita. Gli effetti di questo slittamento incidono in misura rilevante sul clima sociale complessivo. Infatti, aldilà dell'eterna e insulsa retorica sull'energia, l'ottimismo e la «generosità» della gioventù, la caratteristica effettivamente rilevante delle nuove generazioni è il fatto (che le assimila in qualche modo alle classi subalterne di un tempo) di non aver partecipato alla definizione delle norme che ne regolamentano la vita e dunque la conseguente propensione a rimetterle in questione, a misurarle con i propri desideri e le proprie aspirazioni, a esaminare le possibili alternative. Ciò significa che qualunque difesa in termini conservativi, nostalgici o resistenziali di questa o quella «conquista democratica», senza spinte in avanti, senza visibili elementi di trasformazione è destinata a entrare in rotta di collisione con questa naturale propensione critica. O a cedere terreno di fronte a una destra che traveste in termini «innovativi» il rafforzamento delle gerarchie sociali esistenti.
Sta di fatto che nell'uno come nell'altro caso, la «conservazione» di sinistra e l'«innovazione» di destra, fondandosi entrambe su assetti e sistemi di potere orientati all'autoconservazione, respingono qualunque interrogazione non subalterna alle regole date, sulla base di un modello, sostanzialmente condiviso, di «normalità» (quella operaia così come quella borghese). E'questa la base dell'universale richiamo al «moderatismo» che caratterizza, di fatto, l'intero ceto politico contemporaneo. Questo osannato «moderatismo» è da una parte negazione dei conflitti come fattore di sviluppo sociale, (fino al punto da non distinguere quasi più tra i fischi delle labbra e quelli delle pallottole), dall'altro pretesa di adeguamento a uno standard, a una «medietà», a una «etichetta» furbescamente confusa con la stessa democrazia. Così, la tendenza delle giovani generazioni a investire criticamente le regole date, attraverso l'adozione di pratiche conflittuali (accompagnate o meno da argomentazioni politiche) è immediatamente classificata nella rubrica della «devianza» quando non in quella del crimine o delle sue premesse. Ed è fatta oggetto di una vera e propria guerra.

Disciplina benpensante

Le riforme della scuola e dell'università, dagli anni '80 in poi, si sono immancabilmente ispirate a una iperregolamentazione dei comportamenti e a una predefinizione dei percorsi, intesi ad adeguare le biografie dei singoli allo stato di cose esistente (le presunte e quasi mai reali necessità delle aziende). L'inasprimento progressivo, e spesso gratuitamente persecutorio, della legislazione sull'uso di sostanze stupefacenti, si spinge ben oltre la tutela della salute verso una dimensione paternalista e prescrittiva che mette in campo contro pratiche diffuse a livello di massa e relative sensibilità culturali una disciplina ritagliata sulla misura, del tutto immaginaria, dell'elettore-genitore «moderato». Tra medicalizzazione e criminalizzazione i giovani tornano ad essere considerati soggetti del tutto incapaci di badare a sé stessi, e consegnati a istituzioni rieducative di carattere repressivo, che coniugano concezioni arcaiche e profitti privati.

La legislazione del lavoro, con il nobile intento di favorire l'occupazione giovanile, predispone una sorta di grado zero dei diritti e delle retribuzioni, che dovrebbero accrescerne l'appetibilità sul mercato, o alimenta con «prestiti d'onore» e altri miserabili finanziamenti, la leggenda del «giovane imprenditore» e del self made man. Nello stesso tempo una selva di leggi, regolamenti e misure fiscali, ostacolano ogni tipo di autorganizzazione, individuale e collettiva, e ogni forma di rapporto con il mondo produttivo che non rientri negli standard definiti dai programmatori di stato e di confindustria. Tutto ciò che proviene dal basso porta il segno della minaccia o del crimine. I fautori della «libera impresa» hanno ormai svuotato questa espressione di qualsiasi senso.

Lavori socialmente forzati

Se guardiamo al tempo libero, l'atteggiamento bipartisan del ceto politico non cambia minimamente. Nei centri storici, i «residenti», appoggiati dalle amministrazioni comunali, scendono in piazza contro la movida notturna. Ciò che è stato l'elemento decisivo nella valorizzazione dei quartieri e delle rendite immobiliari è ora stigmatizzato come elemento di disturbo e di turbativa della quiete «moderata». I sindaci della sinistra non si vergognano di cavalcare i tetri umori e le paranoie di un ceto proprietario che si rifiuta di pagare il prezzo dei propri privilegi. I giovani figurano così come orde barbariche a cui opporre un argine, come una «classe pericolosa» a cui rispondere in termini di repressione o di disciplinamento. Sergio Cofferati a Bologna si è caparbiamente proposto come esempio principe di questa involuzione vessatoria. Il mondo anglosassone esporta modelli di controllo sociale fondati sul coprifuoco per i minorenni e sulla persecuzione delle famiglie dei «devianti», sul controllo poliziesco della frequenza scolastica. Qualcuno si spinge fino a proporre di vaccinare i bambini contro il «vizio», agendo sui fattori fisiologici che predisporrebbero al consumo di droghe, alcol e nicotina, e, perché no, all'indisciplina o alla promiscuità sessuale. Una ingegneria medica di stampo etico, che tuttavia non ricorre tra le veementi denuncie di quanti, a ogni piè sospinto gridano al ritorno dell'eugenetica. Sono ricette che, anche nell'Europa continentale, cominciano a riscuotere consensi e successi. Segolène Royale, candidata socialista alle elezioni presidenziali francesi, propone una soluzione «moderata», come i lavori forzati per i giovani rivoltosi delle banlieues. La sinistra europea ha registrato la debolezza demografica delle nuove generazioni e ne ha tratto le sue tristi, «moderate», conseguenze. Totalmente succube delle politiche securitarie, le accompagna, blandendo la presunta «moderazione» della mezza età benpensante. La lotta di classe non è stata certo una questione generazionale, ma, converrebbe non dimenticarlo, con l'eccezione di Lenin, i bolscevichi avevano vent'anni. Sarà per questo che, nella guerra ai giovani, si spendono tante energie.