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Per una nuova radicalità anticapitalista.Né rossi né bruni: una proposta alle minoranze antisistema

di Marino Badiale* - 06/09/2007

 

(Né rossi né bruni: una proposta politico-culturale alle minoranze antisistema)

 

 

 

1. Introduzione.

Il mondo contemporaneo sembra andare nella direzione di una profonda crisi di civiltà. Gli sviluppi degli ultimi decenni ci parlano di una realtà naturale resa sempre più velenosa e pericolosa per gli esseri umani, di una realtà politica internazionale dominata da guerre e violenze, di società nazionali sempre più disgregate sul piano economico e sociale. Anche il rapido sviluppo economico di importanti paesi, che viene portato come esempio positivo, mostra a ben vedere un volto poco rassicurante in termini di degrado ecologico e conflitti per il controllo delle risorse.

Tutti questi elementi ci fanno pensare che sia ragionevole la tesi di Jared Diamond, quando, riflettendo su esempi storici di crisi di civiltà, ipotizza per il nostro mondo non “uno scenario apocalittico, con l’estinzione della razza umana e il catastrofico collasso della civiltà industriale”, ma piuttosto “un futuro caratterizzato da standard di vita significativamente inferiori a quelli odierni, da rischi cronicamente superiori e dalla crisi di quelli che consideriamo alcuni dei nostri valori-chiave”[1].

In questo contesto, le tradizionali contrapposizioni politiche, che nei paesi occidentali si sono sedimentate attorno a quella, fondamentale, di destra e sinistra, appaiono ormai inutili e prive di significato. I ceti politici, di destra, di centro e di sinistra, che si alternano al governo dei paesi occidentali, si contrappongono su questioni di carattere limitato e su giochi di immagine, ma non esprimono in alcun modo idee diverse sulla direzione in cui si muovono le nostre società. Non sanno o non vogliono far nulla per contrastare realmente la crisi di civiltà verso la quale ci stiamo muovendo, e rappresentano solo un ceto di amministratori ben pagati dell’esistente, incapaci di concepire il mutamento profondo che appare necessario.

Questo saggio è stato scritto a partire dalla convinzione che contrastare la crisi di civiltà verso la quale ci stiamo dirigendo implichi la critica drastica dell’organizzazione sociale ed economica capitalistica che si è ormai estesa all’intero pianeta, e che, di conseguenza, sia vitale oggi far nascere un’area sociale di radicale opposizione culturale e politica al capitalismo e all’imperialismo. Si tratta di una posizione che nell’immediato è ultraminoritaria, ma che, se adeguatamente sviluppata, ha la possibilità di aggregare larghe fasce della popolazione, in considerazione del lento peggioramento della qualità della vita cui stiamo assistendo, e che si accentuerà in futuro. Uno dei possibili punti di partenza di una aggregazione sociale e culturale anticapitalistica è rappresentato dalle minoranze che già adesso si esprimono in termini di anticapitalismo e antimperialismo. Si tratta dei piccoli gruppi dell’estremismo di destra e di sinistra. Questo saggio rappresenta una proposta politico-culturale rivolta a tali minoranze, nella prospettiva della nascita di un’area di opposizione anticapitalista che possa incidere sul piano culturale e in prospettiva sul piano politico. 

In questo saggio tenteremo per prima cosa una critica della contrapposizione fra estremismo di destra ed estremismo di sinistra. Si tratta di una contrapposizione che è espressione della contrapposizione di fascismo e antifascismo, fondamentale nel mondo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Cercheremo di mostrare come tale contrapposizione si sia ormai esaurita. In seguito porteremo alcuni argomenti a favore della tesi che la risposta a tale situazione (tendenziale crisi di civiltà, esaurimento della contrapposizione fascismo/antifascismo) non sia quella di alleanze “rossobrune” fra estrema destra ed estrema sinistra, ma piuttosto quella di un dissolvimento delle contrapposte identità politiche e della nascita di una nuova identità anticapitalista, non più definibile in termini delle contrapposizioni di destra e sinistra, fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo.

 

 

 

2. Fine dell’antifascismo.

La Resistenza antifascista rappresenta oggi una fonte di ispirazione morale e culturale, ma non ha più alcuna attualità nella definizione di concreti obiettivi politici. Il motivo è semplicissimo: l’antifascismo è definito dall’essere opposizione e contrasto al fascismo. Ma oggi non c’è nessun fascismo cui opporsi. Questo è un semplice dato di realtà, sul quale ci sarebbe in linea di principio poco da dire. Poiché però tale affermazione contrasta un sentire diffuso a sinistra, conviene approfondire la questione.

