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L'erede della tradizione umanistica

di Franco Volpi - 30/03/2007


Se ne va con Gadamer il testimone piu' rappresentativo e
l'ultimo grande
maestro della filosofia del Novecento. Nato nel 1900, formatosi alla
scuola
del neokantismo e della filologia classica, e soprattutto a quella di
Heidegger, aveva raggiunto la celebrita' solo nella tarda
maturita' con la
pubblicazione di Verita' e metodo (1960). Nel suo capolavoro aveva
sviluppato il programma di un'"ermeneutica filosofica",
ossia il tentativo
di considerare la "comprensione non soltanto come il tipo di
sintesi
conoscitiva che si attua nell'interpretazione e nella traduzione di
testi,
bensi' come l'articolarsi stesso della vita umana nel suo
essere nel mondo e
nella storia. La sua prospettiva filosofica e' compendiata nella
tesi
secondo cui "l'essere che puo' essere compreso e'
linguaggio". Sentenza,
questa, che nella sua provocatoria acutezza rimane l'indice di un
problema
ancor oggi tutto da discutere.
Certo, Gadamer aveva tratto gran parte delle proprie convinzioni
filosofiche
da Heidegger. Eppure, evitando ogni scolasticismo, le aveva declinate
secondo la misura e i valori della tradizione classico-umanistica in
cui si
era originariamente formato. Questa sua "urbanizzazione della
provincia
heideggeriana" e' stata uno dei motivi che maggiormente hanno
contribuito
alla fortuna dell'ermeneutica, accolta e recepita non solo in ambito
strettamente filosofico, ma anche in quello delle scienze umane e in
particolar modo della giurisprudenza.
Dalla sua cittadella, costruita sull'eredita' della grande
filosofia greca
ed europea che padroneggiava come pochi, Gadamer ha toccato problemi
centrali del mondo d'oggi, invocando su di essi la nostra attenzione
critica: il ruolo di compensazione che la cultura umanistica puo'
svolgere
nel "deserto che cresce" della razionalizzazione e del
disincanto del mondo;
l'ingovernabile complessita' del progresso tecnologico e la sua
incapacita'
di generare risorse simboliche di senso; il conflitto delle culture e
delle
confessioni, e la rinnovata esigenza di tolleranza e solidarieta'
nel mondo
della globalizzazione.
Da grande erede della tradizione umanistica, Gadamer ha osservato questi
problemi con pacatezza, ma tenendo sempre viva una moderata
inquietudine:
quella di chi era consapevole di parlare di una storia e di un destino
che
ci riguardano tutti, ma sapeva pure che chi oggi va alla ricerca di
colpevoli per le miserie del mondo, evidentemente non ha ancora capito
la
gravita' della situazione.
Di fronte allo svanire dei modelli tradizionali di orientamento, dopo
Verita' e metodo egli ha sottolineato l'urgenza di una
riflessione sulla
ragione pratica, rivendicando l'attualita' del "sapere
pratico
aristotelico". Nel contempo ha intessuto un elogio della teoria,
prendendo
le difese del "protofilosofo" contro il riso delle
"servette tracie" che
oggi si motteggiano dell'estraneita' del teoreta al mondo.
Ma che cosa vuol dire riabilitare la saggezza pratica e al tempo stesso
la
teoria? Evidentemente si tratta di due strategie convergenti per
affrontare
i problemi di cui e' costellato il cammino della finitudine umana
in vista
della sua riuscita, ovvero la felicita'. In questo senso, Gadamer ha
ricordato che il raggiungimento di una condizione felice presuppone la
riuscita di quella prassi che e' la vita. E che essa e'
possibile in
quell'attitudine eccelsa, praticabile dall'uomo, che e' la
teoria. Ma la
teoria non e' una facolta' di cui noi disponiamo, bensi'
una condizione di
serenita' e di pienezza d'essere a cui bisogna prepararsi e
formarsi. E il
cui senso, purtroppo, sembra essere scomparso dall'orizzonte delle
esperienze dell'uomo contemporaneo.
*
Gadamer non ha parlato pero' solo da ammiratore del mondo classico.
E' stato
anche un filosofo del ventesimo secolo. Voglio dire: il problema che lo
inquietava non era unicamente l'eredita' dell'Europa, ma
anche il suo
futuro. Sapeva bene che il compiersi dell'avventura tecnologica non
significa il recupero della felicita' adamitica originaria, ne'
equivale
alla guarigione dagli esiti nichilistici cui la modernita' ha
condotto. Se
e' vero che "con il pericolo cresce anche cio' che
salva", come canta
Hoelderlin, e' altrettanto vero che l'estenuarsi della ragione
nella mera
strumentalita' e l'esplicarsi del nichilismo nelle sue ultime
conseguenze -
Dostoevskij a Manhattan - non producono necessariamente
l'alternativa
risolutrice, il ritrovamento del mito o l'aprirsi di nuove
esperienze
sostanziali di senso.
Sappiamo quanto facilmente l'inquietudine per il futuro,
specialmente nei
momenti di consunzione degli ordinamenti tradizionali, puo' indurre
a toni
apocalittici o nostalgici. Nulla impedisce tuttavia che lo stato di
deperimento si protragga a lungo, possa stagnare o cristallizzarsi. E in
ogni caso noi ancora non conosciamo gli esiti ai quali il decorso della
malattia, breve o lungo che sia, portera'.
Con il suo senso per la finitudine umana e la sua sobrieta' di
pensiero,
Gadamer ci ha insegnato la prudentia dell'attesa.