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"Notizie dal mondo" 1/15 novembre

di rivistaindipendenza.org - 18/11/2005

Fonte: rivistaindipendenza.org

Francia. 1 novembre. «La Costituzione europea, se approvata, avrebbe avuto sbocco in una Europa americana». È la conclusione di Hervé Beaudin, filosofo ed economista francese di tendenza sovranista. Beaudin analizza nel volume Oltre il no (Au-delà du Non, edizioni Ellipses) le ragioni della sconfitta del Trattato costituzionale al referendum dello scorso 29 maggio. Ma anche, o soprattutto, le prospettive per i vincitori della consultazione, vale a dire per quelle forze politiche che si sono battute contro l’adozione del Trattato. Il risultato della sua indagine, condotta in totale libertà da ogni luogo comune o auto-censura europeisti, è che tale Trattato è stato concepito per affossare l’idea repubblicana e nazionale, e dissolvere le nazioni europee in una federazione completamente sottomessa a Washington.

Francia. 1 novembre. Beaudin smonta poi la favoletta secondo cui l’Europa federale e integrata avrebbe potuto costruire una politica di sicurezza e difesa autonoma. «Uno dei motivi per cui era assolutamente necessario rifiutare il Trattato è che esso avrebbe dato vita a una politica di sicurezza e difesa comune dominata dagli USA. Il paragrafo 2 dell’articolo I-41 non poteva essere più chiaro in proposito», spiega Beaudin e ricorda come tale paragrafo subordinasse l’orientamento strategico dei paesi membri ai loro obblighi derivanti dal Trattato di Washington del 1949. L’autore francese rileva anche che, a parte questo articolo, ampiamente dibattuto durante la campagna referendaria, ve ne erano altri ancora più insidiosi. «L’articolo III-294 stabiliva che gli Stati membri avrebbero dovuto astenersi da ogni azione potenzialmente lesiva dell’efficacia dell’azione dell’Unione». Un concetto specificato meglio da altri due articoli. L’articolo III-297, per il quale, al paragrafo 2, si stabiliva che «le disposizioni prese [dall’UE, in materia di sicurezza e difesa, ndr] impegnavano gli Stati membri nelle loro prese di posizione», e al paragrafo 3, addirittura, impediva agli Stati membri di prendere alcuna iniziativa in merito senza l’autorizzazione del Consiglio.

Francia. 1 novembre. L’articolo più pernicioso, conclude Beadin, «era l’articolo III-300-1». Esso stabiliva che, qualora uno o più Stati membri fossero in disaccordo con le misure in materia di sicurezza e difesa, essi avrebbero dovuto «astenersi dall’intraprendere ogni azione suscettibile di entrare in conflitto con l’UE o di frapporre ostacoli all’azione prevista». Tanto per fare un esempio: se il Trattato costituzionale fosse stato in vigore nel 2003, la Francia, la Germania e il Belgio non avrebbero, di fatto, potuto opporre alcuna opposizione in sede ONU alla guerra contro l’Iraq voluta dagli USA. Né avrebbero potuto intraprendere alcuna iniziativa contro l’eventuale decisione pro-guerra da parte della UE (decisione probabile, dato il numero di Stati allineati con l’asse USA-Regno Unito).

Austria. 1 novembre. Gli interessi del governo di Vienna nei Balcani occidentali sono all’origine della contrarietà austriaca all’ingresso della Turchia nell’UE. Vienna, piuttosto, spinge l’Unione ad avviare trattative per l’adesione della Croazia. In un’intervista dell’aprile scorso al quotidiano Kurier, il ministro degli esteri austriaco Ursula Plassnik già allora caldeggiava l’ingresso della Croazia nell’UE: «Dobbiamo guardare concretamente ai nostri vicini. In questa zona abbiamo enormi capitali investiti, oltre a credibilità e fiducia: tutto ciò dovrà essere gestito nella maniera giusta (…) I Balcani occidentali sono la regione economicamente più importante per l’Austria», dichiarava il ministro. Un concetto ribadito lo scorso settembre da Peter Zöllner, direttore della banca nazionale austriaca: come la Slovenia in Bulgaria, l’Austria è in Croazia il maggiore investitore estero (più del 30% della quota degli investimenti esteri). L’Austria, al contrario della Germania, non risente di alcun marcato intreccio economico con la Turchia.

Iraq. 1 novembre. L’82% degli iracheni è «fortemente contrario» alla presenza delle truppe estere. di coalizione. Lo rivela un sondaggio militare confidenziale effettuato per conto del Ministero della Difesa ed esaminato dal Sunday Telegraph nell’edizione del 23 ottobre 2005. Ad eseguirlo, un gruppo di ricerca dell’Università irachena, cui è stato taciuto che i dati sarebbero stati utilizzati dai comandi militari. Il 50% degli iracheni crede che gli attacchi contro le truppe britanniche e statunitensi siano giustificati, percentuale che aumenta al 65 nella provincia di Maysan, una delle quattro province sotto controllo britannico. Il 43% degli iracheni crede che le condizioni per la pace e la stabilità siano peggiorate; meno dell’1% pensa che i militari stranieri migliorino la sicurezza nel paese. Andrew Robathan, ex membro delle SAS e “ministro ombra” della difesa per i conservatori, ha detto che il sondaggio mostra chiaramente il totale fallimento della politica di governo, ed aggiunge: «Non sto sostenendo il ritiro, ma se i soldati britannici stanno mettendo le loro vite in pericolo per una causa che non è sostenuta dalla popolazione irachena, allora noi dobbiamo porci la domanda: che cosa ci facciamo là?».

Iraq / Siria. 1 novembre. «Sono assolutamente contrario a che il territorio iracheno sia usato come base di lancio per un eventuale attacco militare contro la Siria o ogni altro paese arabo». Così dichiara il presidente iracheno Jalal Talabani al quotidiano arabo Asharq Al-Awsat, in merito ad un possibile attacco USA alla Siria. Ma aggiunge: «questa è la mia opinione personale e le mie possibilità sono limitate rispetto alla potenza americana (…). Non posso imporgli il mio parere». Un’indiretta conferma della “democrazia” in vigore nel paese mediorientale, dove sono gli USA a dettare legge. Nei giorni scorsi il presidente Bush ha ribadito che un’azione militare sarebbe l’ultima risorsa per risolvere i problemi con la Siria. Un ritornello peraltro già sentito sino alla vigilia di precedenti aggressioni militari statunitensi. Talabani, che è anche l’esponente di punta dell’Unione Patriottica del Kurdistan, è stato a lungo alleato della Siria, che gli ha consentito di operare dal proprio territorio contro l’ex presidente iracheno Saddam Hussein. «Non dirò una parola contro la Siria, cui sono molto debitore. Se devo dire qualcosa, lo farò direttamente al fratello Bashar al-Assad (il presidente siriano, ndr)», ha aggiunto.

Siria. 1 novembre. La Siria accusa gli USA di non voler «sigillare» il confine siro-iracheno per destabilizzare l’intera area e rovesciare il governo di Damasco. «Abbiamo fermato 1500 presunti jihadisti per l’Iraq», asserisce l’ambasciatore siriano a Washington, Imad Mustapha, in una lettera indirizzata ad un gruppo di membri del Congresso. Mustapha accusa l’Amministrazione Bush di aver dato la priorità ad un «cambio di regime» a Damasco rispetto ad una «exit strategy» dall’Iraq che potrebbe salvare tante vite statunitensi e irachene. Rileva Stefano Chiarini de il Manifesto che nella missiva «fatta filtrare alla stampa da alcuni settori minoritari del Dipartimento di Stato contrari ad aprire un altro fronte in Siria mentre ancora si combatte in Iraq», l’ambasciatore sostiene che ormai da un anno Damasco starebbe cercando di collaborare con gli USA nel campo della «sicurezza», ma senza aver avuto alcuna risposta da Washington. Damasco rivendica di «aver spostato nella zona orientale, verso l’Iraq, oltre 10mila soldati, costruito barriere di sabbia e filo spinato, chiuso i passaggi illegali e messo in funzione 540 postazioni». La lunghezza del confine e il carattere assai artificiale della linea di separazione tra i due paesi (con le stesse popolazioni e tribù a cavallo della frontiera) renderebbe «però impossibile un controllo del confine senza una collaborazione tra le truppe siriane da una parte e quelle americane e irachene dall’altra».

