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Se la Cina smette di speculare e investe sui paesi «emergenti»

di Joseph Halevi - 06/03/2007




Una crisi gradita? È possibile che la caduta della borsa di Shangai non sia dispiaciuta alle autorità cinesi. Il grande paese asiatico sarebbe sempre più interessato a dirottare capitali verso le materie prime di Africa e Sud America, cambiando il rapporto con il deficit Usa

Le bizze dei mercati finanziari non sono mai spiegabili, si può solo speculare. La scorsa primavera ad esempio, solo l'annuncio da parte della banca centrale giapponese di aumentare i tassi di interesse dallo zero al quasi zero, cioè allo 0,25%, ha mandato in crisi il sistema finanziario islandese e ungherese allora molto influenzati dal carry trade dello yen. Si pensava che fosse l'inizio di un aumento sistematico dei tassi nipponici che avrebbe ridotto i profitti speculativi derivanti dalla discrepanza nei margini degli interessi pagati prendendo a prestito in yen e quelli percepiti comprando buoni islandesi o ungheresi a tassi molto più alti. Pochi giorni fa la banca di Tokyo ha raddoppiato i tassi e le società speculatrici hanno detto che è stata un'operazione una tantum senza gravi consequenze. Forse ma non è detto.

Nel caso della Cina è da mesi che sulla stampa specializzata, come l'edizione asiatica del Financial Times, apparivano articoli circa la bolla speculativa nell'edilizia e sul fatto che le autorità volevano sgonfiarla. Se guardiamo agli orientamenti di fondo della politica economica cinese si noterà che ai soldi di diporto non ci credono più tanto. I governanti, i militari e il partito puntano sulle grandi industrie; abbisognano di grandi riserve valutarie internazionali per sfruttare le materie prime in Africa e in America latina. I soldi che le società e il governo cinese spendono nei paesi africani e anche in Sudamerica stanno riducendo molto il peso della Banca mondiale del Fondo monetario internazionale. In questo contesto ricevere soldi che possono andarsene velocemente non interessa più tanto a Pechino.

Possibile quindi che se non proprio preparata, la caduta della borsa di Shanghai non sia dispiaciuta alle autorità. Accanto alla dimensione cinese l'effetto contagio è connesso alla situazione creatasi nella finanza mondiale nell'ultimo quinquennio. Da un lato i soldi sono andati verso titoli ad alto rischio cui viene associato come premio un alto rendimento speculativo. Questi piazzamenti finanziari sono molto collegati ai cosiddetti mercati emergenti in cui la Cina fa la parte del leone. Il processo è continuato sebbene i margini di profitto speculativo si siano notevolmente ristretti. Infatti dal 2000 al 2006 il denaro investito nelle attività ad alto rischio/rendimento e nei mercati emergenti è più che triplicato. Dall'altro lato la possibilità di continuare a scommettere su profitti futuri nelle attività ad alto rischio e nei merati emergenti, dipende in realtà da istituzioni pubbliche, cioè dalle banche centrali.

La girandola di soldi ha potuto continuare per tre motivi: perché la Federal Reserve americana ha per anni iniettato liquidità nel sistema salvandolo da crisi catastrofiche, perché la Bank of Japan ha perseguito una politica iperkeyenesiana di tassi zero e grandi deficit pubblici che - pur non risollevando il Giappone - ha permesso un ulteriore diluvio di soldi speculativi attraverso il carry trade; infine perché le banche centrali della Cina e del Giappone hanno permesso il rifinanazimento dei due deficit Usa.
Quest'ultimo è l'elemento più importante. Infatti l'azione stessa della Federal Reserve non avrebbe avuto il successo che ha ottenuto se Giappone e Cina non fossero state pronte a coprire i defict interni e esteri degli Usa comprando titoli e buoni del tesoro americani a man bassa. Ora è possible che il cerchio si stia chiudendo; che le società finanziarie si stiano ritirando dalle attività ad alto rischio-rendimento. In tal caso è possibile ipotizzare un ulteriore indebolimento delle borse mentre l'andamento dell'economia reale, primo fra tutti il calo degli Stati Uniti - assai superiore al previsto - acquisterebbe una rinnovata centralità nei cui confronti i governi occidentali si trovano impreparati.