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Le epidemie di influenza e quelle di deficienza

di Geminello Alvi - 20/11/2005

Fonte: ilfoglio.it

 

Il Capitalismo, lo Stato, i cinesi e 14 miliardi di galline da vaccinare

L’ultima volta, e la sola fino all’altro ieri,
che m’era capitato di sentire qualcuno
desideroso di dare cure sanitarie a una gallina
ero ancora ragazzo. Sul furgone di alcuni
amici ambulanti che mi davano un passaggio
per non so dove, e non
so che cosa. Ricordo: una
strada comunale presa
per accorciare la
strada; la frenata; un
volare natalizio di piume;
e la vittima: gallina,
che ricadde molti metri avanti. Alla sorpresa
per la disgrazia non seguì però alcuna parolaccia;
sobrio, e più anziano di noi, il guidatore
scese dalla macchina, prese per il
collo la gallina. Se l’infilò con ogni cura sotto
il sedile. Poi siccome a uno di noi sorpreso
venne da chiedergli che stesse facendo,
lui geniale, replicò con occhi languidi: “La
porto all’ospedale”. Adesso invece è proprio
vero: il partito comunista, in una nazione in
cui vige ancora la pena di morte per gli uomini,
vaccinerà i suoi quattordici miliardi di
galline. E non scherza, come prima di farle
in brodo faceva l’altro, ma darà gli ordini
più drastici di farlo.
Quanto più sconcerta non sono del resto i
comunisti cinesi e il loro dispotismo sanitario.
Il quale secondo alcuni, tra l’altro, rischia
di rendere immuni ancora prima i virus
dell’influenza aviaria. Ma il numero imponente
di occidentali ch’è disposto a prenderli
sul serio. Mesi fa alla Triennale di Milano:
convegno sulle città, e tra noi una tale,
pubblicitaria o che, in propaganda per i
creativi. E inoltre un cinese il quale annuncia
che nella sua piccola città, di non so
quanti milioni di abitanti, si sono pianificati
trentamila creativi, già per lo più al lavoro.
Beati i tempi in cui a fregiarsi di questo
nome erano soltanto i parrucchieri invertiti.
Invece i cinesi già avevano copiato l’idea, e
dal palco e in platea tutti erano pronti ad applaudire
l’orientale, in giacchetta. Senza
pensare che si era in Italia, il paese dove
non c’è cosa uguale all’altra, nel bene o nel
male. E lui a spiegarci come diventare originali.
A noi, che ci viviamo di rendita dai
tempi di Caligola.
Ma sono ancora vicende accessorie. Ci sono
state varie altre epidemie di deficienza: per
le Tigri asiatiche, per la Russia, per la Net
Economy. Adesso stupidi e furbi, anime
complementari da sempre, per assecondare
la loro natura hanno solo scelto i poveri cinesi.
E chissà che forse le epidemie di deficienza
non precedano quelle d’influenza?
Ma, ripeto, mi parrebbero tutte questione
secondarie, accessorie rispetto all’altra lasciata
non risolta da trent’anni, immane, l’unica
per la quale è valsa la pena di essersi
letti “Il Capitale”. Imperdonabile errore peraltro.
Se penso agli amici che portavano all’ospedale
le galline, alla cassiera Mirka, al
perdere tempo in barca a pescare. A tutte le
scemenze saggissime, che non feci abbastanza,
per leggermi invece Marx e i marxisti
e fare riunioni con degli altri giovani vanesi
e vecchi comunisti invidiosi. Comunque
sia, m’è restata da allora l’ossessione del
rapporto tra capitalismo e Stato. E la Cina
sarebbe formidabile per capirlo. E dire conclusioni
che, si avesse il coraggio di ammetterle,
sovvertirebbero le peraltro già fragili
idee di sinistra, malgrado le spocchie di lavoce.
it.
Per capire che ci si doveva vergognare
d’essere comunisti, già bastava aver letto il
libro proibito di Karl A. Wittfogel, che apparentava
dispotismo orientale e Stato socialista.
Da altre letture, mi pare in un’antologia
di Napoleoni, era pure in quegli anni
evidente che avevano ragione i laburisti
a giudicare il capitalismo ormai impensabile
senza Stato. Era dunque palese: c’erano
diverse gradazioni di stupidità statale in
perfetta complicità col capitalismo. Lo Stato
che tassava tutto, quello dell’aberrazione
comunista, o quelli che tassavano meno. Ma
che si parlasse di dispotismo stupido o invece
scaltro, su di un punto chi avesse davvero
studiato doveva essere d’accordo: senza
una potente intromissione statale nell’economia
niente capitalismo. E davvero il capitalismo
cinese potrebbe fare a meno del
partito comunista e seguitare a crescere del
9 per cento? Ma se costoro vaccinano a miliardi
persino le galline pur di non turbare
il succhiamento di pluslavoro che compiace
i ricchi e le multinazionali.
E il capitalismo americano potrebbe comandare
il mondo come lo comanda, senza
la Federal Reserve? Essa fu inventata per
centralizzare l’offerta di moneta, spostò a
New York tra i grandi banchieri ogni potere
sul denaro. Ed è la più antiliberista delle
istituzioni. Il liberismo avrebbe richiesto il