Siria. 1 novembre. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU preme sulla Siria per il caso-Hariri. Lo fa con una risoluzione, approvata oggi all’unanimità, che invita la Siria a cooperare all’inchiesta sull’attentato mortale contro l’ex primo ministro libanese, Rafik Hariri. Washington, Parigi e Londra ne avrebbero voluto una che fissasse solo sanzioni. Cina, Russia e Algeria hanno detto di no. Il che però, sulla base del testo approvato, non le esclude come misura addizionale in futuro.

Iraq. 1 novembre. Ennesimo bombardamento statunitense su civili. Stavolta è toccato ad Obeidi, vicino a Karabilia (ovest del paese), scenario settimane fa di un bombardamento analogo. Bilancio provvisorio: almeno 40 morti. Il Comando USA, che indica nella rete Al Qaeda l’obiettivo, ha vietato l’ingresso, nella zona, alla stampa. Una televisione è però riuscita ad aggirare il blocco militare statunitense e ad offrire immagine del massacro e dell’ira degli abitanti. Il Pentagono, intanto, con quattro successivi comunicati, comunica il suo bilancio di morti: oggi otto, in altrettanti attacchi della resistenza.

Libano. 1 novembre. La liberazione della Palestina è «realizzabile». Lo sostiene il segretario generale del movimento di liberazione nazionale libanese Hezbollah. «Il ritiro di Israele da Gaza (…) è stata una vittoria della logica e del sistema della resistenza (…) dimostra che una Palestina libera non è una mera illusione ma qualcosa che può esser ottenuto mediante la resistenza», ha affermato Hassan Nasrallah in un messaggio inviato alla conferenza “Un mondo senza sionismo”, organizzato dall’Unione delle Associazioni Islamiche degli Studenti con la collaborazione delle associazioni di difesa dei diritti dei palestinesi. Questa conferenza si è svolta a Teheran nel “Giorno mondiale di Qods” (nome arabo di Gerusalemme), cioè l’ultimo venerdì del mese del Ramadhan (quest’anno il 28 ottobre). Una giornata proclamata come la “giornata dei diseredati di tutto il mondo” dall’Imam Khomeyni affinché «la Palestina diventasse la questione principale per il popolo palestinese e l’ideale centrale degli arabi, dei musulmani e della gente nobile del mondo». Nasrallah ha ricordato che la responsabilità di fronte a Qods ed ai palestinesi costituisce un dovere per tutti i musulmani del mondo, «essendo una responsabilità davanti a Dio, davanti all’umanità e davanti alla storia», ed affermato che «bisogna far uso di tutti i mezzi di lotta per far scomparire questo regime usurpatore ed estirpare il cancro di Israele». Nasrallah, nel suo messaggio, ha messo in risalto le forze attive in Libano, Palestina, Iran e Siria come punta di lancia della resistenza contro i piani statunitensi di ridisegno geopolitico della regione.

Israele. 1 novembre. Nel corso di un intervento alla Knesset (il parlamento monocamerale israeliano), Ariel Sharon ribadisce l’intenzione di voler proseguire «senza limiti finanziari o politici» la costruzione del “Muro dell’apartheid” e continuare l’espansione degli insediamenti sionisti in terra palestinese. «I progetti di sviluppo del mio governo riguardano non soltanto la Galilea, il Negev e Gerusalemme», ha puntualizzato, «ma altresì la valle del Giordano e il Golan», cioè le alture al confine con la Siria strappatele in occasione della Guerra dei Sei Giorni del 1967.
 
Israele. 1 novembre. Lo Stato sionista caldeggia un intervento diretto dell’Unione Europea nel controllo del valico di Rafah tra la striscia di Gaza e l’Egitto. Lo ha detto il primo ministro israeliano Ariel Sharon al vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano Gianfranco Fini, in visita a Gerusalemme. Dopo lo sgombero delle colonie israeliane dalla striscia di Gaza, gli accordi con l’Autorità Nazionale Palestinese prevedono che il valico di Rafah sia controllato dall’ANP stessa e dalle autorità egiziane. Lo Stato sionista, però, data la crucialità del passaggio, da cui sarebbero transitate armi per i gruppi della Resistenza palestinesi, vorrebbe il coinvolgimento di un terzo soggetto reputato più “affidabile”. «Israele è favorevole ad un impegno diretto dell’Unione europea», ha detto il capo della Farnesina dopo l’incontro con Sharon. «Con Javier Solana (alto rappresentante UE per la politica estera e la sicurezza, ndr) si devono valutare le possibilità concrete di questo eventuale coinvolgimento. Sharon», ha proseguito Fini, «ha affidato a Shimon Peres (vice primo ministro, ndr) l’incarico di verificare questa possibilità. Il compito è possibile, restano da definire le modalità: si tratterà di un ruolo soltanto notarile o di un ruolo attivo che comporti anche rimuovere eventuali cause di inadempienza degli accordi di Sharm el-Sheik? L’UE deve interrogarsi su queste possibilità. Tra osservatori e forze con compiti di polizia c’è una bella differenza».

Cecenia. 1 novembre. Uccisi due soldati russi in un’«operazione speciale» per dare la caccia ai ribelli indipendentisti. L’annuncio arriva da Grigory Fomenko, comandante russo in Cecenia. I due uomini, in procinto di compiere arresti, sono stati uccisi nel villaggio di Sharipovo da due abitanti, che hanno aperto il fuoco sui soldati prima di essere abbattuti loro stessi.

Afghanistan. 1 novembre. Due marines sono stati incriminati per maltrattamenti nei confronti di altrettanti prigionieri in un lager statunitense nella provincia meridionale afghana di Uzurgan. Lo ha reso noto l’esercito statunitense in Afghanistan. L’incriminazione parla di maltrattamenti, aggressione e negligenza dei propri doveri: «I due soldati sono accusati di aver spogliato i prigionieri che erano sotto la loro custodia. I soldati li avrebbero poi percossi al petto, al ventre e sulle spalle», recita un comunicato statunitense, che precisa come ai due prigionieri non siano state somministrate cure mediche.

Russia / Uzbekistan. 1 novembre. Il presidente uzbeco Islam Karimov intende aderire all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) nell’immediato futuro. La CSTO, soprannominata la “NATO russa”, è stata varata lo scorso 28 aprile 2003 da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan: secondo alcuni analisti, costituisce la risposta di Mosca alla perdita di terreno geopolitico dopo l’espansione ad Est della NATO e soprattutto l’insediamento di basi militari USA nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale (considerate da Mosca come propria area di influenza), non smantellate da Washington dopo l’aggressione in Afghanistan. «Se Tashkent effettivamente aderisce al CSTO –il che è probabile– l’equilibrio di forze in Asia centrale si sposterà a favore della Russia a scapito degli Stati Uniti ma anche della Cina», commenta l’agenzia di analisi geopolitiche Stratfor, secondo cui Karimov prova così a controbbattere agli intenti USA di destituirlo attraverso qualche “rivoluzione colorata” e a trovare un sostegno nella repressione dei movimenti islamici.
 
Russia / Uzbekistan. 1 novembre. L’adesione al CSTO costituirebbe un ulteriore passo di avvicinamento dell’Uzbekistan alla Russia, dopo le intese economiche, politiche e militari avviate in precedenza. Aderire al CSTO sarebbe la naturale espansione dei legami militari Mosca-Tashkent rinnovati quest’anno, come provato dalle manovre congiunte dei due paesi in settembre, commenta Stratfor, che evidenzia l’importanza dell’Uzbekistan, «geostrategicamente il paese asiatico centrale più importante. È l’unico paese della regione che confina con tutti gli altri (…) e può permettere ad un altro paese –in questo caso la Russia– di proiettare facilmente il proprio potere o spostare forze per aiutare i regimi alleati attraverso tutta la regione». Secondo Stratfor la manovra russa mette in ulteriore difficoltà gli Stati Uniti, a cui Karimov ha intimato di sgomberare la base aerea di Karshi-Khanabad, e costituisce un’importante leva di contrattazione geostrategica tra Mosca e Pechino. L’Uzbekistan è anche membro dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO), cui aderisce la Russia. Mentre lo SCO è un’alleanza più “politica” sulla sicurezza, il CSTO è un’alleanza militare, «sotto cui le difese missilistiche ed aeree russe ed uzbeche saranno integrate mentre i due paesi coordinano e sincronizzano l’addestramento e lo sviluppo delle infrastrutturer militari. La Cina non ha questo genere di cooperazione militare con Uzbekistan».