Innanzitutto una precisazione: dicendo che non c’è alcun fascismo da contrastare non si vuol dire che non esistano individui che si definiscono fascisti, o che non esistano partiti e movimenti che al fascismo fanno riferimento, più o meno esplicito. Si intende piuttosto dire che il fascismo non esiste sul piano della realtà concreta, della lotta politica per il potere reale nelle nostre società occidentali. Fascismi e fascisti sono realtà ultraminoritarie, residuali, di nessuna importanza sul piano politico. E non c’è nessun indizio che faccia pensare che, in tempi ragionevoli, essi possano uscire da questa condizione e ridiventare una forza politica effettiva.

La nostra tesi è che non c’è oggi nessun “pericolo fascista” contro il quale debba mobilitarsi l’antifascismo. Ci sono, certo, nella realtà contemporanea dei paesi occidentali, vari tipi di fenomeni che possono ricordare alla lontana alcuni aspetti fenomenologici del fascismo, come la crescita di forme di razzismo (diretto principalmente contro gli immigrati) o la caduta, nell’opinione pubblica occidentale, del tabù contro la guerra di aggressione. Ma si tratta di cose ben diverse dal fascismo, che possono essere accomunate ad esso solo per la pessima abitudine, un tempo diffusa a sinistra, di chiamare fascismo i più diversi tipi di violenza politica. Il fascismo storicamente esistito è infatti espressione di una violenza di massa esercitata dai ceti medi contro un movimento di sinistra delle classi subalterne, e sua condizione storica irrinunciabile è una grande omogeneità culturale dei ceti medi, che tradizionalmente si esprimeva in una cultura conservatrice, nazionalista, religiosa, patriarcale. Mancano oggi entrambe queste condizioni, che si avevano invece nell’Italia dei primi anni Venti e nella Germania dei primi anni Trenta. Da una parte le classi inferiori non esprimono nessun movimento che possa mettere in crisi l’attuale struttura economica e sociale, dall’altra l’evoluzione sociale ha cancellato, da molto tempo, ogni omogeneità culturale dei ceti medi, al cui interno si possono trovare oggi i valori più diversi e conflittuali.

Mancano così al fascismo sia la sua base sociale e culturale, che era rappresentata dai ceti medi conservatori, sia il sostegno dei ceti dominanti, che sono disposti ad appoggiare il fascismo di fronte alla sfida lanciata da un movimento di sinistra in grado di mettere in questione le fondamentali strutture sociali ed economiche. E’ vero che siamo in presenza di un lento peggioramento delle condizioni di vita di molte persone, ma in mancanza di movimenti politici che cerchino seriamente di combattere il capitalismo odierno, gli attuali ceti dirigenti non hanno nulla da temere, e possono continuare a gestire la situazione, facendo pagare il costo delle crisi agli strati subalterni senza ricorrere al pericoloso aiuto del fascismo. Detto in maniera più chiara: oggi i ceti dirigenti capitalistici non hanno nessun bisogno di un Mussolini (Benito), avendo già a loro disposizione Prodi e Berlusconi, Fini e D’Alema, Veltroni e Casini, Bertinotti e Bossi, Diliberto e Mussolini (Alessandra). Il circo politico-mediatico abbonda di servi variamente colorati, disposti a gestire la realtà sociale in modo da non disturbare gli affari dei potenti. Se questa situazione dovesse cambiare, in un futuro adesso imprevedibile, la reazione delle classi dominanti non sarebbe comunque il ricorso al fascismo, per il quale manca, come abbiamo detto, la base sociale e culturale.

 

 

 

