Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Riduzione del lavoro flessibile? Non è in agenda...

Riduzione del lavoro flessibile? Non è in agenda...

di Carlo Gambescia - 23/03/2007

 

I dati Istat 2006 indicano un aumento dell’occupazione dipendente del 2,3% rispetto al 2005. Dovremmo essere soddisfatti. E invece no. Purtroppo. Dal momento che la metà dei nuovi posti di lavoro si compone di contratti a termine.
Pertanto il vero problema di fondo è che il lavoro flessibile cresce. Non solo in Italia (dove siamo al 13% 2006 - 12,2 % nel 2001), ma nel resto dell’Unione Europea a 25 (14.9 % nel 2006 - 12,9 % nel 2001). (Su questi aspetti rinviamo all’ Indagine Conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato e del mondo del lavoro - Audizione del Presidente dell’Istat - Luigi Biggeri - XI Commissione – Lavoro Pubblico e Privato - Bozza - Roma, 7 novembre 2006)
Lavoro flessibile significa alcune cose: una ridotta o assente copertura previdenziale; una mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale; una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili: una maggiore frammentazione dei percorso lavorativo; una brevità di contratti.
A questi aspetti, come dire normativi, si aggiungono gli effetti di ricaduta sociologici e psicologici. Ne ricordiamo alcuni: cattiva percezione del lavoro, turbe psichiche, difficoltà relazionali all’interno dell’ambiente di lavoro e delle famiglie di origine o di nuova formazione, eccetera. (Su questi aspetti si rinvia a G. Farrell, a cura di, Flexicurity, Sapere 2000, Roma 2006).
Pertanto si tratta di una situazione, se non ancora disastrosa, sicuramente preoccupante dal punto di vista evolutivo. E da seguire sul piano politico con la massima attenzione. Anche alla luce di una auspicabile revisione della Legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Legge Biagi), o comunque di quell’insieme di normative che risalgono (e includono) alla Legge 24 giugno 1997, n.196 (Legge Treu).
Di riflesso, il legislatore, o almeno ogni saggio legislatore, visto che i diritti sociali non sono di destra né di sinistra, ma sono un patrimonio (di cittadinanza) comune, dovrebbe cercare di assicurare al “lavoratore flessibile” almeno una ragionevole continuità contributiva. Al fine di garantirgli una pensione dignitosa. Oltre ovviamente, a una buona e costante assistenza (dal punto di vista della tutela della salute) lungo il corso della sua, così complicata, carriera lavorativa.
Ora, sapete che cosa si è sentito rispondere chi scrive, quale membro di un osservatorio sociale sulle politiche del lavoro, dalla quasi totalità dei colleghi (economisti, ricercatori sociali, sindacalisti, esperti ministeriali) ? Che la flessibilità è in via di superamento perché gli imprenditori stanno cambiando idea a riguardo. E che, “prima o poi” si attesterà, in Italia intorno al 10/11 % . E che pertanto il problema non sussiste. Di qui l’inutilità di inserirlo nell’agenda politica. Insomma, la vecchia ricetta liberista, che il mercato (del lavoro) farà da sé. E bene. Ergo: nessuno osi disturbare i padroni del vapore. Tanto si tratta solo della vita di 2 milioni di lavoratori… E famiglie…
Un muro di gomma. Chi scrive, sta seriamente pensando di dimettersi.