USA. 1 novembre. Il Pentagono ha un «sistema occulto di prigioni», non poche dislocate nell’Europa dell’est, con la connivenza dei governi di questi paesi. Lo scrive The Washington Post nella sua edizione di ieri, citando attuali ed ex agenti dei servizi segreti e funzionari statunitensi e stranieri a conoscenza della vicenda. Della struttura, messa su dalla CIA, un servizio segreto statunitense, il quotidiano è venuto a conoscenza grazie a funzionari USA e di altri paesi. Di questi black sites («luoghi neri», come li chiamano alla CIA) non esiste nessuna forma di controllo. Non si sa come vengano trattate queste persone, come stiano, dove siano, chi siano. Né si sa su che base sia stato deciso di buttarle in carcere sine die. Non sono loro riconosciuti diritti legali e a nessuno, a parte la CIA, è consentito vederli o parlarci, hanno dichiarato le fonti. Negli Stati Uniti solo il presidente, il dipartimento della Giustizia, la CIA, e due senatori –il presidente della Commissione Intelligence e il suo vice– sanno di più. La giornalista del Washington Post, Dana Priest, ha avvertito il nervosismo della CIA, dove le hanno fatto notare che i sospetti detenuti in questo universo nero oramai non sono più solo pericolosi terroristi, ma «persone il cui valore di intelligence e i cui legami con il terrorismo sono meno accertati». Un funzionario della CIA si è sfogato: «È un peso terribile». La CIA si avvale di questi centri di detenzione all’estero perché negli Stati Uniti è illegale tenere prigionieri in tali condizioni di isolamento. Il Washington Post afferma di non aver pubblicato i nomi dei paesi dell’Est europeo coinvolti nel programma “sotto copertura” su richiesta di alti funzionari statunitensi, secondo cui fornire queste informazioni potrebbe danneggiare gli «sforzi dell’antiterrorismo» o trasformare i paesi in bersagli per la rappresaglia.

USA. 1 novembre. Più di 470 fisici (tra cui sette premi Nobel) hanno firmato una petizione per opporsi all’intento USA di utilizzare armi nucleari in atti di aggressione e alla conseguente cancellazione della netta demarcazione tra armi nucleari, convenzionali, chimiche e biologiche. Il documento è stato promosso da due professori di fisica dell’università di San Diego (California), Kim Griest e Jorge Hirsch, che hanno dichiarato di sentirsi in dovere di denunciare il cambio di politica nucleare USA perché la loro professione, 60 anni fa, ha portato nel mondo le armi nucleari. La petizione sarà spedita ai membri del Congresso, a società scientifiche professionali e ai massmedia. Hirsch, citando il documento del Pentagono Doctrine for Joint Nuclear Operations, ha ricordato che «mentre fino ad ora la politica degli USA è stata di utilizzare le armi nucleari per rispondere ad un attacco nucleare, la nuova dottrina nucleare consentirà invece di lanciare armi nucleari anche contro Stati che non ne hanno, per nuove e  diverse ragioni: ad esempio per mettere fine ad una guerra rapidamente e favorevolmente secondo gli interessi USA e per assicurare il successo di azioni statunitensi e multinazionali». «L’umanità è stata più di mezzo secolo senza usare armi nucleari, in gran parte grazie al successo del Trattato di non-proliferazione nucleare», ha affermato Griest, secondo cui «l’uso di armi nucleari da parte degli USA contro Stati non nucleari vanificherà il Trattato di non proliferazione nucleare, incentivando fortemente altri paesi a sviluppare ed usare le armi nucleari, rendendo così più facile la guerra nucleare». I due fisici hanno iniziato la loro petizione lo scorso mese, confidando che questa «ingeneri discussione, dibattito, e si spera, il rifiuto della nuova politica».

USA. 1 novembre.  La petizione è stata firmata, tra gli altri, da sette premi Nobel della fisica (Jerome Friedman, del MIT; Philip Anderson, della Princeton University; Anthony Leggett, dell’Università dell’Illinois; Douglas Osheroff, della Stanford University; Daniel Tsui, della Princeton University; Steven Weinberg, dell’Università del Texas, e Frank Wilczek del MIT), da due ex presidenti dell’American Physical Society e dal presidente dell’Ordine professionale dei fisici USA, George Trilling. La petizione è sottoscritta anche da altri illustri fisici, tra cui il vincitore del premio Fields, Edward Witten, dell’Institute for Advanced Study; Michael Fisher, dell’Università del Maryland, insignito del premio Wolf; Daniel Kleppner, del MIT, e Leo Kadanoff dell’Università di Chicago, insignito della National Medal of Science dell’American Physical Society. «Nella petizione noi indichiamo che le armi nucleari sono su una scala completamente diversa dalle altre armi di distruzione di massa e convenzionali, e che il significato principale del Trattato di non-proliferazione nucleare è che, in cambio della rinuncia di altri paesi allo sviluppo di armi nucleari, quelli dotati di armi nucleari si impegnano ad intraprendere il disarmo nucleare». Hirsch denuncia invece che «questa nuova politica USA incrementa fortemente il rischio di proliferazione nucleare e alla fine il rischio che i conflitti regionali possano esplodere in una guerra totale nucleare, capace di distruggere la nostra civiltà». I fisici sperano di ottenere altre adesioni prima della riunione del quadro esecutivo della Società Americana di Fisica, prevista per il 18 Novembre, e di quella dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, prevista il 24 Novembre. Griest ed Hirsch, che hanno messo su internet la loro petizione  (physics.ucsd.edu/petition), invitano i loro colleghi a firmare e mandare rapidamente una valanga di adesioni.

Venezuela. 1 novembre. Mercenari USA in Venezuela per tentare l’ennesimo colpo di Stato contro Chavez. Lo ha rivelato lo scorso mese il sito www.vheadline.com, registrato negli USA. Gli analisti del sito sono entrati in possesso di un rapporto dei servizi segreti, che svela l’assoldamento, da parte del Pentagono, di vari «killer a pagamento, i PMC (Private Military Contractors), conosciuti anche per aver condotto numerose incursioni lungo il confine tra Colombia e Venezuela». I suddetti contractors, secondo il rapporto, «hanno già stretto alleanze con i paramilitari colombiani di destra (AUC) ed i loro consociati narco-trafficanti per contrabbandare armi in Venezuela». Il reclutamento di paramilitari colombiani e killer privati rientra in «un “piano di interazione” straniero militare congiunto sponsorizzato dal Dipartimento della Difesa statunitense per coordinare lo “sviluppo della forza” e delle tecniche invasive in uno “scenario di simulazione” agli ordini del Comando del Personale Congiunto statunitense». Il rapporto dei servizi segreti afferma inoltre che alcuni componenti della cattolica Opus Dei (già in azione nel colpo di Stato dell’aprile 2002 contro il presidente venezuelano Hugo Chavez) «tuttora portano avanti un ampia azione di spionaggio nonché un’azione politica black-bag con il supporto e l’approvazione logistica dei più alti livelli del Pentagono e dell’FBI».

