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Attentato «iraniano»: paure e previsioni

di Zbigniew Brzezinski - 27/03/2007

 
 
 
Zbigniew Brzezinski

Pubblichiamo, tradotto da un nostro lettore, un articolo di Zbigniew Brzezinski comparso sul Washington Post il 25 marzo 2007; Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale del Presidente Jimmy Carter, è l’autore del recente libro «Second Chance: Three Presidents and the Crisis of American Superpower», Basic Books.
Attualmente insegna Politica estera americana alla Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies e al Center for Strategic and International Studies.
Segue una traduzione di Maurizio Blondet da la Prava.


La «guerra al terrorismo» ha creato una cultura della paura in America.
L’elevazione di queste tre parole, da parte dell’amministrazione Bush, a un mantra nazionale, a partire dagli orribili eventi dell’11/9 ha avuto un impatto dannoso sulla democrazia americana, sulla psiche americana e sulla reputazione degli USA nel mondo.
L’uso di questa frase ha di fatto minato la nostra capacità di confrontarci efficacemente con le vere sfide poste a noi da fanatici che potrebbero usare il terrorismo contro di noi.
Il danno che queste tre parole hanno fatto - una classica ferita autoinflitta - è infinitamente più grande di qualunque sogno selvaggio abbiano mai fatto i fanatici perpetratori degli attentati dell’11/9 quando stavano cospirando contro di noi in lontane caverne afgane.
L’espressione stessa è insignificante.
Non definisce né un contesto geografico né i nostri presunti nemici.
Il terrorismo non è un nemico ma una tecnica di guerra: l’intimidazione politica attraverso l’uccisione di non combattenti inermi.
Ma il piccolo segreto qui potrebbe essere che la vaghezza dell’espressione era stata deliberatamente (o istintivamente) calcolata dai suoi fautori.
Il costante riferimento a una «guerra al terrorismo» ha raggiunto un obiettivo principale: ha stimolato l’emergere di una cultura della paura.
La paura oscura la ragione, intensifica le emozioni e facilita ai politici demagogici la mobilitazione del pubblico a favore delle politiche che gli stessi politici vogliono realizzare.
La guerra scelta in Iraq non avrebbe mai potuto ottenere l’appoggio congressuale che ha avuto senza il legame psicologico con lo shock dell’11/9 e la supposta esistenza delle armi di distruzione di massa irachene.
L’appoggio al presidente Bush nelle elezioni del 2004 era anche stato mobilitato in parte dalla nozione che «una nazione in guerra» non cambia il suo comandante in capo nel mezzo della mischia.
Il senso del pericolo pervasivo ma anche imprecisato veniva così incanalato verso una direzione politicamente opportunistica attraverso l’appello mobilitante per cui si era «in guerra».
Per giustificare la «guerra al terrorismo» il governo ha in seguito prodotto una falsa narrazione storica che potrebbe persino diventare una profezia che si avvera da sé.
Affermando che la sua guerra è simile a precedenti lotte degli USA contro il nazismo e lo stalinismo (ignorando, nel contempo, che sia la Germania nazista sia la Russia sovietica erano potenze militari di primo piano, uno status che Al Qaeda non ha né può raggiungere) l’amministrazione potrebbe fabbricare le argomentazioni per la guerra con l’Iran.
Tale guerra allora affonderebbe l’America in un conflitto prolungato che spazierebbe dall’Iraq, all’Iran, all’Afghanistan e forse anche al Pakistan.
La cultura della paura è come un genio uscito dalla lampada.
Acquista una vita propria, e può diventare demoralizzante.


