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Stati Uniti: le politiche di internamento degli "Alien Enemies"

di Luigi Carlo Schiavone - 02/06/2007




Guardando a ciò che si è scelto di tramandare ai posteri fra gli avvenimenti riguardanti la seconda guerra mondiale, non può non sottolinearsi come l’attuazione di politiche d’internamento da parte degli Stati Uniti nei confronti di coloro che erano considerati “Alien Enemies”, ovvero residenti non naturalizzati originari dei Paesi dell’Asse, sia senza dubbio tra gli eventi su cui si è fatta pochissima luce.
Va in primo luogo ricordato che la “grande democrazia” americana non era nuova all’uso di simili mezzi; già nel corso della prima guerra mondiale, infatti, il trattamento riservato ai tedeschi residenti ma non naturalizzati non fu dei migliori. All’indomani della dichiarazione di guerra dell’aprile del 1917, circa mezzo milione di tedeschi, venne dichiarato “alien enemy” e la sola colpa di essere sudditi dell’impero austro-ungarico consentì, grazie ad un mandato presidenziale, l’arresto immediato della gran parte di loro. Nonostante il protrarsi della prigionia non fu pari all’intera durata della guerra, non si può dire che la vita che li attese poi risultò essere meno dura; i tedescoamericani, infatti, furono vittime di una vera e propria campagna d’odio che in alcuni casi assunse i tratti di una vera e propria persecuzione, attuata da parte delle autorità governative locali e della popolazione. La guerra alla cultura degli “Huns” (Unni), che tutti gli americani avevano abbracciato ampiamente, fu estesa anche alle opere di Beethoven, Brahms e Wagner di cui fu vietata l’esecuzione. I nomi di tutte le strade e di tutti i luoghi pubblici, precedentemente intitolati a personaggi tedeschi furono modificati. L’uso del tedesco venne scoraggiato ed in alcuni Stati fu addirittura proibito nel corso di eventi pubblici, inclusi i riti religiosi. Nemmeno i nomi propri delle pietanze della gastronomia germanica furono mantenuti.
Se questo fu quanto accadde nel corso della prima guerra mondiale nei confronti dei tedeschi, le cose non andarono meglio durante la seconda guerra mondiale, quando, considerati come la “quinta colonna” dei Paesi dell’Asse dediti alla destabilizzazione del fronte interno, tedeschi, italiani e soprattutto nippoamericani furono sottoposti ad una serie di manovre restrittive attuate nei loro confronti dal governo a stelle e strisce
L’internamento di tedeschi ed italiani cominciò più di due anni prima che gli Stati Uniti, nel dicembre del 1941, entrassero formalmente in guerra. In seguito all’attacco alla Polonia del settembre del 1939 da parte della Wermacht, infatti, il governo statunitense diede ordine di internare i marinai di alcune navi tedesche che ancora non avevano lasciato i porti americani. Identica fu la sorte che colpì, dopo il giugno del 1940, un migliaio di italiani, residenti temporaneamente negli Usa in quanto marinai o lavoratori impiegati nei ristoranti dei padiglioni italiani all’Esposizione mondiale tenutasi a New York nel 1939-1940.
In seguito all’invasione della Francia, il governo americano approvò l’”Alien Registration Act” che esigeva, per la prima volta nella storia americana, che i residenti stranieri andassero annualmente a registrarsi presso gli uffici postali e informassero tempestivamente il governo di ogni loro cambio di indirizzo.
Quando gli Stati Uniti presero parte attiva al conflitto mondiale, quasi un milione di persone non naturalizzate e proveniente dai paesi dell’Asse, risiedeva negli Stati Uniti e era potenzialmente internabile. Lo status giuridico di “alien enemies” venne rafforzato da tre proclami pubblici, firmati dal presidente Roosevelt tra il 7 e l’8 dicembre 1941; vale la pena di ricordare, inoltre, che, oltre a tali atti, diverse agenzie federali per la sicurezza, civili e militari, furono incaricate di redigere liste per la detenzione cautelare. Le cosiddette “liste ABC” altro non erano che elenchi di persone la cui potenziale pericolosità per il paese era dato dalle lettere: nella lista “A” erano inclusi gli stranieri identificati come “sicuramente pericolosi”, nella lista “B” gli individui “potenzialmente pericolosi” e nella lista “C” erano inclusi tutti coloro che erano soggetti a sorveglianza perché avevano svolto propaganda sovversiva o avevano semplicemente dimostrato simpatia per le potenze dell’Asse.