Bolivia. 1 novembre. La Corte Nazionale Elettorale ha sospeso a tempo indeterminato le elezioni generali adducendo motivi tecnici ed operativi. Evo Morales, candidato del MaS (Movimento al Socialismo) ha dichiarato che la «Corte Nazionale Elettorale, espressione della mafia politica e corrotta del Paese, vuole soltanto evitare le elezioni». Tutti i sondaggi, compreso uno effettuato dall’ambasciata statunitense, danno come sicuro vincitore delle elezioni presidenziali Evo Morales, appoggiato, con riserva, da quasi tutti i movimenti della Bolivia. Il settimanale Vita giudica il programma elettorale di Morales «un po’ addolcito rispetto a quello più radicale dei movimenti», ed evidenzia come al primo posto figuri la nazionalizzazione «“progressiva” del gas e delle risorse energetiche e la convocazione di un’assemblea costituente che ricostruisca il Paese sulle basi di una democrazia partecipativa e includente». Di fronte alla sicura vittoria di Morales, le oligarchie boliviane rispondono prendendo tempo. I partiti della destra neoliberista –dal MNR dell’ex Presidente fuggitivo Gonzalo Sanchez del Lozada a PODEMOS, partito di Jorge Quiroga Ramirez candidato delle oligarchie alla Presidenza– sono ricorsi ad una decisione tecnica della Corte Nazionale Elettorale, di cui hanno il controllo politico, per rinviare le elezioni. Jorge Quiroga ha dichiarato: «non si deve permettere che un indio vinca le elezioni». Il pretesto, su cui si è basata la decisione della Corte, è il mancato accordo in Parlamento per la distribuzione dei seggi sul territorio boliviano: accordo fallito per l’intransigenza delle forze dell’oligarchia boliviana, che pretendevano un maggior numero di seggi per i loro bastioni elettorali della provincia di Santa Cruz a scapito delle province della montagna. Un’intransigenza che probabilmente celava l’obiettivo del rinvio tecnico delle elezioni. Le forze sociali boliviane, che considerano la decisione della Corte «un attentato alla democrazia, all’unità nazionale e all’integrità territoriale» non mancheranno di farsi sentire. Lo scorso 29 di ottobre è stata convocata a Chimoré una mobilitazione per decidere azioni di lotta in difesa della democrazia e della libertà del loro Paese. Le oligarchie boliviane, d’altro canto, minacciano la secessione della provincia orientale di Santa Cruz, la più ricca del paese, sede dei contesissimi giacimenti di gas. Sulla scorta dell’esperienza del Venezuela di Chàvez, i movimenti indios vorrebbero un reinvestimento dei proventi del gas a favore di progetti di sviluppo economico e sociale della popolazione del paese.

Vietnam / Cina. 1 novembre. Cina e Vietnam, vecchi nemici durante la Guerra Fredda, hanno sottoscritto ieri accordi economici, tra i quali uno per esplorare congiuntamente congiuntamente petrolio e gas nel Golfo del Tonkino. Questo nel corso della visita ufficiale del presidente cinese, Hu Jintao, in Vietnam.
 
Catalogna. 2 novembre. Inizia a Madrid la discussione in parlamento sul nuovo Statuto che il Parlamento catalano ha approvato il 30 settembre con l’88% dei voti e che dovrebbe sostituire quello del 1979. Soprattutto tre i punti contestati: la definizione di nazione, il sistema di finanziamento e l’ordinamento giudiziario. Il nuovo testo definisce «nazione» la Catalogna, mentre l’articolo 2 della Costituzione spagnola recita che solo la Spagna è una «nazione», però con diverse «nazionalità». La diatriba linguistica nasconde il timore, dei popolari ma anche di parte dei socialisti, che dietro alla definizione di «nazione» ci sia non tanto il riconoscimento di un concetto culturale quanto il primo passo per una richiesta di sovranità. Il sistema di finanziamento chiama invece in causa il concetto di solidarietà nazionale. Da Barcellona fanno notare che la Catalogna fornisce tra il 7 e il 9% di gettito rispetto alle altre regioni. Il nuovo Statuto prevede che la raccolta delle imposte venga effettuata a livello regionale e che poi Barcellona ne passi una parte all’erario nazionale. Questo sistema è ammesso in Spagna ma solo per i Paesi Baschi e per la Navarra, una situazione riconosciuta però come «eccezionale» e «non generalizzabile a livello costituzionale». Lo Statuto, dice Zapatero, disegna un modello fiscale confederale mentre la Costituzione ne prevede uno federale: anche qui il governo ha già promesso emendamenti. Per quanto riguarda, infine, l’amministrazione della giustizia, si tratta dell’apparato statale meno decentralizzato in Spagna. Lo Statuto accelera la spinta centrifuga creando il Consejo de la Justicia de Cataluña e aumentando le competenze del Tribunale Superiore della Catalogna. Con questo potenziamento tutti i gradi del giudizio per cause al 100% catalane andranno risolti nella regione. Se passasse alle Cortes, il nuovo Statuto verrà votato dai catalani, presumibilmente nel giugno o luglio 2006.

Catalogna. 2 novembre. Sulla riforma dello Statuto catalano, il testo che regola le relazioni tra Barcellona ed il governo centrale di Madrid, a favore si è schierato il governo regionale, composto dal Partito socialista di Catalogna (PSC, versione locale del Psoe ma dotato storicamente di una notevole autonomia), ERC (i nazionalisti di sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya) e IC (Iniciativa per Catalunya, ramo regionale di Izquierda Unida). Con loro anche Convergencia I Uniò, il partito del nazionalismo di centro-destra, oggi all’opposizione dopo oltre vent’anni di governo regionale. Contrario solo il Partito Popolare, alfiere dell’Unità e indivisibilità del Regno.

Palestina. 2 novembre. Israele prosegue nell’assassinio di capi e quadri del movimento di Resistenza palestinese e le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, gruppo armato palestinese legato ad Al Fatah, annunciano di non sentirsi più impegnate alla tregua nei loro attacchi anti-israeliani. L’annuncio in seguito all’uccisione, ieri, di uno dei loro capi militari in un attacco aereo israeliano nella Striscia di Gaza. «Che la tregua vada al diavolo», scrive il gruppo, in un comunicato diffuso ieri sera a Gaza. Le Brigate dei Martiri di Al Aqsa hanno aggiunto di aver deciso la «mobilitazione» delle proprie strutture e di aver invitato l’Autorità Nazionale Palestinese e le nazioni arabe e islamiche a intervenire per porre fine ai «crimini sionisti».

Azerbaigian. 2 novembre. Si acuisce lo scontro politico tra Ilham Aliev, attuale presidente/patròn azero, e l’opposizione sostenuta dagli Stati Uniti e dalla servile Unione Europea. Questo alla vigilia delle elezioni parlamentari del 6 novembre. Un’edizione di Stratfor (agenzia statunitense di analisi geopolitica) del mese scorso dava un sunto della situazione a Baku, evidenziando come Ilham Aliev debba guardarsi le spalle persino da membri della sua stessa famiglia. Il 17 ottobre, infatti, veniva arrestato il ministro delle finanze Yusifov, accusato di aver versato 150mila dollari ai partiti di opposizione per finanziare proteste di massa in strada contro il governo di Aliyev. Il 19 ottobre, il Ministro dello sviluppo economico Farhad Aliyev (fratello non di sangue del presidente) è stato anch’egli arrestato con l’accusa di sottrarre fondi per organizzare tumulti e progettare un colpo di Stato. Rimossi dal governo i ministri della sanità, della pubblica istruzione e del lavoro, ed il capo per gli affari presidenziali. Destituito ed arrestato anche Rafik Aliyev, altro parente del presidente, alla guida di Azpetrol. «La purga è un attacco preventivo agli sforzi del blocco di opposizione Azadliq, sostenuto dagli USA, di rovesciare (…) il governo del presidente Ilham Aliyev», commenta Stratfor.
 
Azerbaigian. 2 novembre. L’accelerazione del conflitto tra Aliyev e l’opposizione è stata innescata dall’annunciato ritorno a Baku di Rasul Guliyev, capo del Partito Democratico, alla testa del blocco d’opposizione Azadliq (Libertà). «Guliyev è sostenuto dal governo degli Stati Uniti, che lo ha scelto per condurre la campagna volta a defenestrare Aliyev», scrive Stratfor. Guliyev era stato arrestato il 17 ottobre in Ucraina, per essere liberato –tre giorni dopo– su pressione di USA e Gran Bretagna su Kiev. Una scelta non casuale quella di Guliyev. Considerato l’unica figura dell’opposizione capace di aggregare attorno a sé un movimento forte, è membro del clan Nakhchevan, dominante in Azerbaigian, controllato per anni dalla famiglia Aliyev ed ora spaccato tra l’attuale presidente e Guliyev. Da qui le rimozioni e gli arresti all’interno della compagine di governo. Scrive Stratfor: «Fonti azere di governo hanno comunicato che Farhad Aliyev era il capo della fazione dissidente del clan Nakhchevan che aveva cominciato a supportare l’opposizione, mentre Rafik Aliyev (con i proventi del petrolio stornati illegalmente) era la primaria risorsa interna di finanziamento dell’opposizione, supportata anche dai contributi delle organizzazioni non governative occidentali».
 