L’America oggi non è la nazione fiduciosa in sé e determinata che ha risposto a Pearl Harbor; né è l’America che ha sentito da un suo leader, in un altro momento di crisi, le potenti parole «la sola cosa che abbiamo da temere è la paura stessa»; (1) né è l’America tranquilla che ha fatto la Guerra Fredda con calma perseveranza nonostante sapesse che una vera guerra avrebbe potuto iniziare all’improvviso nel volgere di alcuni minuti e portare alla morte di 100 milioni di americani nel giro di alcune ore.
Noi ora siamo divisi, incerti e potenzialmente molto suscettibili al panico in caso di un altro atto terroristico negli stessi Stati Uniti.
Questo è il risultato di cinque anni di quasi continuo lavaggio del cervello nazionale sul soggetto del terrorismo, completamente diverso dalle più attenuate reazioni di varie altre nazioni (Gran Bretagna, Spagna, Italia, Germania, Giappone, per citarne solo alcune) che hanno subìto dolorosi attacchi terroristici.
Nella sua ultima giustificazione per la guerra in Iraq, il presidente Bush afferma persino, in modo assurdo, di averla iniziata per impedire che Al Qaeda non attraversasse l’Atlantico per lanciare una guerra terroristica qui negli Stati Uniti.
Questo incitamento alla paura, rinforzato dagli imprenditori dei servizi di sicurezza, dai mass media e dall’industria dell’intrattenimento, si autorinforza.
Gli imprenditori del terrorismo, solitamente descritti come esperti di terrorismo, sono necessariamente impegnati in competizioni per giustificare la loro esistenza.
Quindi il loro compito è di convincere il pubblico che si trova di fronte a nuove minacce.
Questo premia coloro che presentano scenari credibili di sempre più terrificanti atti di violenza, talvolta anche con i piani per la loro realizzazione.
E’ difficile dubitare del fatto che l’America sia diventata insicura e più paranoide.
Un recente studio ha riportato che nel 2003 il Congresso ha identificato 160 siti come bersagli nazionali potenzialmente importanti per aspiranti terroristi.
Con l’intervento dei lobbisti, per la fine di quell’anno l’elenco è cresciuto a 1.849; alla fine del 2004, a 28.360; nel 2005, a 77.769.
Il database nazionale dei possibili bersagli ora presenta qualcosa come 300.000 siti, inclusa la Sears Tower di Chicago e una «Sagra della Mela e del Maiale» nell’Illinois.
Solo l’ultima settimana, qui a Washington, mentre andavo a visitare un ufficio giornalistico, sono dovuto passare attraverso uno degli assurdi «posti di controllo per la sicurezza» che sono proliferati in quasi tutti gli uffici degli edifici privati, in questa capitale e a New York City.
Una guardia in uniforme mi ha chiesto di riempire un modulo, mostrare una carta d’identità e in quel caso di spiegare per iscritto gli scopi della mia visita.
Un terrorista in visita indicherebbe per iscritto che ha lo scopo di «far esplodere l’edificio»?
La guardia sarebbe in grado di arrestare tale bombarolo reo confesso e aspirante suicida?
A rendere le cose ancora più assurde, i grandi supermercati, con le loro folle di consumatori, non dispongono di nessuna procedura paragonabile.
Lo stesso vale per sale da concerto e i cinema.
Eppure tali procedure di «sicurezza» sono diventate di routine, con spreco di centinaia di milioni di dollari e ulteriori tributi a una mentalità da assedio.


