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Hegel. Il suo pensiero è una spietata macchina da guerra

di Antonio Gnoli - 25/03/2007

"La fenomenologia dello spirito"


Due secoli fa, nel marzo del 1807, usciva l'ardua opera del grande filosofo: sgomentò non pochi lettori
L'editore Goebhardt, spaventato dalla mole e dall'oscurità del testo, decise di stamparne solo 750 copie
La leggenda vuole che finisse di scrivere questo saggio il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena vincitore

Nel marzo del 1807, a trentasette anni, G. W. F. Hegel pubblicò La Fenomenologia dello Spirito. L´opera - ardua, oscura, indecifrabile - lasciò sgomenti i pochi lettori contemporanei messi di fronte a un linguaggio di astrusa profondità. Quasi un ventennio prima, anche Kant aveva seminato un eguale disorientamento. Tant´è che Fichte si spinse a dire che la fortuna del padre della "Critica" in larga parte si doveva alla sua oscurità. Ma non era un po´ tutta la filosofia tedesca minacciata dall´incomprensione? Da tempo il suo linguaggio si era spinto nelle dure terre dell´astrazione. Lo stesso Marx, che nasceva da una costola di Hegel, e che pure si era dato uno statuto di scienziato sociale, amava sorprendere con l´estro della enigmaticità. Anzi, dell´enigma egli fece una prerogativa della merce e della filosofia il suo specchio.
Il suo "maestro" dunque non era l´eccezione. Come non lo sarà un secolo e mezzo dopo Heidegger. La lingua hegeliana si pose al servizio di un compito immane: ricostruire il tempio della filosofia, utilizzando le stesse architetture che aveva in precedenza demolito. Non c´è grande filosofo che non abbia provato a radere al suolo le maestose città del pensiero da altri edificate. Al punto che si può immaginare la filosofia come una macchina da guerra che va alla conquista di territori, scacciandone gli abitanti o sottomettendoli.
Hegel ha solo reso esplicito il carattere bellico del più serafico tra i saperi. Ma per la prima volta il "parricidio" non era commesso contro un nome, un´identità, una figura, una persona, una scuola Bensì nei riguardi di tutto ciò che il pensiero aveva pensato fino a quel momento. Hegel non è solo un filosofo è anche un predatore dello spirito. C´è qualcosa di pantagruelico e spietato, di onnivoro e cinico nel suo atteggiamento. Deplora la stasi, diffida delle leggi (soprattutto quelle scientifiche), teme la forza dell´esperienza. Ma al tempo stesso sa che tutto ciò che lo deprime o l‘ostacola intellettualmente appartiene ancor prima che al cielo delle idee al teatro del mondo. Ciò che vi accade - con gli uomini che vi si agitano, le storie che vi si narrano, i pensieri che la ravvivano - è solo oggetto di spiegazioni parziali. Buone per giustificare un punto di vista, ma incapaci di restituire la verità nel suo splendore. Neanche Dio - per questo pastore luterano mancato - può aspirare a illuminarci. Le nostre vite, i nostri pensieri, le costruzioni a volte fantasiose, altre ancora mirabilmente serrate, sono agli occhi del filosofo destinate a perire. Come può immaginare una civiltà a prova di decadenza? Fino a dove può spingersi il pensiero senza cadere nel delirio dell´onnipotenza?
Dio deve calarsi nella storia e al tempo stesso la storia farsi in Dio. Sembra un gioco di prestigio, una sottigliezza. In realtà è l´ossessione che Hegel si porta dentro. Ha una conoscenza mostruosa della storia della filosofia. Il suo sguardo abbraccia l´Oriente e l´Occidente Da giovane si è invaghito di Eleusi, ha flirtato con i mistici (Eckart in particolare), ha scoperto la forza di Platone e Agostino. Conosce le virtù di Spinoza, ammira Rousseau, ma al tempo stesso ne diffida. Pensa allo spirito e alla politica. Non solo la potenza del pensiero speculativo, ma il disegno divino e i promettenti fasti della città celeste, pavimentano la sua ricerca. Dove e come realizzare un così poderoso programma? A quale verità intende aspirare? In quale abisso terrestre cerca l´eterno? L´ossessione si trasforma in una lenta e magistrale bulimia.
I pochi amici lo descrivono probo, ragionevole, dotato di quella sicurezza che le menti eccelse a volte sviluppano. Sotto quella calma in realtà batte il cuore di un Calibano. A volte - preso dal furore speculativo - mostrava la voracità del cannibale. In quelle circostanze era in grado di inghiottire ogni cosa. Non c´era boccone filosofico che egli non afferrasse per poi portarlo all´altezza del naso. Lo scrutava, lo annusava e in pochi istanti decideva se inghiottirlo o gettarlo come un rifiuto nella spazzatura. Si sentiva il sovrano di una tribù immaginaria, quella dello spirito, così come riconosceva a Napoleone la stessa potenza sul territorio della materia. La leggenda vuole che egli finisse di scrivere la Fenomenologia dello Spirito, il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena da vincitore. E annotò l´evento in una lettera: «Ho visto l´imperatore, quest´anima del mondo - cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina».
