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Ragazzacci

di Mario Lodoli - 21/03/2007

In occasione di una mostra milanese sugli storici personaggi della letteratura per l’infanzia nell’Italia del Novecento (festival del libro per l’infanzia “Quantestorie”), lo scrittore e insegnante Mario Lodoli ricorda i tanti “monelli” e Giamburrasca delle generazioni passate.
Oltre a rievocare un modo ormai dimenticato di crescere e di vivere l’infanzia, Mario Lodoli confronta passato e presente, evidenziando la perdita di luoghi cruciali della formazione giovanile, come la strada e il cortile.
La figura del “monello”, tutto teso a trasgredire le regole dei grandi, è però profondamente diversa dall’attuale “bullo”, che rappresenta piuttosto un adulto in miniatura privo della fantasia necessaria alla vera trasgressione.


Monello è una parola che ormai ci suona antica e buffa, la sentiamo pronunciare solo da alcune nonne e da maestre con i capelli già un po’ grigi. Come gaglioffo o ribaldo o zuzzurellone, monello rientra in un vocabolario che le nuove generazioni non usano più. Eppure quand’ero bambino, negli anni Sessanta, c’era addirittura un giornalino che si chiamava così, insieme a “Topolino” era il più diffuso tra i bambini. Ricordo ancora certi personaggi, Pedrito el Drito, sempre alle prese con Paquita, moglie bisbetica e pronta a picchiarlo con il matterello, e Tirammolla, un essere bizzarro che si allungava a dismisura, come gomma americana. Ma tutto passa, si sa, cambiano le cose e le parole, e forse neanche matterello o giornalino o gomma americana significano più qualcosa.
Recentemente a scuola parlavo di Charlie Chaplin: quasi nessuno degli studenti lo conosceva, figuriamoci allora se qualche ragazzino tutto play station e Nike monumentali può ricordarsi de Il monello, The kid, fragile fondamento cinematografico di una generazione ormai incanutita. Figuriamoci se qualcuno legge ancora Il giornalino di Giamburrasca canticchiando «Viva la pappa col pomo-pomo-doro». Oggi sono scomparsi addirittura i luoghi dove il monello dava il meglio e il peggio di sé. La strada, intesa come scuoletta di vita, quasi non esiste più, e non esiste più il cortile battagliero, e anche il salotto buono di casa dove fare tutti i danni possibili e immaginabili è solo roba da studio universitario sulla metamorfosi della famiglia. La strada di oggi è il regno delle macchine e delle moto, un tritagatti e tritabimbi dove nessuna madre responsabile manderebbe suo figlio a giocare. Le bande stradali tipo ragazzi della via Pal sono fotografie virate seppia, racconti del tempo andato. Le croste sulle ginocchia da raschiare via poco a poco con l’unghia dell’indice, quei bei grumi di sangue coagulato frutto di capitomboli, salti dal muretto, interminabili partite a pallone tra una saracinesca e un cancello, non si vedono più sulle gambette dei nostri bambini. Ma neanche le gambette si vedono più, quegli zeppetti magri e scattanti sotto i pantaloncini corti si sono appesantiti, e restano nascosti e protetti da braghe firmate che mai e poi mai debbono strapparsi. [...]
Il monello non voleva mai ripetere nulla, ogni replica lo annoiava, il suo desiderio dominante era fare esperienze sempre diverse, anzi se possibile inventarle dal nulla. Ogni pomeriggio doveva essere diverso dal pomeriggio precedente, ogni ora doveva contenere una sorpresa, una scoperta, un guaio, e se quell’oretta provava a trascorrere indifferente e placida, allora andava provocata, tormentata, frantumata.
In qualche modo il monello era la faccia oscura del fanciullino pascoliano: se questo viveva di stupori e meraviglie di fronte all’incanto dell’universo, attonito e immobile nella contemplazione del mistero, il nostro aveva invece una voglia matta di tirare la coda al gatto, di prendere a calci il cane addormentato, di scuotere l’inerzia delle cose. Così piccolo già aveva capito che la vita è una faccenda noiosa, fatta di obblighi, costrizioni, impegni, di padri baffuti e severi, di madri taciturne e obbedienti, di nonni sentenziosi, di orari fissi e regole imprescindibili: un niente organizzato nei minimi dettagli, casa, scuola, chiesa, malinconia. E allora bisognava sfruttare al meglio quel pizzico di libertà concesso all’infanzia: prima che la morsa si chiuda per sempre, bisogna divertirsi a più non posso.