Il governo a ogni livello ha stimolato la paranoia.
Si considerino, per esempio, i pannelli elettronici sulle autostrade, che esortano gli automobilisti a «riferire su attività sospette» (automobilisti con turbante?).
Alcuni mass media hanno fatto la loro parte.
I canali televisivi e alcuni media su carta stampata hanno scoperto che gli scenari terrificanti attraggono spettatori e lettori, mentre gli «esperti» di terrorismo come «consulenti» forniscono il marchio di autenticità per le visioni apocalittiche dispensate al pubblico americano.
Di qui la proliferazione di programmi con «terroristi» barbuti che fanno la parte dei cattivi principali.
Il loro effetto generale è di rinforzare il senso del pericolo ignoto ma latente che si dice minacci sempre più le vite di tutti gli americani.
Anche l’industria dell’intrattenimento si è messa all’opera.
Ed ecco, quindi, serie televisive e film in cui i personaggi malvagi hanno tratti arabi riconoscibili, talvolta sottolineati da gestualità religiose, che sfruttano le ansie del pubblico e stimolano l’islamofobia.
Gli stereotipi facciali arabi, in particolare nelle vignette dei quotidiani, sono stati resi, talvolta, in maniere che ricordano tristemente le campagne antisemitiche naziste.
Ultimamente, anche alcune organizzazioni studentesche dei college sono state coinvolte in tale propaganda, apparentemente dimentica della minacciosa connessione fra la fomentazione degli odi razziali e religiosi e i crimini senza precedenti dell’Olocausto.
L’atmosfera generata dalla «guerra al terrorismo» ha incoraggiato la persecuzione legale e politica degli americani arabi (in genere americani leali) per comportamenti che non sono stati solo i loro.
Un caso esemplare è la notizia di persecuzione del Council on American-Islamic Relations (CAIR) per i suoi tentativi di emulare, senza molto successo, l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC).
Alcuni repubblicani della Camera hanno descritto i membri del CAIR come «apologeti del terrorismo» a cui non si dovrebbe permettere di usare una sala riunioni del Campidoglio per un dibattito consultivo.
La discriminazione sociale, per esempio nei confronti dei passeggeri di aerei musulmani, è stata anch’essa un’involontaria conseguenza.
Non sorprende che si sia intensificata l’animosità nei confronti degli USA persino fra musulmani altrimenti non particolarmente interessati di Medioriente, mentre la reputazione dell’America come un leader nella creazione di relazioni interrazziali e interreligiose costruttive ne ha risentito molto.
Le cose sono ancora più problematiche nell’area generale dei diritti civili.
La cultura della paura ha alimentato l’intolleranza, i sospetti sugli stranieri e l’adozione di procedure legali che minano le nozioni fondamentali della giustizia.


La presunzione di innocenza fino a prova di colpevolezza è stata diluita se non cancellata, con alcuni - persino cittadini statunitensi - incarcerati per lunghi periodi senza un dovuto e pronto accesso a un equo processo.
Non esistono prove note e sicure che tali eccessi abbiano impedito significativi atti terroristici, e le condanne di aspiranti terroristi di qualunque sorta sono state poche e a lunghi intervalli di tempo l’una dall’altra.
Un giorno gli americani si vergogneranno di queste cose allo stesso modo in cui ora si vergognano di precedenti esempi, nella storia degli USA, di panico che provoca l’intolleranza contro le minoranze.
Nel contempo, la «guerra al terrorismo» ha gravemente danneggiato gli USA a livello internazionale.
Per i musulmani, le somiglianze fra il violento trattamento dei civili iracheni da parte dell’esercito statunitense e dei palestinesi da parte degli israeliani ha provocato un diffuso senso di ostilità nei confronti degli USA in generale.
Non è la «guerra al terrorismo» a mandare in collera i musulmani che guardano le notizie in televisione, ma è la vittimizzazione dei civili arabi.
E il risentimento non si limita ai musulmani.
Un recente sondaggio della BBC su 28.000 persone in 27 Paesi, che richiedeva agli intervistati una valutazione del ruolo degli USA negli affari internazionali, ha avuto come risultato che Israele, Iran e gli USA sono stati considerati (in quell’ordine) come gli Stati con «l’influsso più negativo sul mondo».
Ahimè, per alcuni è quello il nuovo asse del male!
Gli eventi dell’11/9 avrebbero potuto avere come risultato una solidarietà autenticamente globale contro l’estremismo e il terrorismo.
Un’alleanza globale di moderati, inclusi i musulmani, impegnati in una campagna finalizzata sia a estirpare le specifiche reti terroristiche sia a porre fine ai conflitti politici che generano il terrorismo, sarebbe stata più produttiva di una «guerra al terrorismo» contro «l’islamo-fascismo» degli USA per lo più solitaria e proclamata in modo demagogico.
Solo un’America fiduciosamente determinata e ragionevole può promuovere una sicurezza internazionale genuina che quindi non lascia spazio politico al terrorismo.
Dov’è il leader statunitense pronto a dire: «Basta con questa isteria,  fermiamo queste paranoie»? Anche di fronte ai futuri attacchi terroristici, di cui non si può negare la possibilità che avvengano, cerchiamo di mostrare un po’ di buon senso.
Cerchiamo di essere fedeli alle nostre tradizioni.