Quando, nel 1939, il programma di internamento prese il via, non erano ancora state approntate strutture adeguate; in attesa della nascita dei cosiddetti “Relocation Centers”, posti sotto la direzione del dipartimento della War Relocation Authority, gli internati, arrestati per lo più nel cuore della notte e temporaneamente condotti nella prigione del posto, erano dislocati nelle basi militari preesistenti. La strategia che sottostava alla procedura d’arresto prevedeva che fossero internati soprattutto uomini, decapitando intere famiglie la cui parte più rilevante del reddito era fornita dal lavoro di quest’ultimi; ciò, inoltre, si rifletteva in maniera indiretta sulle fortune delle comunità, alle quali venivano a mancare le parti più consistenti di guadagno.
La comunità, che senza dubbio subì il trattamento peggiore , fu come detto in precedenza, quella giapponese. Gli appartenenti alla “razza nipponica” vennero sempre visti dagli statunitensi, come ampiamente dimostrato dalla cinematografia americana, come i figli di una stirpe malvagia che aveva trovato nell’Impero lo strumento necessario per estendere il suo dominio di sangue. Le attenzioni nei riguardi dei nippoamericani si intensificarono quando, il 19 febbraio del 1942, a ben settantaquattro giorni dall’attacco di Pearl Harbor il Presidente Roosevelt emanò l’Ordine Esecutivo 9066, che stabiliva la procedura attraverso cui più di centoventimila giapponesi furono rinchiusi nei campi di concentramento. Alla base di tale azione vi era la “necessità militare” ritenuta dal Presidente Roosevelt ragione sufficiente per calpestare i diritti costituzionali in tempo di guerra, anche in una democrazia. La giustificazione fornita dall’allora Presidente degli Stati Uniti sarà condannata nel 1980 dalla commissione presidenziale voluta dal Congresso degli Usa, a trentacinque anni dalla fine della guerra, per determinare se era stata commessa qualche ingiustizia durante l’evento bellico nei confronti della popolazione giapponese. Dall’esame fatto da suddetta commissione, è risultato che l’Ordine Esecutivo 9066 non fu giustificato da alcuna necessità militare, ma frutto solo del pregiudizio, dell’isteria di guerra e dall’”insufficienza della leadership politica”, a cui si tenterà di riparare concedendo ai sopravvissuti un indennizzo pro-capite di ventimila dollari.
Ma l’azione statunitense non si fermò a questo. Ai figli del Sol Levante rastrellati sul proprio suolo, lo zelante operare del governo statunitense poté aggiungere altri duemila prigionieri nipponici provenienti da un Sud America ancora troppo soggetto alla dottrina Monroe per ribellarsi ai desideri della democrazia americana ed alle sue pressioni; va aggiunto, inoltre, che il numero dei deportati dai paesi sudamericani sarebbe stato senza dubbio molto più alto se alcuni fanatici funzionari statunitensi, come l’ambasciatore in Perù Norweb, il cui obiettivo era internare tutti i 25mila individui che componevano l’intera popolazione nippoperuviana, avessero avuto piena libertà d’azione.
I pochi testi che trattano dell’argomento, però, ci tengono a precisare che gli internati avevano qualche possibilità di presentare ricorsi. In ogni distretto giudiziario, infatti, vennero istituite le Enemy Alien Hearing Boards, commissioni di riesame, composte da tre o più cittadini volontari. Purtroppo però, non si conosce nulla in merito al loro modus operandi, al numero di casi presi in esame o al grado di considerazione che le loro proposte ricevevano da parte del Ministro della Giustizia.
Nel 1942, alla vigilia delle elezioni congressuali, qualcosa sembrò cambiare a favore della comunità italiana, che iniziava a diventare sempre più influente negli ambienti politici a stelle e strisce. Grazie alle pressioni di leader italoamericani, infatti, il ministro della giustizia Biddle annunciò, nel giorno del Columbus Day, l’approvazione del provvedimento che aboliva la designazione automatica di “alien enemies” per gli italiani residenti negli Stati Uniti. Nonostante ciò, non tutti gli italoamericani vennero rilasciati ed anzi altri arresti si verificarono all’indomani del provvedimento, con buona pace degli antesignani di Rudolph Giuliani. L’etichetta di “stranieri nemici” rimase comunque fermamente incollata su tutti i giapponesi e i tedeschi non naturalizzati compresi, per ironia della sorte, molti rifugiati dalla Germania nazionalsocialista.
Di queste vicende, gli storici hanno iniziato, sul finire degli anni Settanta, ad occuparsene blandamente, ma le ricerche, viziate dalle logiche della guerra fredda, non sono mai state condotte con la profondità necessaria.
Molti anni sono passati dal crollo del muro di Berlino, e dal dissolvimento dell’URSS, eppure queste logiche non sembrano sparire, così come molti altri orpelli, residui inutili di quell’epoca, che ancora siamo costretti a sopportare. Finché la ricerca storica risulterà viziata da queste distorsioni, le vere attività di quei centri, pallidi antenati dell’odierna prigione di Guantanamo, non verranno allo scoperto, ed una nuova pagina riguardante i crimini di guerra dei vincitori resterà sottratta al libro della storia universale.