L’educazione è una lunga opera di repressione, dice Freud, e il monello lo capiva perfettamente. Per fortuna la macchina pedagogica lasciava ancora qualche buco, non c’era il tempo pieno, la scuola calcio, il corso di nuoto, la festa organizzata con gli animatori che assegnano le parti e ripetono il loro copione. Il monello poteva ancora imboccare la porta e fuggire nella steppa, nella pampa, nelle praterie dell’infanzia scatenata. Oggi rivedo il giardinetto vicino casa, un misero campetto dove i cani scagazzano e due pensionati si lamentano, e mi sembra incredibile che quello spazio ridotto abbia potuto contenere tanta vita. Tutto sommato io ero un bravo ragazzino, fionda, bilie, pallone ma anche un gran timore di Re Castigo. Però guardavo con infinita ammirazione i Lucignoli che scendevano come valanghe giù dai palazzi circostanti.
Ricordo Pixio e Giostra - io li ho conosciuti con questi nomi - due nanerottoli fatti con l’argento vivo e la malizia. Si narrava che fossero orfani, che avessero il padre in galera, che avessero ripetuto tre volte la seconda elementare, che riuscissero a sputare a dieci metri, che fossero nati in un camion: quasi tutte le informazioni venivano da loro, che non ce la facevano proprio ad accettare la realtà per quello che è. Riempivano le pistole con l’acqua benedetta della chiesa vicina e battezzavano i gatti. Oppure si mangiavano le loro caccole, per dimostrare a noi timorati che non bisognava avere paura e schifo di niente. Una volta venne il nonno di Pixio a cercarlo: il monello si nascondeva dietro le panchine, tratteneva le risate, se la godeva guardando la dentiera che aveva rubato al vecchio.
Ma era durante le vacanze di Natale che Pixio e Giostra davano la prova più spettacolare della loro monelleria: si divertivano da pazzi a rubare le statuette dai presepi delle chiese del quartiere, uno fingeva di pregare e faceva da palo, l’altro saccheggiava. [...]
Certo per qualcuno il monello - esattamente come suo fratello buono, il fanciullino - rimane a scalpitare nell’anima anche quando la sua età è finita. Qualcuno ancora lo tiene dentro ben vivo, con tutta la sua voglia di fare dispetti e di non darla vinta al buon senso e alla grigia adultità. Il mondo vuole trasformarlo in un asino, sfruttarlo e poi levargli la pelle, ma il monello, come il puer aeternus, sa difendere a oltranza la sua gioiosa immaturità, il suo desiderio infinito di libertà. Magari diventa un artista, per continuare a inventarsi un mondo che non c’è, o forse un disgraziato. Di sicuro guarda con commiserazione i ragazzini di oggi, grassottelli, prigionieri di un appartamento, pigiatori compulsivi di tasti di videogiochi, compressi come molle che non riescono a scattare.
Il monello è una figura antica, l’eroe di un tempo esaurito, al massimo il protagonista di una mostra sull’infanzia che fu: d’altronde non ci sono più le condizioni ambientali per rivederlo all’opera. Pinocchio e Giamburrasca, Pixio e Giostra, oggi non saprebbero che fare, dove andare a combinare guai. Qualcuno potrebbe obiettare: ma i bulli di oggi non sono forse i monelli di allora? Per carità, assolutamente no! La grande differenza sta nella fantasia, che i nuovi bulli proprio non sanno dove stia di casa. Il bulletto gonfia i muscoli, fa il prepotente con i più piccoli, picchia e schiaccia i più deboli; per darsi un tono ha bisogno di irrigidire la mascella, fare torvo lo sguardo, negare in ogni modo la sua tenera età. Il bullo vuole essere un adulto in miniatura, l’adulto più sprezzante e crudele, si vergogna di essere ancora soldo di cacio. È pesante nei gesti e nei pochi pensieri, tristemente piantato su se stesso a gambe larghe come un rapper da videoclip. Il monello era ancora una volta Mercurio, ali ai piedi, velocità di gamba e di pensiero, leggerezza e furfanteria, immaginazione e bugia. Il monello non sarebbe mai amico del bullo: lo troverebbe noioso, prevedibile, un traditore infame dell’infanzia. Pinocchio e Lucignolo, Pixio e Giostra, non erano mai violenti, perché intuivano che la violenza è il fondamento della realtà, e per la realtà loro non provavano alcuna simpatia. La vita va inventata, non subita: bisogna trasformare a qualsiasi costo il piombo in oro, la noia in teatro. Ricordo ancora un episodio: avevo otto anni e in un giorno di pioggia sottile che impediva lì nel parco ogni gioco, Pixio mi prese da parte e mi raccontò di aver rubato le medaglie di guerra a suo padre e di averle scambiate con un cane che sapeva parlare. Ma parlare parlare? domandai. Qualche parolina. E che dice? Dice cioccolata, liquirizia, paraponzi. E che significa paraponzi? Non lo so, ma è una parola simpatica. E tuo padre come l’ha presa? Non se ne è ancora accorto, ma chi se ne importa delle sue medaglie e della guerra. Pioveva di meno, adesso, forse si poteva ricominciare a giocare a pallone tra le pozzanghere. Pixio, ma è vera questa storia del cane che parla? Lui non mi ha risposto, si è messo solo ad abbaiare come un matto.