Azerbaigian. 2 novembre. Dietro le quinte però, come rileva Stratfor, le tensioni in Azerbaigian trovano origine nelle strategie geopolitiche USA in Asia Centrale e Medioriente, tese da un lato a ridimensionare, nell’area, l’influenza russa (e di riflesso anche quella cinese) e dall’altro a disporre di una base sicura soprattutto in vista della preventivata aggressione all’Iran. «Operatori americani e britannici sono attualmente molto attivi nel sostegno al clan di Nakhchevan di Guliyev, provando a reclutare i ministri del Governo dalla loro parte (…) Fattore molto importante, questi sforzi sono diretti principalmente verso i capi delle forze di sicurezza del paese nei ministeri della difesa e dell’interno, così come nei servizi segreti. Una combinazione di carota e bastone sono usati dagli operativi americani e britannici e dai loro agenti locali in contatto con questi alti funzionari. Regalie, garanzie di mantenimento del potere nel nuovo governo e pensionamento di lusso in sfarzose ville occidentali sono offerti come stimolo. Simultaneamente, incombono minacce di persecuzione giudiziaria in patria e all’estero per gli abusi commessi al potere. Le rimozioni improvvise di funzionari, che probabilmente condurranno ad altri arresti (…) stanno a significare che questa combinazione di carota e bastone cominciava a produrre effetti (…) Secondo fonti governative russe, la situazione è estremamente fluida».
 
Azerbaigian. 2 novembre. La Russia non resta a guardare nella contesa azera e si schiera a fianco di Aliyev. Come riportato da Visetti su la Repubblica dello scorso 28 ottobre (vedi precedente edizione di “Notizie dal mondo”), sono stati i servizi segreti russi ad informare Aliyev delle manovre di potere alle sue spalle. Mosca prova a supportare Aliyev con azioni di persuasione sugli altri clan principali del paese, il Yerazi e il Baku Apsheron. Molto probabilmente Mosca, memore delle lezioni della “rivoluzione arancione” in Ucraina e degli errori compiuti dall’ex presidente Leonid Kuchma, avrà poi suggerito ad Aliyev di agire fin da subito contro i membri “traditori” del suo governo, per prevenire la formazione di un asse con l’opposizione che sicuramente lo travolgerebbe. Per Aliyev è molto improbabile un ritorno tra le grazie di Washington. Il presidente ha ben presente gli sforzi attuati da Kuchma (ultima la spedizione di truppe in Iraq) per tenere buoni gli Stati Uniti, permettendogli al contempo di migliorare le relazioni con Mosca. Inoltre la Russia dispone di molte armi di rappresaglia «di sicurezza ed economiche che può usare contro Baku, nel caso Aliyev (…) opti per una linea politica totalmente filo statunitense che permetta a quest’ultimi di stabilire le basi militari nel paese ed espandere considerevolmente la relativa influenza nel Caucaso del sud e nel mar Caspio». Tra queste armi, la più rilevante è l’influenza che la Russia può giocare nel conflitto per il Nagorno-Karabakh (enclave armena in territorio azero): Mosca, dopo aver dall’inizio sostenuto Erevan nel conflitto, ha ultimamente preso in considerazione le posizioni di Baku. Porsi contro la Russia rischierebbe perciò di riaccendere il conflitto: uno scenario deleterio per Baku, soprattutto in un momento in cui ci si avvia ad un accordo tra le due parti. Ma la Russia non intende solamente minacciare di usare il bastone: «Fonti governative russe comunicano che Aliyev è in stretto contatto con il presidente russo Vladimir Putin ed il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev per studiare la possibilità di unire l’Organizzazione di cooperazione di Shangai –SCO– e l’Organizzazione di Trattato di sicurezza collettiva –CSTO– (…). Lo SCO ed il CSTO (la NATO russa, ndr) potrebbero fornire ad Aliyev un utile ombrello regionale di sicurezza, ma il clan di Nakhchevan non ha gradito mai di vivere sotto l’ombra di Mosca», rileva Stratfor, dal cui scritto emerge come la competizione a base di carota e bastone tra Washington e Mosca sarà decisiva nel determinare chi si impadronirà del potere a Baku.

Russia / USA. 2 novembre. Un articolo sul progetto filo USA ed anti russo GUUAM, apparso sul sito equilibri.net di metà giugno, fa il punto sulla competizione USA-Russia nel Caucaso ed in Asia Centrale dopo le “rivoluzioni” in Georgia e Ucraina che hanno portato al potere i filo USA Saakashvili e Jushenko. Rivoluzioni che hanno «dato nuova linfa al progetto del GUUAM, sostenuto da Washington» e dalle colonie USA dell’Unione Europea. «Nel 1997 Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldavia decidevano d’associarsi in un nuovo soggetto geopolitico (che dalle iniziali dei paesi membri ha preso il nome di GUUAM) (…) i cui principali obiettivi sono di controbilanciare l’influenza regionale dell’asse Mosca-Minsk (il cui presidente Lukashenko, nonostante varie divergenze, è un fidato amico di Mosca, ndr) ed estromettere la Russia dal controllo del petrolio caspico». Sul secondo aspetto, l’articolo di equilibri.net rileva come l’influenza russa nell’area «poggi ancora ampiamente sulle infrastrutture retaggio dell’URSS, e tra queste vi sono anche gli oleodotti e i gasdotti che dal Mar Caspio e dall’Asia Centrale conducono all’Europa tramite il territorio dell’odierna Federazione Russa. Questo stato di cose ha permesso al Cremlino di esercitare una notevole influenza, almeno in passato, su paesi produttori di petrolio o gas naturale come Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan, facendo leva sul proprio ruolo di monopolista delle infrastrutture atte all’esportazione delle risorse da essi prodotte. D’altro canto, tale influenza si esercitava e si esercita in modo ancora più pressante suoi paesi non produttori, come Ucraina, Moldavia, Bielorussia e Georgia, i quali dipendono ampiamente da Mosca per i propri approvvigionamenti energetici. In quest’ottica, era ed è di primaria importanza, per quanti volessero indebolire l’influenza russa sull’estero vicino, riuscire a differenziare i canali d’esportazione delle risorse caspiche e centrasiatiche, e diminuire la dipendenza energetica di molti paesi postsovietici dalla Russia».

Russia / USA. 2 novembre. Nei suoi primi anni di vita il GUUAM, nonostante la cedevolezza della Russia eltsiniana, non è però riuscito a conseguire alcun obiettivo. Troppo deboli gli Stati membri per sottrarsi all’influenza russa senza il pieno supporto di Washington, in quegli anni impegnato a gestire l’ingresso dei paesi dell’Est nella NATO. Si iniziava però a preparare lo sbarco in Asia Centrale. Una data cardine è il 1999, anno in cui «l’Alleanza Atlantica pubblica un documento nel quale aggiorna il proprio orientamento strategico, arrogandosi il diritto d’intervenire anche al di fuori delle tradizionali (e legittime) aree di azione: per dirla volgarmente, la NATO ufficializzò il proprio passaggio da alleanza a scopo difensivo, ad alleanza a scopo offensivo». Dopo la sconfitta di Milosevic alle elezioni in Jugoslavia del 2000, contrassegnate da sostegni e finanziamenti ai partiti di opposizione ed ai media tramite organizzazioni USA come il National Endowment for Democracy e la Open Society Institute di George Soros (prima applicazione di un modello di “esportazione della democrazia” replicato con successo in Georgia ed Ucraina ma fallito in Bielorussia), «seconda data cardine è quella del 28 maggio 2002, con l’istituzione del forum permanente NATO-Russia, ma soprattutto l’accettazione da parte di Mosca dell’occupazione occidentale dell’Europa Orientale come fatto compiuto, in cambio d’una poco sincera promessa di non toccare Ucraina e Bielorussia». Dopo l’11 settembre 2001, ecco gli Stati Uniti intervenire direttamente nell’Asia centrale, «ai confini della Russia (...) Le truppe statunitensi e alleate invadono l’Afghanistan, e con tale pretesto ottengono di mettere piede anche in Uzbekistan e Kirghizistan (temporaneamente anche in tutti gli altri paesi centroasiatici): per la prima volta i marines entrano in quella che fu l’Unione Sovietica. Sempre col pretesto della “guerra al terrorismo”, le truppe speciali statunitensi sono invitate da Tblisi (Georgia) nella Valle di Pankisi, ufficialmente per stanare i membri di Al-Qaida legati ai separatisti ceceni».

