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In un nuovo saggio George Steiner analizza le ragioni della tristezza

di Franco Marcoaldi - 26/03/2007


Al centro è ancora la malinconia una condizione che può rendere anche creativi e vitali
Filosofia, poesia, neurofisiologia concorrono a edificare questo suo inclassificabile libro
La pesantezza dell'animo è fatta di dubbio e frustrazione
L'incompiutezza marca a fuoco ogni esistenza umana


Quanti hanno scelto lo schermo televisivo come ideale specchio del mondo, potrebbero anche credere che esistano soltanto uomini e donne garruli, contenti, spensierati. Basta seguire una qualunque trasmissione di intrattenimento per verificare come nove volte su dieci presentatori, attrici e personaggi pubblici a vario titolo, (compresa la moltitudine di anonimi colti nel loro effimero momento di gloria), esibiscono un immancabile sorriso, vagamente beota, stampato sulle labbra. La legge televisiva appare chiara: bisogna offrire un´immagine di sé improntata alla felicità. Senza ombre di sorta.
Basta però passare dal mondo virtuale a quello reale, prendere un tram o fare la spesa al supermercato, per incontrare altrettante facce con espressioni tutt´affatto diverse. E verificare così come la malinconia e la tristezza siano al contrario moneta corrente; cosa, del resto, che ciascuno di noi verifica puntualmente nella propria intimità.
Il filosofo tedesco Friedrich Schelling si spinse oltre, sostenendo che è proprio questo doppio malessere a marcare a fuoco ogni esistenza umana, contrassegnata dall´incompiutezza: «Donde il velo di tristezza, che si stende su tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia di ogni vita». Questo brano di Schelling compare nel saggio Ricerche filosofiche sull´essenza della libertà umana e precede un´altra frase che suona: «Solo nella personalità è la vita: e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere anche il fondamento della conoscenza».
Poste entrambe le affermazioni ad esergo di uno smilzo libretto, il famoso critico George Steiner le utilizza come volano di una sua ulteriore ed ennesima avventura mentale, volta a spiegare le Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (traduzione di Stefano Velotti, Garzanti, pagg. 87, euro 11).
Ora, basta scorrere i titoli dei libri pubblicati dal critico inglese con l´editore Garzanti (dal vecchio Tolstoj o Dostoevskij al romanzo breve Il correttore, dall´autobiografia Errata al più recente Una certa idea di Europa), per verificare una volta di più quanto la scorribanda intellettuale sia consustanziale alla sua scrittura e al suo ordine di discorso.
Ma qui la natura di impareggiabile guastatore dei rigidi confini disciplinari pare raggiungere il suo acme: filosofia, poesia, neurofisiologia e cosmologia concorrono ciascuna, a diverso titolo e con diverso peso, a edificare un inclassificabile saggio, il cui esiguo numero di pagine (87) è inversamente proporzionale alla densità del contenuto.
Il procedimento adottato è lineare. Steiner ha deciso di analizzare dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero. E così farà, enumerandole una per una, in altrettanti capitoletti. Talvolta le argomentazioni si sovrappongono e si ripetono, ma i punti salienti sbalzano nitidamente dalla pagina.
Pensare il pensiero è la prima, insormontabile difficoltà. Perché trattenere il pensiero è più difficile che trattenere il respiro e dunque siamo perennemente immersi in una attività che risulta pressoché impossibile osservare dal di fuori. Eppure questa tendenziale infinità del pensiero non garantisce affatto risposte sicure o quantomeno soddisfacenti: «Ascoltate con attenzione il corso del pensiero: sentirete, nel suo centro inviolato, dubbio e frustrazione. Questo è un primo motivo di "Schwermut", di pesantezza dell´animo».
