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«Esportare la libertà»? Da sempre un imbroglio a danno dei popoli (recensione)

di Bruno Gravagnuolo - 02/03/2007

Un pamphlet di Luciano Canfora lo dimostra tra ricorsi e paralleli storici: dalle guerre del Peloponneso alla guerra in Iraq del 2002


Che esportare la libertà fosse un mito destinato al fallimento lo sapeva bene Immanuel Kant, che pure era filosofo alieno dalla Realpolitik e dagli arcana imperii. Infatti nel 1795 nel suo celebre Per la pace perpetua, metteva in guardia da coloro che in nome della libertà, politica o di commercio, reclamavano il diritto a intervenire nelle vicende di altri stati. Mascheratura di interessi, diceva. Talché aggiungeva, col diritto di intervento umanitario occorreva andarci cauti. Sottoponendolo a tali e tante clausole di diritto cosmopolitico da renderlo quasi impossibile.
Sullo stesso tema arriva un breviario elegante e prezioso. Intitolato appunto: Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (Mondadori, pp. 104, euro12). Scritto da Luciano Canfora, grande filologo, erudito e saggista, protagonista l’anno passato della polemica con l’editore tedesco che censurò il suo La democrazia. Storia di un’ideologia (Laterza) bloccandone la pattuita pubblicazione. E a motivo di un suo presunto filo-stalinismo, nel discorrere di Stalin e Urss. In realtà Canfora, che è comunista non pentito, va letto per quello che è: un storico realpolitiker e controcorrente. Che ama far le bucce alla banalità del senso comune liberale. E con una vena da sottile controversista, proclive anche al caso indiziario. Come nel suo bel libro sull’esecuzione di Giovanni Gentile, trama multipla in cui entravano in gioco non solo gli esecutori materiali, ma altri attori di sfondo (fascisti, servizi inglesi).
Bene qual è il senso del volumetto? Nient’altro che « temprare lo scettro ai regnatori», come avrebbe detto il Foscolo «interprete» di Machiavelli. Vale a dire mostrare che l’esportazione della libertà è solo la proiezione ideologica e strategica della politica di potenza su larga scala. E scala gepolitica s’intende. Dalla grande guerra del Peloponneso(431-404) fino alle guerre irachena e afghana dei nostri giorni. Con incunaboli vari a riprova, quali l’appello motu proprio di Pio IX alla Francia contro la Repubblica romana, in favore della «vera libertà». Le guerre napoleoniche, il «grande gioco» inglese in Afganisthan, le occupazioni dell’Armata Rossa all’est dopo il 1945, le ribellioni regionali tra i blocchi dopo Jalta: Ungheria, Cile, Argentina. Su su sino all’ordine imperiale unipolare attuale: la «Pax» americana.
Tra paralleli e ricorsi storici, dipanati con abilità da Canfora, non solo si mostra che costringere i popoli alla libertà è contraddittorio. Ma anche che sempre la costrizione alla libertà e magari alla rivoluzione coincide con ben precisi assestamenti geopolitici di potenza.Vale per le campagne napoleoniche, benché in Europa abbiano i prodotto sussulti di rivoluzioni passive modernizzanti come scriveva Gramsci. Vale per l’imperialismo Usa: dalla dottrina Monroe all’arbitrato in medioriente. E vale per il dominio ex sovietico, che trasformò la rottura dell’Ottobre 1917 in un sistema egemonico guidato dallo stato guida (benché contestato dalla Cina). Qui Canfora non usa il termine «impero». E però in certi periodi vi fu anche sfruttamento dei «satelliti». Inoltre egli critica l’Urss per aver appoggiato illusoriamente le «borghesie nazionali», invece dei Pc nel mondo arretrato. Il che ha favorito il fondamentalismo. Eppure non per questo quel sistema crollò. Crollò semmai per costituiva incapacità autoriproduttiva. Per il primitivismo congenito di quel socialismo barbarico e giacobino. Costretto sin da subito a dominare brutalmente. Per sopravvivere ed espandersi.