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Agricoltura industriale e saperi tradizionali

di Paoloroberto Imperiali - 30/03/2007

 


Durante la presentazione del libro "Agri-Cultura", curato da Giovanna Ricoveri, fra i vari problemi che sono stati discussi alcuni mi hanno colpito particolarmente e vorrei accennarne qui di seguito.

Un problema sollevato era la possibilità di non perdere i saperi tradizionali degli agricoltori e nello stesso tempo poter usare le nuove tecnologie (per definire il problema intendo per nuove tecnologie quelle che vengono da scoperte e modifiche ottenute in laboratorio, o comunque che non sono il risultato della semplice esperienza dell'agricoltore e, più in generale, quelle dell'agricoltura industriale).

Personalmente ritengo che i due tipi di sapere non possono coesistere, poichè quando si può accedere ad un mezzo "tecnologico" (es.: concimi, diserbanti, prodotti ibridi non autoctoni, macchine,...) lo si fa perché si ritiene che questo rappresenti un vantaggio e quindi diventa
svantaggioso continuare con il vecchio sistema che viene quindi eliminato.

Rinunciando al vecchio sistema si rinuncia anche a tutto quello che lo teneva in piedi (per es. coltivare con l'aratro, implicava tenere buoi, vacche, usarne i concimi, pascolo, ecc...) cioè a monte di ogni "fatto" agricolo c'era una specie di filiera che, con l'uso di un nuovo processo tecnologico, viene automaticamente eliminata e viene eliminata la funzione e la capacità che aveva l'agricoltore di svolgerla.

In altre parole l'uso delle pratiche tecnologiche industriali porta ad una semplificazione delle modalità produttive, il che viene chiamata normalmente impoverimento delle campagne, questo da una parte riduce la varietà, la complessità, le innumerevoli forme di vita delle componenti organiche, vegetali, animali e paesaggistiche della campagna, dall'altra riduce i saperi, la capacità fisica ed il legame emotivo tra l'agricoltore e la sua creatura.

Ed il secondo punto che vorrei evidenziare è proprio la perdita di questo legame emotivo ed affettivo tra l'agricoltore e la sua creatura (la campagna).

E' stato espresso da alcuni il concetto che essi non hanno nessuna nostalgia della campagna, si è anche parlato di una certa ottusità della mentalità dell'agricoltore, come sempre si è portato l'avvallo di Marx, avvallo sempre auspicabile per garantire la bontà dei nostri ragionamenti, ma che non mi trovano d'accordo.

Evidentemente l'intelligenza dell'uomo di città è diversa da quella dell'uomo di campagna che però non chiamerei "ottusità" se proprio attraverso la sua lentezza, gli ha consentito di crearsi quell'esperienza nei confronti dei fenomeni naturali della cui perdita oggi siamo
giustamente preoccupati.

Per quanto riguarda la "nostalgia della campagna" va forse definita.

Se si guarda soltanto alla situazione delle campagne dove i contadini vengono o venivano sfruttati, costretti a dei ritmi disumani, in miseria, in un continuo senso di precarietà, senza possibilità di essere ascoltati o di reagire, sono pienamente d'accordo.

Ma questo non si riferisce alla campagna ed alla vita agricola in quanto tale, ma a delle situazioni "agricole", dove purtroppo avveniva, è sempre avvenuto e dove oggi tutta questa ingiustizia avviene ancora di più. E che se vogliamo, purtroppo sono maggioritarie nel mondo e nella storia, per cui i contadini hanno abbandonato le campagne e continuano a farlo.

Ma sono esistite e ancora esistono delle comunità agricole, autosufficienti, solidali, equilibrate socialmente, dove forse esiste la "povertà" se misurata in termini monetari, ma dove non esiste la miseria degradante; comunità e modi di vivere che invece rappresentano un modello auspicabile per le centinaia di milioni di diseredati che sono andati in città. E anche nella
nostra vita, non vedo perchè disprezzare le pratiche agricole di un tempo che anzi creavano un'atmosfera di partecipazione, di comunità, di solidarietà, di emozioni che oggi
abbiamo reciso.

A me piace potare la vigna, raccogliere le olive, coltivare l'orto e quando posso in campagna lo faccio con molta gioia.

Con l'aiuto di un agricoltore, perchè non so come si fa e per un tempo limitato, perchè i miei muscoli non reggono dopo qualche ora, ma quella vicinanza con la realtà, con la natura, con l'impegno fisico, con l'emozione del raccolto, con la vicinanza di chi accanto a me fa la stessa cosa: tutto questo mi gratifica, e gratifica anche gli agricoltori quando non sono oppressi dalla miseria.

Direi quindi di non fare di tutte le erbe un fascio e non dare un'unica definizione di campagna. Non disprezzandola in quanto tale e con reale nostalgia della parte buona che si è perso della campagna e cercare di recuperarne questa parte. Cioè recuperare tutte quelle conoscenze, ma
anche un po' alla volta anche quelle pratiche, fisiche e manuali, anche se a volte faticose, senza le quali l'unica soluzione è la delega alla tecnologia e la perdita della campagna.