Il pensiero inoltre, in quanto inarrestabile, è perciò stesso incontrollabile. Si danno, è vero, rari casi in cui il giocatore di scacchi, il matematico o il maestro di meditazione, riescono a chiamarsi fuori dal mondo per un certo lasso di tempo. Ma nella norma tutti sappiamo quanto il corso del pensiero sia «intorbidato, perturbato, incessantemente deviato» da una serie illimitata di fattori esterni e interni di più vario genere. A ciò va sommato l´immenso, vano dispendio di un´attività che solo in piccolissima parte si cristallizza in ragionamenti compiuti, raggiungendo la meta. Tutto il resto, che, baluginato davanti agli occhi o apparso in sogno sembrava tanto interessante, si volatilizza nell´aria. Ricordate Pascal? «Pensiero sfuggito, io lo volevo scrivere; scrivo, invece, che mi è sfuggito».
Ecco dunque due nuove ragioni di tristezza: «il pensiero ordinario è un´impresa pasticciata, dilettantesca» e inoltre è talmente «dispendiosa e rovinosa» da impedirci di misurare la gravità del deficit. Per contro, è pur vero che «pensare a noi stessi è l´ingrediente principale dell´identità personale». Ma proprio da qui discende una conseguenza la cui enormità, secondo Steiner, «è stranamente data per scontata». Nessuna vicinanza spirituale, amorosa, intellettuale, permette infatti di penetrare nell´intimità dell´altro, di scalfire la sua monade. E tutto ciò si accompagna, paradossalmente, al fatto che «il nucleo inaccessibile della nostra singolarità», altro non è che «un luogo comune moltiplicato per miliardi», visto che la germinazione di pensieri nuovi, davvero originali, è la merce più rara (Einstein, a dispetto della sua genialità, «sosteneva di aver avuto soltanto due idee genuine in tutta la sua vita»).
Insomma, mentre il pensare «è sepolto nella privatezza più intima del nostro essere, è anche il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Senza contare la perenne discrasia tra ciò che abbiamo concepito e la mediocre realtà del risultato raggiunto; ciò che induce Steiner ad avanzare la drastica proposta di uno «sperare contro ogni speranza».
E con questo, se non sbaglio, siamo giunti più o meno alla metà del decalogo: le rimanenti fonti di «tristitia» e «melancholia» le scoprirete da voi, leggendo il libro. Prima di chiudere, però, vorrei accennare a un altro paio di questioni. Il critico inglese insiste molto su un linguaggio preconfezionato che finisce per "democratizzare l´intimità" e per impedire la massima espansione di tutte le potenzialità immaginative del pensiero. Aggiungendo inoltre che, saturo com´è di ambiguità, il linguaggio per sua stessa natura si «ribella all´ideale monocromo della verità». D´altronde, nel corso del tempo si sono susseguite talmente tante e diverse verità, «soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione», che forse il massimo a cui può ambire il pensiero sono le «finzioni supreme» a cui alludeva il grande poeta americano Wallace Stevence. Di più: forse che l´impotenza del pensiero di fronte alla verità, non si manifesta anche di fronte alla morte, o all´esistenza di Dio?
Qui il pessimismo di Steiner si fa radicale: «Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell´enigma della natura - o dello scopo, se ce n´è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte o alla possibile presenza o assenza di Dio. Potremmo anche essercene allontanati».
Poiché però il critico inglese non dimentica le tracce da cui ha preso le mosse, ovvero lo Shelling che ricordava come la tristezza, la pesantezza dell´anima è anche creativa e proprio affondando nella melanconia si accende la forza vitale in grado di superarla, finisce per affidare l´azzardo supremo del pensiero, più che alla filosofia e alla teologia, alla musica: «questo tormentoso medium dell´intuizione rivelata al di là delle parole, al di là del bene e del male, in cui il ruolo del pensiero, per quanto possiamo afferrarlo, resta profondamente elusivo. Pensieri troppo profondi non tanto per le lacrime, ma per il pensiero stesso».
Non si tratta di uno zuccherino finale volto a rincuorare il lettore. Lo stesso Schelling, infatti, proseguiva la prima delle sue osservazioni con altre due righe che nell´esergo del libro di Steiner non compaiono: «la gioia deve accogliere il dolore, il dolore deve essere trasfigurato nella gioia». Fors´anche del pensiero, aggiungo; se se ne contiene la versione "dispotica" e lo si immagina come una corrente impersonale che usa le nostre menti come fossero altrettanti veicoli. Ciò che consentì a Goethe di scrivere: «Io so che nulla m´appartiene/ Se non il pensiero che imperturbato/ Dalla mia anima fluisce».