Russia / USA. 2 novembre. Lo spazio geopolitico “postsovietico” ha assistito così dal 2001 all’incrementarsi della presenza militare di Washington nell’area e a cambi di regime politico ancor più schiacciati sulle strategie USA. Sono le cosiddette “rivoluzioni colorate”, «tutte  ampiamente finanziate per anni da organismi governativi e non, degli USA, del Regno Unito e persino dell’UE. Le strategie di colpo di Stato adottate prima nella “rivoluzione rosa” georgiana e poi in quella “arancione” ucraina, sono state mutuate dai predecessori jugoslavi i quali, per loro stessa ammissione, hanno ricevuto tale know-how da ex agenti della CIA ed ex ufficiali della US Army, per il tramite della Freedom House di James Woolsey (ex direttore della CIA, ndr). Così, alla fine del 2003, il moderato Eduard Shevarnadze è spodestato dalla presidenza e pochi mesi dopo rimpiazzato da Mikhail Saakashvili, decisamente filoccidentale e russofobo, il cui primo punto programmatico è la chiusura delle basi russe in Georgia e la riconquista delle regioni secessioniste (l’Agiaria è stata rioccupata nel maggio 2004, mentre Ossezia Meridionale e Abkhazia sono tuttora indipendenti). In Ucraina la “rivoluzione arancione” che ha portato al potere Viktor Jushenko è invece storia di pochi mesi fa (...). Vale invece la pena notare come il timore di tali “rivoluzioni colorate” abbia reso più malleabili molti dei dirigenti postsovietici, in primo luogo i Comunisti al potere in Moldavia con Voronin i quali, partiti da posizioni limpidamente filorusse, sono ora passati disinvoltamente nel campo filoccidentale». “Rivoluzioni” che non sembrano avere fine. Azerbaigian a parte, un dichiarato obiettivo è la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko, «l’ultimo dittatore d’Europa» secondo la segretaria di Stato USA Condoleezza Rice. Ma nel mirino c’è anche Vladimir Putin per le elezioni presidenziali del 2008.

Azerbaigian. 2 novembre. Dopo le “rivoluzioni colorate” in Georgia ed Ucraina e l’attivismo militare di Washington nell’area, quale la situazione nel GUAAM? Se Ucraina, Georgia ed anche Moldavia sembrano ben allineati a Washington, non altrettanto si può dire di Azerbaigian ed Uzbekistan, «subito mostratisi restii di fronte alla prospettiva di rianimare il GUUAM». L’articolo di equilibri.net prova a spiegare il perchè. L’Uzbekistan, innanzitutto, si è ritirato: il GUUAM è diventato GUAM. Sull’Azerbaigian, si afferma che «il paese non ha più la necessità di liberarsi d’alcun vincolo energetico con la Russia: esso produce quanto basta per sé, e può esportare il resto anche senza passare per il territorio della Federazione, grazie all’oleodotto Baku-Supsa aperto nel 1999 e al Baku-Tblisi-Ceyhan (BTC) inaugurato il 25 maggio di quest’anno». Da ciò ne conseguirebbe l’inutilità di ricercare nuovi scontri con Mosca, tenuto presente soprattutto due dati: Primo: l’imminente guerra all’Iran. «Una posizione prona alla volontà nordamericana pone seriamente in pericolo l’integrità del paese in caso di attacco contro la Repubblica Islamica che partisse proprio dall’ex repubblica sovietica». Secondo: la questione del Nagorno-Karabakh, enclave armena all’interno dello Stato azero, oggi in mano ad Erevan, grazie all’appoggio di Mosca. «Baku spera in una rapida soluzione della questione vantaggiosa per tutti: per l’Azerbaigian che recupererebbe parte dei territori perduti in guerra, per l’Armenia che vedrebbe cessare il blocco economico turco-azero che la soffoca, e per la Russia che potrebbe normalizzare i rapporti con Baku (anche se rischierebbe d’essere scaricata da Erevan come amica non più necessaria)».

GUAM / Azerbaigian. 2 novembre. Queste considerazioni ci portano al cuore del problema: per la sostenibilità del progetto geopolitico GUAM, l’apporto di Baku è decisivo. «La libertà d’azione del GUAM è vincolato alla sua autonomia energetica, e l’Azerbaigian è l’unica a poter garantire in tal senso (...) Resta da vedere se l’Azerbaigian saprà garantire il soddisfacimento dei bisogni energetici di Moldavia, Georgia e Ucraina, e soprattutto se potrà applicare tariffe vantaggiose come faceva la Russia: se il primo punto è possibile, il secondo appare altamente improbabile».

GUAM / Georgia. 2 novembre. La questione tocca un nodo decisivo: senza disporre di altre fonti di finanziamento ed approvvigionamento energetico, Ucraina, Georgia e Moldavia non riusciranno a sottrarsi alla dipendenza di Mosca e ad essere pienamente affidabili per le strategie statunitensi. L’articolo evidenzia infatti che «la Georgia sta già in parte pagando la sua politica violentemente ostile a Mosca, dato che il conseguente peggioramento delle condizioni di vita ha generato una certa opposizione a Saakashvili, cui il Presidente georgiano ha risposto rilanciando i propri cavalli di battaglia, e in particolare la chiusura delle basi russe sul suo territorio, giudicate illegali e minacciate di blocco. Ma mentre la Russia si prepara a smobilitare (inizierà entro quest’anno) tali basi, ormai inutili, si prepara a rientrare in Georgia per la porta di servizio: la Gazprom, colosso dell’energia russa, si è fatto avanti come acquirente del tratto georgiano del gasdotto Baku-Tblisi-Erzurum (il gasdotto che affianca l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, entrambi con sbocco in Turchia e voluti fortemente dagli USA, ndr). Il governo georgiano vorrebbe mantenerlo di proprietà statale, spalleggiato dall’ambasciatore statunitense Richard Miles, il quale teme un monopolio russo, ma senza concreti aiuti finanziari da parte dell’Occidente sarà costretto a cedere, poiché la mancanza di fondi non gli permette neppure di curarne la manutenzione». Ecco come la Russia, tra l’altro, si è mossa concretamente per vanificare il tentativo di Washington di stritolare economicamente Mosca escludendola dai circuiti di distribuzione delle risorse energetiche.

GUAM / Ucraina. 2 novembre. Anche per l’Ucraina del dopo “rivoluzione arancione” le cose non vanno come auspicato dagli Stati Uniti. «L’Ucraina, per ora, ha lanciato diverse minacce alla Russia, ma si trova nella situazione di mantenerne ben poche». Un esempio di tali minacce è la «promessa di non rinnovo alla Russia dell’affitto della base navale di Sebastopoli per la sua flotta del Mar Nero», ma tale affitto scade nel 2017 ed è ancora presto per dire se verrà mantenuta o meno. In ogni caso, la rimozione dall’incarico di primo ministro di Yulia Timoshenko, la cui nomina fu molto invisa a Mosca per i suoi toni antirussi, è probabilmente indice delle pressioni che la Russia può esercitare su uno Jushenko pur «molto ligio ai dettami provenienti da OMC e Banca Mondiale, ai consigli del patrono nordamericano e alla stabilità dei mercati». La Timoshenko, infatti, ha tra le altre cose sicuramente pagato caro «il suo braccio di ferro con le compagnie energetiche russe che riforniscono l’Ucraina (esse controllano il 90% del settore petrolchimico nazionale)». La Timoshenko aveva infatti regolamentato «un dispositivo di calmieramento dei prezzi, per cui le compagnie energetiche non possono alzare il prezzo del petrolio di più del 13% rispetto a quello fissato dalle autorità», minacciando in caso di proteste l’apertura di un’indagine anti-trust che riveda le privatizzazioni a favore delle compagnie russe. Queste hanno risposto «tagliando la fornitura di petrolio e fissando un limite di 10 litri di carburante per veicolo nelle stazioni di rifornimento TNK e Lukoil. Quest’infelice risultato ha suscitato l’ira di Jushenko». Insomma, a Mosca non mancano le armi di rappresaglia economica esercitabili su Kiev.

