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Voice Center, romanzo-manuale per resistere al call-mondo

di Franz Krauspenhaar intervista Zelda Zeta - 27/02/2007

 

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Franz Krauspenhaar intervista Zelda Zeta 

Io sono un precario. Se Nanni Moretti rinascesse cinematograficamente oggi forse intitolerebbe così il suo esordio di metà anni settanta Io sono un autarchico. Il precario è una figura sfigurata senza che sia passata dalla carezza mortale del vetriolo, è una figura sfuggente come un personaggio di un quadro di Magritte, visto sempre di spalle; da questa non è una pipa, a questo non è un lavoratore. E allora? Questo è un precario, ecco: serbatoio umano troppo umano di angosce, di speranze, di sentimenti che a ruota d’un lavoro a tempo determinatissimo diventano anch’essi precari. Sul precariato dei cosiddetti call center (e tale esperienza l’ho fatta anch’io in due riprese, per il totale di 16 mesi, alla Doxa) é uscito da poco per Cairo Editore il romanzo Voice Center (pagg.219, euro 14,00) di Zelda Zeta, un nome, una sigla, un logo, che racchiude tre scrittori alla prima prova: Pepa Cerutti, Chiara Mazzotta e Antonio Spinaci. Ho rivolto a loro alcune domande sul libro e sulla loro esperienza, e loro mi hanno risposto con la voce telefonata e le parole di Zelda, quest’entità letteraria che li racchiude armoniosamente insieme.

Come nasce il collettivo di scrittura Zelda Zeta?

Nasce dall’incontro di Pepa Cerutti, Chiara Mazzotta e Antonio Spinaci e dalla nostra esigenza di scrivere e fare narrativa. Zelda Zeta è un laboratorio di idee in cui è nato questo romanzo a sei mani, un’ esperienza difficile ma stimolante a tal punto che non mancano i presupposti per un secondo libro. Siamo tre, siamo estremamente diversi ma tra noi l’empatia è forte. Il punto chiave della nostra intesa è fidarsi l’uno dell’altro, senza paura di critiche e censure. Quando scriviamo siamo tre teste, ma quando condividiamo idee e storie, quello che otteniamo alla fine è qualcosa di più della somma delle nostre visioni narrative: ci piace pensare che sia una sintesi sfaccettata di vicende, parole ed emozioni.

C’è stata un’occasione particolare che vi ha fatti incontrare?

Ci siamo incontrati al corso di scrittura di  Raul Montanari. Pepa veniva dall’esperienza positiva di Subway ma era alla ricerca di qualcosa che desse disciplina alla sua urgenza di scrivere. Al corso, ha conosciuto Chiara e Antonio, mossi anche loro dalle stesse necessità e consapevoli del fatto che un corso di scrittura, fatto come si deve,  non può certo inventare scrittori, ma può aiutare chi ha qualcosa da dire a dirlo meglio, così come un corso all’Accademia di Brera può aiutare un aspirante pittore, per intenderci.
Certo, la fortuna è stata anche quella di aver incontrato uno scrittore come Montanari, disponibile a un confronto costante e capace di stimolare l’identità narrativa di ognuno di noi.

Negli ultimi tempi in Italia sono usciti vari libri sul lavoro precario: Cordiali saluti di Andrea Bajani, Pausa caffè di Giorgio Falco, Mi chiamo Roberta ho 40 anni… di Aldo Nove, e altri. Come inserireste  Voice Center in questa scia? O non lo inserireste proprio?

Grazie a dio sono usciti libri come questi, che denunciano lo squallore e l’assurdità del mondo del lavoro in Italia, a partire dall’ indagine reportage di Nove, fino alla frammentarietà sociale di Falco, per arrivare al romanzo intenso e crudele di Bajani.
In Voice Center però la questione dell’alienazione da lavoro precario, non prevale mai sull’invenzione narrativa: abbiamo cercato di dare spazio alle storie dei  personaggi che sconfinano fuori dall’open space del call center. Le delusioni, i sogni dei protagonisti vanno avanti dopo aver levato la cuffia e spento il monitor, perché anche le altre sedici ore della giornata sono vita vissuta. Volevamo un simbolo contenitore che incarnasse il malessere del precariato e il call center era l’icona ideale: un purgatorio dove sosti con la speranza di andartene il prima possibile.

Quanto di vero, di vissuto da voi c’è nel libro e quanto d’inventato o orecchiato?

Tutti e tre abbiamo vissuto l’esperienza del call center. Chiara ha lavorato per il servizio clienti di una compagnia di telefonia cellulare, Antonio ha venduto di malavoglia aspirapolvere improbabili, Pepa ha fatto interviste e poi selezione del personale per quasi un anno,in cui, precaria anche lei, si è trovata di fronte diplomati con famiglia e senza un posto, laureati di fresco e dirigenti cinquantenni appena licenziati. Un ammasso di forza lavoro e sogni zoppi degno dell’incubo peggiore.
Naturalmente, oltre l’esperienza reale vissuta, in Voice Center c’è il piacere dell’invenzione narrativa, la nostra voglia di raccontare storie e creare personaggi possibili, umani.

Nel libro c’è una buona dose di sana ironia: pensate che questa sia l’unica vera arma per non farsi schiacciare dall’insostenibile leggerezza della precarietà, o esistono anche altri contravveleni?


Saper ridere delle proprie sfighe, serve a rimpicciolirle, ridimensionarle. Nel nostro libro l’ironia supera la precarietà del lavoro per alleggerire anche l’incertezza della vita.
E poi c’è la vecchia storia del “mal comune mezzo gaudio”: noi, come precari e come gruppo, siamo stati fortunati a trovare un percorso comune, ad allearci per incanalare energia e progetti. Allearsi con chi è nella tua condizione e la vuole cambiare ti aiuta a credere che provare a stare meglio sia possibile.