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Propaganda armata per una guerra permanente

di Enzo Modugno - 20/03/2007

 
Embedded La testimonianza sull'invasione dell'Iraq di un'inviata al fronte

Esiste davvero quella particolare funzione dell'anima cara ad Aristotele, a cui si devono le conoscenze che non derivano dai singoli sensi, ormai sommersi dai media? Esiste dunque questa sorta di deposito sacro della sapienza del genere umano, in grado di resistere alle versioni ufficiali? Quando non solo l'antimilitarismo ma una diffusa percezione di base sostiene che le guerre degli Stati Uniti servono a svuotare i magazzini troppo pieni, siamo sicuri che quella funzione dell'anima è più che mai all'opera.
Ma se quella funzione è all'opera nell'anima di una giornalista come Monica Maggioni, che al seguito delle truppe Usa in Iraq riferiva puntualmente la versione dei comandi militari, allora questo suo libro (La fine della verità , Longanesi, euro 14,60) presenta un interesse tutto particolare. Molte sue conclusioni naturalmente sono ben note a chi si oppone alla guerra: tuttavia una embedded irrispettosa che denuncia il «medioevo della ragione e la paralisi mentale del mondo dell'informazione» diventa una testimone non trascurabile. Monica Maggioni ritiene che la guerra sia stata «venduta come "guerra al terrore" mentre qualcuno a Washington l'aveva già pianificata ben prima degli attacchi alle Torri». Attacchi dei quali «qualcuno a Washington sapeva». Sostiene che lo scontro di civiltà sia «una mistificazione», e che gli Stati Uniti non vollero gestire l'immediato dopoguerra causando la devastazione dell'Iraq. Che gli strateghi Usa non potevano non sapere che ci sarebbe stata la guerriglia perché i giornalisti lo sapevano. E così per lo scontro sunniti-sciiti, perchè fu la Cia ad impedire che si arrestasse Muqtada al Sadr.
Maggioni dunque, una volta a casa, riordina gli elementi di verità dei racconti minimi - è questo che dà valore ai suoi argomenti - e ricompone ciò che le si rivelerà come una gigantesca «mistificazione». Certo non si spinge fino ad indagarne le cause, anche se in conclusione accenna a «chi vuole i conflitti e ha qualcosa da guadagnarci».

L'obiettivo della politica estera statunitense è da molti decenni, nelle grandi linee, lo stesso: «guadagnarci qualcosa». Il suo scopo è sempre stato quello di promuovere la guerra e la corsa al riarmo, per giustificare un flusso continuo di spese militari, per difendere i profitti derivanti dal dominio sui mercati, le risorse e i campi di investimento, per assicurare il controllo di un impero economico mondiale e la conservazione di un sistema capitalistico vitale. Da questo punto di vista la politica estera degli Stati Uniti è stata finora un successo, nonostante o forse grazie a sessant'anni di continue «sconfitte» militari. Perché lo scopo di queste guerre non è l'occupazione coloniale dei territori - il neocolonialismo non ne ha più bisogno - né la vittoria sul campo. Al contrario - e qui vale la testimonianza di Monica Maggioni - queste guerre sono condotte in modo che possano durare. Infatti il loro successo si misura con la loro durata perché hanno lo scopo di mantenere tutti i vantaggi di un'economia di guerra permanente (persino a Foggia si costruiscono parti del nuovo caccia Usa F35).

Per questo, Washington si aspetta che gli altri paesi industriali contribuiscano alla «guerra globale al terrore». E per questo l'amministrazione Usa ha sollecitato l'Italia con la lettera degli ambasciatori sull'Afganistan, preoccupata per la reale disponibilità del nostro governo. Ma forse si è trattato solo di un problema lessicale, un malinteso dovuto ad un ministro che chiama pace la guerra.