C´era qualcosa di cinematografico in quella descrizione. A volte Hegel indugiava sulle immagini. Improvvisamente la tetra foresta verbale della sua prosa si incendiava di colori bellissimi. E in fondo, si può anche pensare alla Fenomenologia dello Spirito come a un grande affresco hollywoodiano, una specie di movimentato dramma a lieto fine con protagonisti di alta classe e comprimari affidabili. Dopotutto, quello che i manuali avrebbero chiamato idealismo tedesco, si poteva anche interpretare come il sogno filosofico di una terra, la Germania, che aveva smesso di sognare. Ma in che modo la filosofia avrebbe potuto dire qualcosa di speciale e di definitivo rispetto alla scienza, all´arte, alla religione, alla politica? Quale "Assoluto" sarebbe stato all´altezza di questo compito? Quale "Totalità" capace di soddisfarne la smisurata ambizione?
Hegel non aveva il deserto alle spalle. Non c´erano dietro di lui nani della filosofia, ma titani che svegliavano il sonno del mondo costruendo grandi macchine del pensiero. Architetture rarefatte, ma pur sempre cattedrali della speculazione che non si potevano ignorare: Kant, Herder, Fichte, Jacobi, Schelling erano sorti come fiori astrusi da quel mondo asfittico e miserabile che era la Germania del Settecento. Un territorio che Marx condannerà all´inanità politica e che il giovane Hegel vedrà come una promettente occasione di rivalsa. Bastava sconfiggere quei giganti, divorarli con lenta determinazione e accrescere così la propria forza, per essere non più uno tra loro, ma l´unico. Il solo in grado di scrivere la parola fine. Perché era dalla fine che bisognava partire per tornare all´inizio e da qui ripercorrere tutto intero il cammino. Si trattava di uno sforzo intellettuale mostruoso la cui posta in palio era l´Assoluto. Non il vuoto astratto dei metafisici che lo avevano preceduto, ma quello denso di vita, palpitante di storie, ricco di eventi: un Dio appunto che si faceva storia e la storia che diventava Dio. Un Dio che era in grado di pensare se stesso fuori da sé e che alla fine, dopo la tormentata fuoriuscita tornasse in sé, arricchito dall´esperienza del mondo. Ecco l´esercizio acrobatico con il quale Hegel si apprestava ad addomesticare i giganti del passato, introducendoli alla sua corte.
Anni di studi e di soggiorni, a Tubinga, Berna, Francoforte, ne avevano affinato lo spirito dialettico. Poi c´erano stati gli anni decisivi di Iena: il rumore dei cannoni, i bivacchi delle truppe francesi che occupavano la città, i fuochi intravisti dalla finestra dello studio, ne eccitavano la fantasia. Un´alba nuova si annunciava. Un´alba che la Fenomenolo-gia, simile a un grande romanzo filosofico dall´andamento faustiano, avrebbe raccontato come la fine del vecchio mondo. Hegel voleva afferrare lo scorrere della vita, catturarne il movimento senza avvilirlo negli attriti dell´esistenza. Voleva che la vita si fregiasse di quel potere che essa stessa negava: il potere dell´esistenza umana sull´inquietudine, sull´angoscia, sulla finitezza, sulla morte.
Può suonare stravagante che un metafisico - quale in fondo egli è rimasto - volga lo sguardo al mondo delle cose e degli uomini e alla storia che tutto avvolge. Nulla è più infido e più instabile di quel suolo coperto di polvere e sangue, sovrastato dal rumore della battaglia, dagli echi dei passi dei soldati. Non è solo Iena. È il mondo che si riflette in quello spicchio di vita prussiana.
Differentemente da uno scrittore, un filosofo in genere non testimonia di sé e della propria vita, espone teorie. E ogni volta che lo fa spera di dimostrare se non in modo definitivo almeno profondo il suo grado di comprensione del mondo. Quella mitica entità che è l´Essere viene ostentata come lo scopo del suo lavoro, la ragione ultima del suo pensare. Non è necessario osservare che una tale metafisica risultava insoddisfacente per l´incapacità a sanare la distanza tra l´Uno e il Molteplice, tra l´Al di là e l´Al di qua, tra Dio e Mondo. La Fenomenologia avrebbe dovuto riempire quel vuoto, unire, in qualche modo, ciò che non era unificabile. Ma come tenere saldamente insieme la realtà sfuggente, ambigua, contraddittoria del mondo con la perfezione celeste? Come non sporcare l´Assoluto con le bassezze del mondo e al contempo in che modo innalzare quest´ultimo al cielo dell´idea? Lo strumento della dialettica - l´arma letale di cui Hegel si era fornito - avrebbe egregiamente svolto il compito.