Zbigniew Brzezinski


Note
1) Parole di Franklin Delano Roosevelt (nota del traduttore)


Da Mosca arrivano previsioni


«Il direttore del Centro di stime militari presso l’Istituto di analisi politiche e militari russo, Anatolij Zyganok, ritiene che nella regione del Medio Oriente si stiano ultimando i preparativi relativi a tre operazioni militari che gli Stati Uniti sarebbero intenzionati ad intraprendere in contemporanea e a breve tempo nei confronti rispettivamente di Afghanistan, Iraq, e con tutta probabilità, Iran.
La prima operazione, appoggiata da gruppi di portaerei ognuna delle quali in grado di trasportare dagli 80 ai cento aerei, prenderà il via con un attacco nei confronti delle basi e delle posizioni dei Talebani.
‘All’operazione prenderanno altresì parte bombardieri strategici provenienti dall’isola Diego Garcia, nonchè basi aeree d’ubicazione avanzata a Fairford, in Gran Bretagna.
A riprova di ciò, il fatto che gli inglesi abbiano recentemente ritirato 1.500 militari dall’Iraq,  forze che a loro volta sono state ridislocate in Afghanistan al fine di effettuare operazioni terrestri con l’appoggio dell’aviazione d’assalto e di bombardieri strategici’, ha dichiarato l’esperto militare russo.
Gli Stati Uniti hanno già annunciato la possibilità di intraprendere azioni militari nei confronti dei talebani afghani, mentre da parte sua, il movimento dei talebani ha annunciato un riordinamento su vasta scala delle proprie forze con relativa concentrazione dei propri reparti mobili.
I leader dei talebani spaventano gli americani e gli alleati con centinaia di ‘kamikaze’
pronti a farsi autoesplodere, dichiarazioni altamente credibili, anche se gli attacchi suicidi nei confronti di colonne, posti di blocco e caposaldi della coalizione sono prevedibili.
In quest’ottica, secondo Zyganok, il Pentagono non dovrebbe avere grossi problemi in Afghanistan.
Dove però i militari statunitensi incontreranno seri problemi è in Iraq, sebbene il comando regionale sia pieno di ottimismo grazie all’efficacia della nuova tattica intrapresa.
Il senso dell’operazione in fase di preparazione in questa zona, consiste nel ritiro dal territorio iracheno del contingente delle forze d’occupazione, mantenendo contemporaneamente il pieno controllo del sistema di difesa dei giacimenti pertoliferi.
Al fine di risolvere favorevolmente questo compito, secondo Zyganok gli americani hanno due possibilità: la prima consiste nella creazione nell’Iraq settentrionale di una nuova formazione governativa, un enclave curdo, che fungerà da tutore principale degli interessi economici statunitensi in Iraq, sebbene le possibilità che la Turchia appoggi questa decisione di Washington
siano praticamente pari a zero.
Gli analitici russi, infatti, non dubitano del fatto che appena i curdi dichiareranno la propria autonomia, la seconda armata da campo turca invaderà l’Iraq.

La seconda possibilità prevede il via ad una serie di negoziati con Damasco al fine di ottenere l’appoggio siriano per quanto concerne la copertura dei confini occidentali dell’Iraq, anche se gli
esperti militari russi sostengono che esista una variante di riserva per ciò che concerne lo sviluppo della situazione in Iraq, e più precisamente la divisione del Paese sulla base di principi
nazional-religiosi.
In questo caso, la parte sunnita dell’Iraq passerebbe sotto il diretto controllo dell’Arabia Saudita, che a sua volta invierebbe in questa zona le proprie truppe al fine di garantirsi la sicurezza
delle vie di comunicazione strategiche.
In quest’ottica, difficile però prevedere cosa ne sarà della parte sciita dell’Iraq, dal momento che ambirebbero al suo controllo sia l'’Iran che gli sciiti arabi, i quali da parte loro non nutrono troppa simpatia nei confronti di Teheran.


