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L'ultima magia di Harry Potter ha una ricetta antica: DC

di redazionale - 24/02/2007

Follini annuncia il cambio di campo: scommetto su una coalizione che emargini l'antagonismo. Adesso si che cambierà il bel Paese cari sub-sub comandanti e palombari vari...

 

Marco Follini, leader dell'Italia di Mezzo

L'ex leader dell'Udc, Marco Follini, spiega al Corriere della Sera - in una intervista ad Aldo Cazzullo - la sua decisione di sostenere Romano Prodi: «Votare con Oliviero Diliberto non mi imbarazza più che non votare con Roberto Calderoli. Pier Ferdinando Casini, com'è già accaduto, mi seguirà tra qualche mese, se non tra qualche giorno. Silvio Berlusconi? In passato i colpi li ho presi io».

«Cerchiamo di non guardare la crisi dal buco della serratura, non giocare con il pallottoliere ma provare a capire di cosa ha bisogno il Paese in questo passaggio difficile».
Di cosa, senatore Follini?
«Il Paese ha bisogno di ritrovare l'equilibrio che ha perso lungo i tornanti di questa alternanza piuttosto nevrotica. In questi anni ho sempre lavorato, con le mie deboli forze, alla prospettiva di un rinnovamento, per uscire da quella foresta pietrificata che è oggi la politica italiana, per non perdere il senso di civiltà della politica. Nella mia memoria e nella tradizione in cui mi riconosco c'è il centro: vale a dire, la stabilità, la ragionevolezza, il respiro che va oltre la contingenza. Oggi qualche segnale di novità si comincia a vedere».
Quindi lei voterà la fiducia al governo Prodi?
«È probabile, se il discorso del presidente del Consiglio confermerà questi segnali».
Si rende conto di cosa le accadrà? Il centrodestra ha accolto il voto di Ciampi e di altri senatori a vita con fischi e insulti. A lei potrebbe andare peggio.
«Non provo angoscia per me, ma per lo spettacolo che talora ha ridotto le Aule parlamentari a spalti di uno stadio di calcio. Comunque, se deve accadere, preferisco essere tra gli aggrediti che tra gli aggressori».
Non è questione solo di incolumità fisica. Riceverà attacchi politici molto duri. Diranno che lei è diventato la stampella di Prodi.
«Io non faccio da stampella. Non milito da quella parte. Indico obiettivi che dovrebbero appartenere al senso comune degli uni e degli altri. Il mio è il tentativo di sottrarre il governo, e quindi la politica, alle pressioni delle minoranze più laterali. Mi propongo di partecipare, se ci riesco, alla costruzione di un nuovo centrosinistra, e di ancorare questa costruzione più vicino al centro. Il voto di mercoledì scorso ha sancito che il vecchio centrosinistra è al capolinea. Mi adopero per contribuire a tracciare una rotta diversa da quella seguita fin qui, a recuperare una cultura e una prassi di governo meno aspre e conflittuali di quelle sperimentate con Berlusconi come con Prodi».
Le rimprovereranno di essere stato eletto nel centrodestra e di essere passato dall'altra parte.
«Ho il vezzo di dire sempre le stesse cose, a costo di una certa monotonia. Pratico la pazienza, il ragionamento; non i salti logici, tantomeno il salto della quaglia. Concorro alla ricerca della salvezza politica ma soprattutto all'evoluzione del centrosinistra quando è al massimo della difficoltà. Il governo è andato oltre il ciglio del burrone; io tento di aiutarlo a risalire. Chi volesse stare sul sicuro, sceglierebbe un percorso diverso».
Se Prodi le offrisse un posto da ministro?
«Grazie, no. Il tema del mio ingresso nel governo non appartiene all'oggi e neppure al domani. Questa operazione non si fa per tentare di accumulare un vantaggio, si fa accettando di correre un rischio. È un'operazione che si annuncia costosa, ma ho già un discreto curriculum di prezzi costosi da pagare».
Si riferisce alle dimissioni dalla segreteria dell'Udc?
«Ho molti difetti, ma l'attaccamento alla poltrona non è tra questi».
Quali sono le ragioni della sua scelta? I 12 punti, con la Tav e la riforma delle pensioni, rappresentano una svolta centrista?
«Rappresentano un passo. L'inizio di un cammino. Il segno che si è imboccato un senso. Ho detto molte volte che Prodi doveva sottrarsi alla sacralità e agli automatismi della campagna elettorale che l'ha portato a Palazzo Chigi, e liberare se stesso dall'idea muscolare del bipolarismo prevalsa in questi anni. Abbiamo interpretato il bipolarismo come il passaggio più breve dalla democrazia parlamentare al presidenzialismo di fatto, e ci siamo incatenati alla retorica del programma elettorale, dai 5 punti del contratto di Berlusconi con gli italiani alle 281 pagine dell'Unione. Mi permetto di dire che questa rigidità non funziona, non appartiene alla logica della democrazia parlamentare. Che è per sua natura flessibile, capace di aggiornamenti; non richiede il pilota automatico ma una guida consapevole. A lungo ci siamo chiesti: come se ne esce? Con il mio voto cerco di dare una risposta».
