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Retroscena: la trappola afghana

di Giancarlo Chetoni - 29/03/2007

 
Il segretario di Stato e senatore Gianni Vernetti (Ulivo) rilascia il 31 Maggio 2006 al ministero degli Affari Esteri un’intervista al Corriere della Sera sull’Afghanistan. Il giornalista che formulerà le domande e ne raccoglierà le risposte pubblicandole sul quotidiano della Rcs è Massimo Caprara.
A quel giorno il contingente italiano a Kabul ha un organico di 834 militari (interarma) a Kabul e di 522 ad Herat, in prevalenza appartenenti all’Ami e ai Ros per una presenza complessiva di 1.356 unità sul terreno più 149 funzionari del ministero degli Esteri e addetti alla cooperazione divisi tra il distaccamento nella capitale e il Prt.

A distanza di 10 mesi l’impegno militare del Belpaese da quelle parti supera, con qualche fluttuazione in più o in meno, i 2.200 uomini e arriverà a 2.500-2.600 a giugno 2007 con il supporto del personale addetto agli Uav Predator, agli elicotteri d’attacco A109 Mangusta e ai mortai da 120 mm in aggiunta agli elicotteri AB212 e ai C47 e ai C130J con base a Doha.
Evidentemente il generale Satta, come sostituto di Errico, l’ha spuntata alla grande. Avrà tutto quello che serve per garantire una cornice di “sicurezza” ai militari italiani. Si manderà da quelle parti, le dichiarazioni del ministro della Difesa e del suo vice al riguardo sono state esplicite, i materiali e i rinforzi necessari. Le sollecitazioni dei Palazzi del Potere anche.
Per ora, ha affermato Parisi, si sta valutando le circostanze e si adeguerà quanto prima la risposta alle necessità che spuntano dalle minacce sul terreno.
Andrà irrobustita se servirà - ha avvertito - anche la capacità di difesa dall’aria perché la forza nazionale sia in grado di far fronte ai venti di guerra che si stanno avvicinando ad Herat e a Kabul. Tradotto in soldoni si torna ad agitare l’uso degli Amx, di vettori aerei specializzati in strike, per l’attacco al suolo.

Tutta roba compatibile, come si vede, con il programma di ricostruzione e di assistenza sanitaria e alimentare alle popolazioni locali sponsorizzato a suo tempo, novembre 2001, dal Fondo delle Nazioni Unite.
Al di là del forte incremento di scarponi registrato sul terreno in un anno il contingente italiano in Afghanistan ha, via via, radicalmente cambiato la natura della sua missione. Dovendo rimanere nel Paese delle Montagne, come ci ha anticipato il ministro della Difesa, almeno fino al 2011 la scelta diventa di fatto obbligata.

L’arrivo sul teatro di operazioni di unità di incursori del 9° rgt Col. Moschin, del Consubin, di reparti del 185° Btg RAO della Folgore, hanno finito per assegnare ai nostri reparti una proiezione sul campo di forza “combat-ready” inserita nel dispositivo dei Comandi Isaf e Usa.
Sta uscendo lentamente allo scoperto il coinvolgimento forzato dell’Italia in un'altra guerra “altrui” a ridosso dei confini dell’Iran e della Cina. All’altro capo del mondo.
La trappola al formaggio accortamente preparata da Martino & Soci e dal Partito Amerikano è ormai pronta a scattare.
Una guerra in cui Bush e Blair ci stanno tirando dentro un po’ alla volta e che rischia di costarci nel segno della solidarietà e della continuità, come a Nassiyria e nella provincia di Dhi Qar, particolarmente cara.
Dalla ipocrisia del peace-keeping per la difesa della democrazia kabulista di Karzai l’Italia è scivolata un po’ alla volta nel tormentone dell’enforcing per la impermeabilizzazione del territorio di 4 province, l’intero ovest dell’Afghanistan da formazioni dai “terroristi” talibani di etnia pashtum.
E siamo solo alle prime battute. Il conflitto in Afghanistan si sta rapidamente irachizzando.

L’uso di autobombe, di esplosivo interrato e di agguati diventerà sempre più frequente. In un Paese dove le distanze da superare sono enormemente allungate, i collegamenti stradali tradizionali pressoché inesistenti, il territorio esterno alle città disabitato e incontrollabile, gli sterrati fatti di saliscendi tortuosi, privi di protezioni laterali ed esposti ad azioni di guerriglia per essere incassati tra posizioni sopraelevate, aver permesso alla Nato di assumere il controllo delle forze nazionali consentendone l’utilizzo per il pattugliamento armato e il trasporto logistico è un gravissimo atto di irresponsabilità politica e militare. Il ministro della Difesa Parisi, il sottosegretario Forcieri e il Comando Operativo Interforze ne dovranno rispondere, prima o poi, al Parlamento e al Paese.
Il generale Mini su “Repubblica” il 25 marzo, a pagina 4, ha bacchettato i Palazzi del Potere. Senza preoccuparsi troppo di alchimie politiche ha detto chiaro e forte che l’Italia, a dispetto di un profluvio di contributi a fondo perduto e di amicizie rivendicate, a Kabul non conta niente e da Herat i militari italiani devono controllare un territorio grande come l’Italia dove siamo stati costretti a coordinare le attività di 2.000 uomini tra unità nazionali, spagnoli e sloveni e c’è un centinaio di soldati Usa che la fanno da padrone.