La terza operazione militare che, secondo Zyganok, gli Stati Uniti hanno come minimo il 50 % di probabilità di intraprendere a breve tempo nel Medio Oriente, ha come obiettivo l’Iran. All’inizio di gennaio dell’anno in corso alcuni gruppi di portaerei statunitensi sono stati schierati nel Golfo Persico e, verso la fine dello stesso mese, l’aviazione di queste portaerei ha già attaccato alcuni villaggi di radicali islamici in Somalia.
Dopodichè sono stati annunciati sia l’invio di due portaerei statunitensi nell’Oceano Indiano che lo spiegamento in Arabia Saudita di un centro di comando di aviazione militare predestinato alla
ridesignazione in fase di volo degli obiettivi dei bombardieri strategici, obiettivo questo che nella regione in questione non veniva utilizzato dal 2003.
Nel frattempo gli Stati Uniti sono riusciti ad accordarsi con la Russia per ciò che riguarda l’aumento di traffico aereo nei cieli di quest’ultima degli aerei da trasporto Herclues, al servizio delle truppe alleate nelle province settentrionali dell’Afghanistan.
‘Teheran segue con grande attenzione il raggruppamento di forze in atto nella zona settentrionale dell’Oceano Indiano, rendendosi perfettamente conto del fatto che oltre ai bombardamenti a cui verrebbe sottoposto l’Iran da parte delle forze dislocate nei Golfo Persico unitamente alle basi aeree in Bahrein, Kuwait e Giordania, il pericolo principale è rappresentato dai missili alati lanciati sia da basi terrestri che marine’, spiega Zyganiuk.>
‘Cosa faranno gli iraniani in questa situazione? Potranno nuovamente bloccare il Golfo di Ormuz, come avevano già fatto in precedenza, durante la prima guerra nel Golfo. All’epoca affondarono una petroliera, fatto a cui fece seguito un brusco aumento del prezzo del greggio, sebbene attualmente sia gli Stati Uniti che l’Europa abbiano provveduto ad accumulare ingenti riserve strategiche di materie prime’, sostiene l’esperto militare russo.
‘L’anno scorso, durante un’esercitazione militare, - prosegue nella sua analisi Anatolij Zyganok – l’Iran sperimentò un missile marino per parametri tecnologici molto simile all’analogo di fabbricazione russa Shkval. Ciò lascia presupporre che gli iraniani siano perfettamente in grado di colpire obiettivi dislocati sino a 40 chilometri dalle loro coste. Inoltre di recente sono state mandate in onda immagini che mostravano il lancio di un satellite cosmico iraniano,  fatto che presumibilmente sta a testimoniare che Teheran disponga già di missili in grado di essere lanciati da bombardieri strategici’.

Parlando poi della possibile contrapposizione militare fra gli Stati Uniti e l’Iran, non vanno dimenticati i nuovi metodi di tattica utlilizzati nella conduzione di operazioni militari nel Medio Oriente.
‘Nel corso della guerra dell’anno scorso sul confine israelo-libanese, il movimento proiraniano Hezbollah, tra le altre cose, aveva minacciato di colpire le vie di rifornimento a vari arsenali di
armamenti e bombe aeree per l’esercito israeliano direttamente nei porti nei quali ne veniva effettuato il trasbordo una volta provenuti dall’America.
In altre parole, gli iraniani hanno dimostrato sia di essere in grado di combattere con mani altrui che di colpire obiettivi situati non solo nel Golfo Persico’, ha affermato Zyganok.
Attualmente nessuno è in grado di dire chi esattamente costituisca la ‘quinta colonna’ iraniana.
‘Si tratta di una questione assai seria, - commenta Anatolij Zyganok -, e non è affatto esclusa l’ipotesi che prevede il ricorso da parte dell’Iran alla gioventù pro sciita in Europa, nel mirino della quale in primo luogo finirebbero la principale base di trasbordo europea di Glasgow, oltre a quelle di Ramstein in Germania, di Costanza in Romania ed altre’».


(Fonte: Pravda)