Euskal Herria. 3 novembre. Il Tribunale Supremo spagnolo ha deciso di condannare Arnaldo Otegi, portavoce del disciolto partito basco Batasuna, ad un anno di prigione. Lo preannunciano diversi quotidiani citando fonti giuridiche. La sentenza, che dovrebbe essere resa pubblica oggi, annulla una precedente decisione del Tribunale supremo basco che aveva assolto Otegi per aver detto nel 2003 che il re, in quanto capo supremo delle forze armate, è «il capo dei torturatori» che vogliono negare l’indipendenza a Euskadi.

Israele. 3 novembre. L’Iran è una minaccia nucleare per il mondo? Manlio Dinucci de il Manifesto non è d’accordo e punta l’indice su Israele. Nessuno rileva il dato inquietante che mentre «l’Iran, che ha aderito al Trattato di non-proliferazione (Tnp), non possiede armi nucleari ed è sotto il controllo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea)», Israele, al contrario, «non ha aderito al Tnp, possiede invece armi nucleari e rifiuta qualsiasi controllo dell’Aiea». L’Iran è ancora sprovvisto di sistemi di armi atomiche, e lo stesso direttore dell’Aiea, Mohamed El Baradei, ha ricordato che «Israele ha armi nucleari» (Haaretz, 12 dicembre 2003). «Con l’aiuto soprattutto di Stati uniti e Francia, Israele è riuscito a costruire, senza mai ammetterne l’esistenza, un arsenale valutato in circa 400 armi nucleari con una potenza complessiva equivalente a quasi 4mila bombe di Hiroshima. Si tratta di armi sia termonucleari, sia tattiche di minore potenza tra cui bombe al neutrone», denuncia Dinucci.
 
Israele. 3 novembre. «Come vettori nucleari le forze israeliane usano una parte degli oltre 300 caccia F-16 e F-15 potenziati, forniti dagli USA, armati anche di missili israelo-statunitensi Popeye a testata nucleare. Un’altra versione, il Popeye Turbo, è installata su tre sottomarini Dolphin, forniti dalla Germania, cui dovrebbero aggiungersene altri due come ha anticipato l’ammiraglio israeliano David Ben-Bashat (Jerusalem Post, 12-12-2004). Oltre a questi vettori nucleari Israele possiede circa 50 missili balistici Jericho II, su rampe di lancio mobili, e i razzi Shavit utilizzabili anche come missili balistici a lunga gittata. Tutte queste armi nucleari sono pronte al lancio, ventiquattr’ore su ventiquattro, puntate contro l’Iran e gli altri paesi della regione». Questa la descrizione dell’arsenale nucleare israeliano rilevata da Dinucci, che si chiede come sia possibile continuare ad eludere il pericolo che tale armamentario rappresenta per la stabilità della regione. Del tutto ignorate, ad esempio, «le ripetute risoluzioni con cui l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha ribadito la sua condanna del rifiuto di Israele di rinunciare al possesso delle armi nucleari” e ha chiesto al Consiglio di sicurezza “di porre gli impianti nucleari israeliani sotto la giurisdizione dell’Aiea (Risoluzione 44/121, 15 dicembre 1989)».
 
Israele / Italia. 3 novembre. I piani di attacco USA ed israeliani all’Iran, che prevedono anche l’uso di armi nucleari, rischiano di innescare una catastrofe di immani proporzioni ed una spirale di violenza che secondo Dinucci l’Italia potrebbe scongiurare sostenendo la «Dichiarazione di Teheran del 21 ottobre 2003: essa prevede da un lato l’impegno iraniano a sviluppare un nucleare esclusivamente civile sotto controllo dell’Aiea, dall’altro l’impegno dell’Europa a cooperare per la costituzione di una zona libera da armi di distruzione di massa in Medio Oriente. Ma, per fare ciò, l’Europa dovrebbe prendere ufficialmente atto che Israele possiede armi nucleari e chiederne lo smantellamento». Centrodestra e centrosinistra nostrani sono invece lontani da tale semplice buon senso, avendo di recente «stipulato con Israele un memorandum d’intesa sulla cooperazione militare nel cui quadro alte tecnologie italiane potranno essere usate anche per potenziare le armi nucleari israeliane. L’accordo, approvato il 3 maggio 2005, è passato a schiacciante maggioranza grazie al fatto che, al Senato, Democratici di sinistra-L’Ulivo e Margherita-DL-L’Ulivo hanno votato a favore insieme al centrodestra». Superfluo a questo punto constatare l’ipocrisia di coloro che, dopo «aver fatto passare l’accordo militare si ritrovano nella fiaccolata (organizzata da Il Foglio, ndr) per riaffermare i “valori della civiltà, della convivenza e della pace”».

Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. Conclusa il 27 ottobre la riunione a Mosca dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO), alla quale ha partecipato anche il presidente russo Vladimir Putin. L’agenzia per le analisi geostrategiche Stratfor rileva come l’organizzazione –nata nel 1996 come Shanghai Five (Cina, Russia, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan) all’insegna, come mostra il nome stesso, della centralità della Cina (ma in un’ottica di coordinamento con la Russia), e divenuta l’attuale SCO nel 2001 con l’ingresso dell’Uzbekistan– stia estendendo le sue funzioni (dalla cooperazione nella “sicurezza”, che riguarda soprattuto la repressione dei movimenti islamici interni, a collaborazioni in ambito politico ed economico) ed espandendo l’area d’influenza geografica oltre l’Asia centrale, come dimostrano i nomi degli Stati osservatori in procinto di diventarne membri: oltre alla Mongolia, Iran, Pakistan ed India. Lo SCO aveva già attirato l’attenzione lo scorso luglio con la richiesta di smobilitazione delle basi militari USA in Asia Centrale (Karshi-Khanabad e Termez in Uzbekistan, Manas in Kirghizistan, Kolub in Tagikistan), affermando il rifiuto di «un ordine mondiale basato sul monopolio e dominio di un paese», delle interferenze di potenze esterne e dell’imposizione di un modello unico di «sviluppo sociale» (tutti riferimenti alle strategie globali USA).
 
Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. Stratfor non è però d’accordo con chi considera la SCO una sorta di “NATO dell’Est”. «L’organizzazione non è un equivalente della NATO, nel senso che non è un blocco militare», rileva l’agenzia di analisi geopolitiche, ma più si espande nelle direzioni sopra citate, «più autorità guadagnerà in Eurasia e negli affari globali. Se lo SCO continua a svilupparsi in termini di progetti economici collettivi ed iniziative di sicurezza, potrebbe diventare un nuovo centro di potere», prevede Stratfor: una prospettiva inevitabilmente in conflitto con le pretese egemoniche globali di Washington, «perché se questi Stati si uniscono insieme, potrebbero con successo sfidare (…) gli interessi degli USA nella regione», commenta Stratfor.
 
Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. «Per conseguire questo risultato occorrono però degli anni». La Cina non è ancora in grado di sfidare Washington per il dominio globale. Pechino e Mosca cercano di evitare il più possibile di contrapporsi a Washington, concentrandosi sul mantenimento dell’ordine sociale e sullo sviluppo economico proprio e degli altri Stati membri. Inoltre la Russia, ma anche l’India (ad esempio sulle conoscenze in materia di tecnologia nucleare), in alcuni ambiti ricercano la cooperazione degli USA. Ciò nonostante, le preoccupazioni di Washington riguardo lo SCO discendono da un fattore geopolitico chiave: «I relativi membri –attuali e potenziali– hanno molti problemi in comune, molti dei quali possono essere risolti se tali Stati collaborano insieme». Tra questi problemi, si segnala quello della costruzione di “corridoi” di trasporto (dalle vie di comunicazioni ad oleodotti e gasdotti), volti a beneficiare le economie “affamate d’energia” come Cina ed India ed integrare l’un l’altro le economie dei paesi in questione affinché «rimangano o diventino competitive in un’economia globale (…) e diventino geopoliticamente significative». In vista di questi obiettivi, «lo SCO ha operato per integrare la propria cooperazione nella sicurezza con più incisivi piani collettivi di sviluppo economico».

Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. Al summit di Mosca si è quindi trovato un accordo su un progetto di cooperazione economica e commercio multilaterale da ultimare entro il 2020. «Il programma include costruzioni di impianti idroelettrici, lavori di manutenzione ed ampliamento delle strade principali, progettazioni di reti di comunicazione a fibre ottiche, esplorazione di idrocarburi e costruzione di oleodotti e gasdotti: un totale di 127 progetti da attuare congiuntamente». A mettere mano al portafoglio, soprattutto la Cina, che ha offerto 900 milioni di dollari a bassi tassi d’interesse da rimborsare a lunghe scadenze. Ma anche Mosca non intende svolgere un ruolo di secondo piano nello SCO, ed ha proposto che gli investimenti nei progetti congiunti siano eseguiti da joint ventures (un istituto della “Common Law”, utilizzabile in campo produttivo, commerciale e di ricerca, che indica oggi forme assai eterogenee di collaborazione temporanea fra due o più imprese, volte alla realizzazione di un obiettivo comune). Se tali progetti andranno a buon fine e lo SCO si allargherà efficacemente ad altri membri, Cina e Russia daranno vita ad un nuovo centro di potere che creerà serie difficoltà alle ambizioni egemoniche globali di Washington.
 
Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. «La Sco è questo: sicurezza militare garantita dalla Russia più sicurezza economica garantita dalla Cina». Lo ha dichiarato a www.peacereporter.net Francesco Sisci, corrispondente dalla Cina per La Stampa, collaboratore di Limes, vicedirettore della rivista di geopolitica eurasiatica Heartland, ed autore del libro “Made in China”. In un intervista del 14 luglio 2005 sulla SCO, Sisci afferma che «al di là delle questioni bilaterali tra Russia e Cina, certamente impostate sullo ‘scambio’ tra capitali cinesi ed energia russa di cui hanno rispettivamente bisogno, la forza finanziaria cinese rappresenta uno dei due pilastri su cui si regge tutta l’architettura della SCO: un pilastro è la presenza militare russa nella regione e l’altro è appunto la ricchezza cinese, il suo enorme potenziale di investimento, indispensabile allo sviluppo delle economie dell’Asia Centrale e quindi alla stabilizzazione della regione». Sisci evidenzia che Pechino ha evitato di affermare la sua supremazia nella SCO a discapito di Mosca, che al contrario vede la Cina come una minaccia «soprattutto in Siberia, regione disabitata e ricca di petrolio che ultimamente sta vivendo una massiccia immigrazione di cinesi spinti a nord dalla pressione demografica che affligge il loro paese». Il collaboratore di Limes ritiene che l’ingresso dell’Iran nello SCO «non rappresenterà un fattore di svolta. L’interesse di Russia e Cina è stabilizzare un paese come l’Iran e non lasciarlo pericolosamente isolato nella sua contesa con gli Stati Uniti. Pechino e Mosca non vogliono certo farsi tirare in ballo in una contrapposizione che, al contrario, vogliono disinnescare». Sisci reputa che invece l’ingresso dell’India sarebbe un risultato dirompente, date le potenzialità economiche del paese e la possibile risoluzione della conflittualità col Pakistan, «dato che assieme all’India entrerebbe anche il Pakistan (che Cina e Russia non vogliono lasciare isolato e in balìa di influenze integraliste): queste due potenze nucleari nemiche si troverebbero per la prima volta membri di un’organizzazione comune e, con il patrocinio russo e cinese, potrebbe essere più facile farle dialogare seriamente».
 
Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. La SCO come nuovo Patto di Varsavia e struttura di contrapposizione a NATO ed USA? Per Francesco Sisci «assolutamente no. Oggi Russia e Cina non solo non hanno la forza per contrapporsi agli USA e all’occidente, ma soprattutto non hanno alcun interesse a farlo. Sanno benissimo che la presenza militare americana in Asia Centrale rappresenta un argine all’integralismo islamico e che un disimpegno militare americano provocherebbe l’esplosione della regione. A partire dall’Afghanistan. I Russi sanno bene quanto sia difficile mantenere il controllo di quel paese, e sono ben contenti che se la sbrighino gli USA». Per Sisci, Russia e Cina sono invece preoccupate per le “rivoluzioni” ‘colorate’ con cui gli USA provano ad installare in Caucaso ed Asia Centrale regimi ancor più subalterni ai loro progetti. «Mosca e Pechino sono forze conservatrici, nel senso che vogliono difendere lo status quo e i regimi amici esistenti, ed evitare che essi vengano sostituiti da altri regimi (non da democrazie, come si vuol far credere) funzionali agli interessi occidentali».
 
Organizzazione di Shanghai. 3 novembre. Riguardo la dichiarazione di Astana del luglio scorso, che ha recepito le indicazioni di Hu Jintao –che assomma su di sé le cariche di segretario generale del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese,  presidente della Commissione militare del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, presidente della Repubblica Popolare Cinese e  presidente della Commissione militare Centrale della  Repubblica Popolare Cinese– sulla “lotta ai tre demoni’ (terrorismo, separatismo ed estremismo), Sisci afferma che «l’aspetto della lotta al terrorismo nel quadro della SCO è assolutamente velleitario. Solo le forze armate di Mosca hanno la potenzialità per svolgere questo ruolo data la presenza di basi militari russe in tutti i paesi dell’Asia Centrale. E Pechino è ben contenta di lasciare a Mosca il ‘lavoro sporco’, il ruolo di gendarme regionale. Anche se nei fatti anche la Russia si dimostra incapace di fronteggiare situazioni di crisi, come dimostra la Cecenia, dove Mosca continua a essere impantanata in una guerra che dura ormai da dieci anni, senza un’apparente via d’uscita. La stessa Regional Antiterrorist Structure (Rats), che dovrebbe essere la forza di intervento antiterrorismo della SCO, è una forza a guida russa». Sisci rileva pure che la stessa Cina «non è ancora militarmente pronta ad affrontare sfide impegnative, nemmeno sul suo territorio, dove d’altronde non si intravedono aree di crisi: lo stesso Xin Jiang non costituisce un focolaio di rivolta come spesso viene dipinto, dato che gli uiguri sanno bene che, nonostante tutto, il loro benessere è garantito solo dall’agganciamento allo sviluppo cinese». Altro discorso invece, secondo Sisci, per i regimi centroasiatici, «che usano la lotta al terrorismo come pretesto per reprimere forze d’opposizione interna. Il caso di Andijan (Uzbekistan, ndr) lo ha dimostrato. Russia e Cina non hanno mosso critiche all’uso della forza da parte di Karimov, in base al principio della non-interferenza negli affari interni di ogni paese, ribadito non a caso anche nella dichiarazione finale di Astana».

Irlanda del Nord. 4 novembre. L’amministrazione Bush intende limitare il viaggio di Adams negli Stati Uniti. Il capo negoziatore del Sinn Féin, Martin McGuinness, ha espresso preoccupazione per l’annuncio del Dipartimento di Stato USA che intende restringere le condizioni della visita del presidente repubblicano, Gerry Adams, che intende recarsi a New York per una cena di raccolta fondi per il partito. McGuinness, che ha parlato di una fitta agenda di incontri, ritiene che Adams potrebbe decidere di cancellare la visita. L’amministrazione, in questo modo, vuole esercitare pressioni sul Sinn Féin perché accetti il sistema poliziesco nordirlandese. McGuinness ha aggiunto che la mancata visita di Adams sarà percepita come un affronto dell’amministrazione Bush nei settori della diaspora irlandese.

Balcani. 4 novembre. Interessante il cenno che un articolo della “rivista europea” online Cafè babel (www.cafebabel.com) dedica al progetto per il trasporto di petrolio e gas dall’Asia centrale ed il Caucaso denominato «Ambo, acronimo di Albanian, Macedonian a