Le affermazioni di Mini sono state trancianti. L’arrivo degli elicotteri d’attacco A109 Mangusta rischia a suo giudizio di complicare le cose: “Non migliora la capacità operativa dei nostri reparti ma ne aumenta la vulnerabilità”. “Per un guerrigliero - ci ha fatto sapere - abbattere un elicottero con un lanciamissili è sempre una grande tentazione”. E ancora: “Abbiamo già veicoli e armi di gran lunga più efficienti di quelle di qualsiasi banda avversaria”.

Insomma per l’alto ufficiale si rischia di alzare soltanto il livello dello scontro senza poterne ottenere alcun beneficio operativo.
Dal giugno al novembre 2006 Usa e Isaf hanno seppellito l’Afghanistan sotto un tappeto di bombe da 250 a 1.000 kg, i raid della Nato sui “target” del nemico sono stati 2.100, la media delle missioni al giorno 18, gli “effetti collaterali” su città e villaggi in proporzione al numero degli ordigni e al tonnellaggio sganciato. Il grosso è stato distribuito sul terreno dai B52 che hanno vuotato le stive seminando il loro carico di morte senza badare troppo alle collimazioni, ai bersagli da colpire. La caduta libera come si sa raggiunge il risultato con l’effetto “saturazione da cratere”.

Dal 21 marzo l’offensiva aerea della Nato ha avuto come epicentro Lashkar Gah, la città dove ha sede l’ospedale di Emergency e dove è stato liberato Mastrogiacomo con gli effetti collaterali denunciati da Gino Strada dopo 24 ore di centinaia e centinaia di morti ammazzati.

Nell’orrore della guerra ci sono dei particolari curiosi, da chiosare.
Da quando è scattata nella provincia di Helmand l’operazione “attacca e distruggi” Achille non si parla più né di Bin Laden né di Al Qaida né si ha notizia di mujihaiddin catturati durante azioni di combattimento e di rastrellamento. Elemento che potrebbe portare dritto, dritto a far capire, attraverso il contatto dei prigionieri con fonti indipendenti, la costruzione artificiosa delle motivazioni che determinarono nel 2001 l’intervento Usa in Afghanistan.

Al di là realtà di una nuova guerra che durerà “decenni” l’Onu esce dall’Afghanistan a pezzi per credibilità e capacità di intervento umanitario sul terreno.
Quello che occorre fare è circuitare pericolosi riflessi condizionati avviando una profonda, ragionata, revisione critica sul Palazzo di Vetro come espressione della Comunità internazionale e centro di mediazione e composizione “super partes” delle controversie tra gli Stati aderenti.
L’occasione ce l’ha offerta in questi giorni Hans Sponeck, the former assistant Segretary General of U.N. , che ha denunciato per complicità in crimini di guerra il Palazzo di Vetro per la gestione della crisi in Iraq dopo l’invasione di Usa e GB del marzo-aprile del 2003: “It is the time to change the sistem completely”, ha affermato a New York davanti a una platea di giornalisti, di corrispondenti esteri e di catene televisive. Gli echi della sua conferenza stampa attraversando l’atlantico si sono misteriosamente spenti.

I network dell’Europa di Barroso e la Germania della Merkel, presidente di turno dell’Unione Europea, e quel che è peggio il Parlamento di Bruxelles, hanno semplicemente espunto l’appello di Sponeck dalla cronaca politica.
Le sue clamorose dichiarazioni sulla subalternità dell’Onu alle decisioni adottate a livello politico e militare dalle Amministrazioni Usa a giro per il mondo nel vecchio e nel nuovo continente sono state totalmente ignorate. La mole della documentazione fatta di appunti ufficiali redatti dagli ispettori delle Nazioni Unite in Iraq dal 1991 al 2006 non hanno fatto batter ciglia alle agenzie di stampa del Bel Paese oltre che ai corrispondenti, superpagati e allineatissimi, dei TG della televisione di Stato. C’è a giro un gran voglia di Lucio Manisco e anche di Maria Teresa Maglie.

La stagione dei Paesi non allineati è ormai morta e sepolta. La caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Urss ha avviato con l’emergere degli Usa come unica superpotenza una devastante mutazione genetica nella struttura, nelle attribuzioni, nella trasparenza e nell’equità delle risoluzioni adottate dal Palazzo di Vetro creando le premesse di un’ulteriore crescita dei fattori di instabilità a livello planetario.