free banking, concorrenza, libertà di emissione
monetaria, Clearing, assicurazione
mutua dei depositi, e basta. Come sapevano
bene i liberisti veri, e come appunto spiegava
Von Hayek. Invece s’inventò una prepotenza
che tolse ai cittadini libertà di scelta:
il sistema della Federal Reserve. L’effetto,
in soli due decenni, fu una politica monetaria
che aiutò la più grande inflazione e la
più terribile recessione mai sperimentate in
America fino ad allora. E dopo la perversione
si affinò. E come altrimenti da trent’anni
a questa parte, senza il denaro statizzato, sarebbe
stato possibile stampare dollari in misura
superiore alle bottiglie di Coca Cola? E
senza copertura aurea, pertanto con un valore
intrinseco inferiore a quello dei tappi.
Lo Stato è la gran menzogna dei comunisti
e dei liberisti finti. Ed è questa menzogna,
nutrita dalla loro ignoranza, che ha reso pensabile
che la sinistra sia diventata prodista.
Ma le medesime confusioni obnubilano pure
i tifosi del liberismo immaginari. Tutti a disputare
sulla politica dei tassi. Quando a un
liberista vero già soltanto il sentire parlare
di politica e di Stato nelle faccende monetarie
dovrebbe dare il mal di pancia. Negli anni
Ottanta si è divulgata una versione domesticata
di liberismo, utile solo alle multinazionali
e ai burocrati statali. Si legga cosa
scriveva Triffin ancora negli anni Sessanta
della politica monetaria degli Stati Uniti o
gli economisti di De Gaulle in battaglia per il
ritorno alla conversione aurea, o il discorso
di Von Hayek al premio Nobel. Altro che gli
economisti in golfino, che giocano a fare i liberisti
o i liberali, causidici di sinistra, o non
meno incolti a destra. Insomma eccola l’idea.
Lo Stato comunista cinese che reprime i sindacati
e giova alle peggiori standardizzazioni
umane del capitalismo oppure lo Stato
monetario, che paga coi suoi dollari di carta
il di più di consumi e di prepotenza americana:
sono esiti di un solo male.
E siamo alla chiusa del pensamento, la
quale discende da un ovvio sillogismo. Se il
capitalismo è impossibile senza lo Stato, il
liberismo è più anticapitalista del socialismo
quando nega allo Stato di intromettersi
nell’economia e alla economia di standardizzargli
la vita. Tra anarchia e liberismo,
c’è la più stretta parentela, come si capisce
leggendo Stirner, o Ayn Rand, alla quale
Greenspan non è stato fedele. E si potrebbe
nominare anche Nietzsche. Ma occorre
pietà. Nel migliore dei casi, gli economisti
sono scaltri, mai colti; se non con eccezioni
secolari. E certo si è proprio corso: dalle galline
cinesi in ospedale fino a distruggere,
con sillogismo perfetto, la dignità d’idee della
sinistra, ormai messa peggio del culo della
Mirka, con rispetto parlando per quest’ultima.
Ogni volta chi è di sinistra vorrebbe
correggere il capitalismo con lo Stato, ma alla
fine finisce invece per asservirglielo. E
non avviene per caso. Non è un caso se gli
economisti di sinistra finiscano per fare
sempre i maggiordomi del capitalismo e asservirgli
lo stato. Valse già per l’antipatico
Hilferding, e vale oggi per tutti quei poveretti
in sfida cinese, in affanno a studiare come
far meglio lucrare i ricchi, ma coi soldi
che lo stato ci prende.
Un’economia fraterna non implica lo stato
e il suo controllo, richiede un cuore libero.
Come era quello di Errico Malatesta, che
saggissimo spiegava che l’anarchia era solidarietà
cosciente e voluta. Come quello di
Adriano Olivetti, che non comprava le squadre
di calcio, ma perseguiva l’ideale di una
comunità concreta. O come quello di chi
ateo o cristiano capisca che la libertà è nella
misericordia, non nella giustizia. Ormai il
male che uccide l’io si è spinto troppo oltre.
E gli economisti, reiterano solo giocattoli di
pensiero ad un tempo annoiati e noiosi. Perciò
non è più tempo di ritrosie. Esiste un
punto nel cuore umano dove si ha la più solenne
libertà: quella di trasformare il proprio
karma. E’ il luogo del perdono e del dono,
dove l’idea di ricambiare il male con il
bene soltanto può fondare una scienza sociale
diversa. Più potente di qualunque modello
econometrico od altro giochetto delle
ideologie. Questo luogo, non lo stato, è il fondamento
dell’agire fraterno. Essersi letti i libri
di Marx o di tutti i liberisti non serve a
niente se non lo si è sperimentato. Né senza
di esso serve a molto fare i buddisti, gli atei,
i cristiani o i comunisti. Sono tutti solo vestiti
per il principio d’avversione che per pareggiare
il male patito lo rifà, e lo perpetua
all’infinito. Senza un’idea fraterna che nasca
per esperimento, dove il cuore umano brucia
in agonia, le scienze sociali non hanno
più niente da dire. E ci faranno finire tutti
galline vaccinate. Ma guarda un po’ di che
s’è arrivati a parlare.