Non la imbarazza votare con Diliberto?
«Non più di quanto mi abbia imbarazzato votare con Calderoli. Il mio progetto è di poter votare senza essere aggrappato al filo di Diliberto o di Calderoli».
Avevamo creduto che per lei i cattolici liberali dovessero stare dall'altra parte rispetto alla sinistra.
«Non voglio fare il cultore della memoria, ma quando parlo di visione e respiro penso alla prima edizione del centrosinistra, quella degli anni Sessanta, che mette insieme forze moderate e riformiste, che disegna un campo largo delimitato però da confini ben precisi. Quand'ero giovane, si parlava di delimitazione della maggioranza».
Qui siamo a Moro.
«Appunto. Nei confronti del Pci ci fu attenzione, dialogo, anche un po' di consociativismo, ma la delimitazione non venne mai meno. Ricordo un centrosinistra che non conteneva tutta la sinistra, ed era cosa diversa dalla destra».
Le rimprovereranno di aver tradito Berlusconi. O di essere stato l'unico, dopo lo Scalfaro del '95, a fregarlo. Lei due anni fa era il suo vicepremier. Mentre stiamo parlando, lui sta dicendo da Ferrara: «Non credo proprio che Follini voterà per Prodi».
«Nella mia onorata carriera, ho subito molti più colpi di quanti mi sia capitato di dare. Fatico a vedermi nei panni dell'aggressore. E poi la mia uscita dal centrodestra è avvenuta da tempo, non è uno scoop di queste ore».
E a Casini, partito per la montagna, chi glielo dice?
«Con Casini ci uniscono molte cose. Ci separa, talora, il tempo. Talora, la mia ragione viene riconosciuta, sia pure postuma, dopo qualche mese o qualche giorno. È possibile che tra qualche mese, o tra qualche giorno, ritroverò Casini nei paraggi; e al pensiero mi sento sollevato».
La prima occasione potrebbe essere il voto sull'Afghanistan?
«Quello mi pare un voto obbligato. Trovo paradossale ci sia incertezza su un risultato condiviso da quasi tutte le forze presenti in Parlamento».
La prospettiva è che l'Udc sostituisca la sinistra radicale nella maggioranza?
«Non so se è il tema di questa legislatura. Ma è il tema del futuro; prima o poi va aperto. Anche perché prima o poi si andrà a votare: dall'aria che tira, non troppo poi. Quando verrà il momento, ci si potrà presentare agli elettori con una diversa capacità di coesione. Occorre un lungo esercizio di tessitura; qualcuno lo deve pur cominciare. Altrimenti precipitiamo all'indietro, ci facciamo di nuovo rinchiudere in due caravanserragli: come nel gioco dell'oca, quando si torna alla casella di partenza».
E se il suo passo non si rivelasse determinante? Se Rifondazione, Verdi e comunisti si chiamassero fuori, o più facilmente perdessero qualche altro senatore?
«La mediazione oggi non dev'essere tra gli spezzoni della vecchia maggioranza; si è già visto che la somma finale è sempre zero. La mediazione dev'essere concreta, deve riguardare i temi veri del Paese. Ora assistiamo a un giochino di Palazzo, ma il problema non è come comporre i dissidi interni di una coalizione che vada da De Gregorio a Turigliatto; il problema è capire che una classe dirigente con sale in zucca non si ritira dall'Afghanistan. Non ha paura della Tav, perché è parte essenziale del nostro europeismo. Non combatte guerre di religione sull'etica e sulla famiglia, e neppure guerre contro la religione».
Lei si limiterà a votare la fiducia e poi a decidere di volta in volta? O entrerà a far parte della maggioranza?
«Sono un parlamentare non troppo attempato, ma conosco le regole. Non ho un'idea sacrale di maggioranza e opposizione, non credo esistano due recinti: più si allentano le morse, meglio è. Il senso di una legislatura costruttiva, di movimento, sta nel non restare imprigionati in uno dei due blocchi. Non scelgo un blocco contro l'altro; voterò sul filo del ragionamento».
Voterà i Dico?
«Non ho magnificato i Dico. Non li demonizzo. Non li considero il primo problema nell'agenda del Paese. Sono affidati alla dialettica parlamentare».
Quale legge elettorale voterà?
«La nuova legge elettorale o parla francese o parla tedesco».
Non è la stessa cosa. Il doppio turno alla francese implica il bipolarismo. Il modello tedesco, per metà proporzionale, non esclude una terza forza.
«Dipendesse da me, sceglierei il modello tedesco. L'importante è evitare un pasticcio casalingo. Anche il modello francese consente di bruciare scorie, di ridimensionare la pressione delle estreme. Rende più agevole all'elettore evitare la rocca di Radicofani».
Ha ricevuto pressioni in questi giorni? Porterà altri senatori con sé?
«Ho parlato con molte persone, in particolare con gli amici che hanno condiviso le mie vicissitudini di questi mesi. Ma nei passaggi decisivi si è soli. Non sono un capobastone. Rispondo di me stesso e della mia coscienza».
Se il suo voto non dovesse bastare, si andrà a un governo istituzionale?
«Una volta che si comincia a mischiare le carte, non è detto che ci si fermi. Ma una cosa per volta».