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Gli spettatori della pubblicità

di Paola Manduca - 26/03/2007

 



 

La pubblicità talvolta può risultare ingannevole non solo per gli utenti, ma anche per le stesse marche. Perché attribuire un valore di share ai commercials – attraverso ricerche e sondaggi - può rivelarsi una bufala. Network televisivi e agenzie di pubblicità hanno speso gran parte dei loro ultimi anni per capire come conteggiare davvero il numero di persone che guardano gli spot. Ma alla fine, il compromesso a cui sono giunti è che l'unico dato realmente significativo ha a che fare con la programmazione pubblicitaria di un intero programma televisivo, al massimo di un break, non con un singolo commercial.

Ma è chiaro che marche come Ford e Kellogg's che pagano fior di dollari per indagini di questo tipo, vorrebbero sapere l'incidenza che ha avuto il proprio messaggio promozionale, e non il grado di penetrazione di oltre 30 spot che negli Stati Uniti interrompono mediamente un'ora di programmazione. La Nielsen che a lungo ha dettato legge sia alle emittenti tv che alle agenzie dando un certo peso e valore economico agli spot in base ad una serie di criteri - tra cui l'orario di programmazione e il numero di volte in cui lo stesso spot viene mandato in onda - ha dovuto ammettere la propria incapacità a fornire informazioni più precise. Tutt'al più può indicare quante persone hanno guardato un certo break pubblicitario ma non ogni singolo spot dello stesso. Tutt'al più dice che il primo e l'ultimo break di un programma sono generalmente quelli più seguiti. Tutt'al più spot molto colorati, come l'ultimo della Visa in onda ora in America, catturano più attenzione di altri. Ma "tutt'al più" non è una risposta adeguata al giro d'affari che si nasconde dietro il triangolo clienti-agenzie-emittenti.

A rovinare preventivi e consuntivi sul pubblico che guarda uno spot, ci si mettono anche le associazioni dei consumatori, che ricordano a questo proposito che la diffusione dei lettori video, il cambio di canale reso facilissimo dalla vasta offerta della tv via cavo e la frequente decisione di staccarsi dal video e fare altro durante le interruzioni sono tutti elementi che le ricerche di questa natura tendono a trascurare.

D'altronde, se anche le persone rimanessero incollate al video, chi può garantire il loro interesse per le offerte commerciali che passano?

Paul Woolmington, socio fondatore di Naked Communications, un'agenzia di New York, in vista della annuale conferenza sulla televisione che si terrà la settimana prossima, ha dichiarato: “La pubblicità ha tirato troppo la corda. Il pubblico ha guardato troppi spot per troppo tempo, specialmente brutti spot. Sarebbe il caso di finirla con queste ricerche che oggi non hanno più senso. Noi diamo qualcosa al consumatore ma non sapremo mai che se questo è disposto ad accettare la nostra offerta”.

Di ben altro parere Lyle Schwartz, direttore di Group M specializzato in ricerche di mercato, che ritiene necessario che le tecniche di indagine si affinino sempre più perché ogni brand non solo sappia quanta gente ha guardato il proprio spot ma anche quali altri spot compaiono nello stesso break: uno spot brutto prima o dopo il proprio ne può compromettere l'efficacia, mentre viceversa spot belli potrebbero mettersi sotto braccio e mostrarsi insieme ( esattamente come funziona tra le donne quando escono insieme. L'amica brutta, se da un lato riduce la competizione, dall'altra getta un'ombra di bruttezza anche su di sé).

Ad ogni modo, ad apprendere questo stato di cose, ci si sente sollevati. Noi crediamo di essere sottoposti a continui controlli e pressioni quando loro non sanno neanche se li abbiamo visti, se ci sono piaciuti, e soprattutto se li abbiamo comprati.