Che ne è oggi delle Fenomenologia dello Spirito? Il lato aneddotico della domanda ci rimanda all´origine della vicenda. L´editore Goebhardt - spaventato dalla mole e dall´oscurità - ne stampò 750 copie. Poche settimane prima che l´opera fosse pubblicata Hegel divenne padre. Il 5 febbraio 1807 nasceva Louis, il figlio illegittimo avuto dalla sua portiera. Questo dramma, per lungo tempo tenuto nascosto ai biografi, tormenterà il filosofo (al punto che se ne troverebbero tracce nella stessa Fenomenologia). Louis porterà il cognome della madre. E sebbene si sentisse particolarmente legato al bambino, Hegel ne rifiuterà la paternità. Proverà a inserirlo nella famiglia che nel frattempo aveva creato con una moglie che gli darà due figli. Ma Louis Fischer - che commosse Goethe per la sensibilità e l´intelligenza - non riuscì mai a integrarsi. Ormai ventenne si arruolò nell´esercito olandese e morì di febbre a Giava il 28 agosto 1831. Due mesi dopo Hegel sarebbe morto per l´epidemia di colera che si era diffusa a Berlino. Prima di morire aveva rimesso le mani sul suo capolavoro. Ma fece in tempo a rivedere solo una trentina di pagine. Morì che era un filosofo celebre ed ostico. La Fenomenologia dello Spirito fu un testo poco amato nell´Ottocento. La sua fortuna fiorì improvvisa nel Novecento, tra le due guerre. In Francia Jean Wahl, Alexandre Koyré, Jean Hyppolite e soprattutto Alexandre Kojève contribuirono al suo sdoganamento. Gyorgy Lukàcs e Ernst Bloch ne rilevarono l´importanza. Anche Heidegger fornì la sua interpretazione. Come mai tanta attenzione?
Pensando il mondo, Hegel lo immagina come un teatro: un insieme di scene sfilano sotto il suo sguardo. Da questo punto di vista, lo svolgersi della Fenomenologia avviene attraverso un movimento che dalla coscienza immediata approda al Sapere Assoluto. Il cammino - che ha la forma di un vero e proprio viaggio - è cosparso delle esperienze che lo spirito dovrà fare. L´intelletto, la coscienza infelice, la lotta tra il servo e il signore e il desiderio del riconoscimento, il farsi della legge, il piacere e la necessità, il passaggio dal mondo feudale alla monarchia, le anime belle e l´eroismo, l´illuminismo e la superstizione, la libertà e il terrore, il misticismo e la religione rivelata, sono alcuni dei tableaux che troviamo nell´opera. Hegel li disegna riducendoli al suo linguaggio. L´oscurità che li avvolge è la garanzia che qualcosa di ignoto sta venendo alla luce.
Non si può evitare di concludere che ciò che viene incontro al lettore è un abilissimo gioco acrobatico dove arbitrio e necessità familiarizzano con le parole, creando un singolare equilibrio tra evento e discorso. Ciò che accade può essere raccontato. Ma solo perché lo si racconta accade realmente. È un movimento che due secoli dopo il sistema dei media (non quello dello spirito) avrebbe reso evidente in tutta la sua ovvietà. Del resto, dopo Iena, Hegel si recò a Bamberga dove svolse per un anno e mezzo il lavoro di giornalista. Conobbe l´ansia della notizia, la crudeltà della censura e la lingua che si corrompeva. Terminata quell´esperienza tornò ad essere "Hegel l´oscuro" che riteneva che la parola non fosse semplicemente chiusa nel linguaggio, ma parlasse tra le cose e infine tornasse a sé arricchita da quell´esperienza. La Fenomenologia si conclude con il trionfo del Sapere Assoluto. Si potrebbe ironizzare sulla consistenza di questa sovranità misteriosa che è la totalità hegeliana. O provare a leggerla nei tanti modi in cui è stata letta: fine della storia, nascita di un nuovo sapere, trionfo della civiltà cristiano-borghese, metafora del totalitarismo o affermazione del più puro ateismo. Ma dopotutto quell´opera ci dice anche qualcosa di essenziale sulla modernità. Ci dice che un filosofo deve bagnare il proprio pensiero nella tempesta. Ci dice che sono esistiti tantissimi pensatori con l´ombrello aperto, al riparo dalla pioggia, ad aspettare che il cielo rischiarasse.