3. Riti identitari.

Nel seguito di questo saggio approfondiremo queste analisi, e cercheremo di delineare almeno le linee generali di una proposta politico-culturale che tenga conto delle novità storiche che dobbiamo fronteggiare. Prima di fare questo, vogliamo in questo paragrafo criticare almeno alcuni degli aspetti più chiaramente sbagliati del modo in cui l’estrema sinistra si rapporta all’estrema destra. E per prima cosa occorre criticare con la massima chiarezza e decisione quello che viene chiamato, nel gergo dell’estrema sinistra, “antifascismo militante”. Si tratta della scelta politica di contrastare in tutti i modi le manifestazioni pubbliche dell’estrema destra: sia con pressioni sulle autorità locali, sia con contromanifestazioni che degenerano facilmente nello scontro di piazza. Se è chiaro quanto abbiamo fin qui detto, appare evidente come questa scelta di contrasto totale, di “tolleranza zero”, appaia completamente stupida. La destra radicale è oggi una realtà ultraminoritaria, di nessuna rilevanza politica, le sue manifestazioni portano in piazza poche decine o poche centinaia di persone, e non si vedono segnali che questa situazione di fatto possa cambiare in futuro[2]. Queste considerazioni di per sé dovrebbero far nascere forti sospetti verso la posizione di chi ritiene accettabile lo scontro di piazza per impedire iniziative di nessuna rilevanza politica. Ma c’è di più. C’è il fatto che mentre l’estrema sinistra si balocca con l’antifascismo militante, i governi di centrosinistra e le forze politiche che li sostengono, compresa la cosiddetta “sinistra radicale”, accettano di essere i gestori di politiche economiche, sociali, militari, devastanti per i ceti subalterni del nostro paese. I governi di centrosinistra accettano o favoriscono la distruzione dello stato sociale, la precarizzazione del lavoro, la riduzione della politica ad affare privato di una casta di privilegiati, non fanno nulla per contrastare il predominio della criminalità organizzata, collaborano alle aggressioni militari Usa, sono corrivi verso la politica dello Stato sionista. Ma le varie realtà che sostengono la politica dell’antifascismo militante (centri sociali, gruppetti vari di estrema sinistra) ritengono in generale possibile mantenere aperto un canale di rapporti, magari conflittuali, con i rappresentanti delle forze della sinistra (moderata o radicale), che sostengono questi governi. Appare così in massima evidenza il carattere onirico, completamente slegato dalla realtà, della politica dell’antifascismo militante. Infatti, nella realtà succede che precise scelte politiche da parte dei vari partiti di sinistra portano a conseguenze reali e concrete, conseguenze che disegnano una realtà sociale totalmente contraria a quegli ideali che l’estrema sinistra dice di avere; nella realtà succede anche che esistono piccoli movimenti di estrema destra di nessuna importanza e nessuna rilevanza. Se questa è la realtà, è evidente quale siano le scelte politiche razionali, per chi propugni gli ideali che l’estrema sinistra dice di avere: rottura netta e definitiva con tutte le forze politiche che sostengono i governi di centrosinistra, opposizione intransigente a tali governi, indifferenza assoluta verso le insignificanti realtà politiche di estrema destra. Ma non è questa la politica dei sostenitori dell’antifascismo militante. Ne concludiamo che l’antifascismo militante è una politica completamente slegata dalla realtà, completamente onirica e irrazionale. Resterebbe da capire a quali impulsi risponda. Detto in breve, esso sembra in sostanza una conseguenza del fatto che per la sinistra, moderata, radicale o estrema, conta molto di più l’appartenenza della verità e della realtà. La sinistra, anche estrema, ritiene possibile discutere con D’Alema ma non con l’estrema destra perché in sostanza D’Alema, indipendentemente da quello che fa, appartiene alla “nostra tribù”, mentre l’estrema destra è per tradizione la tribù nemica. Le manifestazioni dell’antifascismo militante, che arrivano agli scontri di piazza per impedire un raduno di qualche decina o qualche centinaio di fascisti privi di qualsiasi peso politico, sono in sostanza riti tribali nei quali la tribù ribadisce la propria identità tramite la rappresentazione spettacolare dell’ostilità verso la tribù avversaria[3].

Un altro aspetto di questa politica antifascista da criticare con fermezza è l’incapacità, da parte dell’estrema sinistra, di accettare un dialogo intellettuale con gli intellettuali dell’estrema destra, o provenienti da quell’area. Stiamo parlando adesso, si badi bene, di dialogo e confronto intellettuali, non di alleanze politiche. Dovrebbe essere ovvio che il dialogo e il dibattito intellettuali si fanno, in linea di principio, con tutti. Nel caso dell’estrema destra, o di persone provenienti da quell’area, gioca a favore di questo dialogo il fatto che su molti temi c’è una evidente assonanza fra le posizioni apparentemente contrapposte: critica dell’imperialismo Usa, critica del capitalismo e del modello umano che esso propone, antisionismo, ecologismo: su tutti questi temi ci sono affinità fra settori dell’estrema destra, o persone provenienti da tale area, e settori dell’estrema sinistra, affinità che suggeriscono come un confronto e un dialogo intellettuali potrebbero avere qualche utilità. L’estrema sinistra appare invece totalmente chiusa rispetto a un dialogo di questo tipo. Questa chiusura è tanto più incomprensibile quando è rivolta verso intellettuali che, pur provenendo dalla destra radicale, hanno da tempo dichiarato il proprio superamento di quella appartenenza. Molto spesso intellettuali di questo tipo (come Marco Tarchi o Alain de Benoist) vengono criticati non per quello che dicono ma perché si suppone un loro essere “di destra” a prescindere dalle loro prese di posizione pubbliche, come se queste ultime rappresentassero una specie di inganno.

Cerchiamo adesso di capire quale sia l’errore in queste prese di posizione. Si tratta di una profonda incomprensione di cosa sia una discussione razionale. In una discussione razionale si confrontano argomenti, non persone. Si discute della validità di una tesi, degli argomenti che la sostengono e di quelli che la combattono, non di cosa pensano “veramente” le persone che esprimono quelle tesi e quegli argomenti. La persone, i singoli individui, nella discussione razionale esistono solo come individui che esprimono argomenti. Per dirlo nella maniera più chiara possibile: in una discussione razionale, ognuno è quello che dice di essere.

Facciamo un esempio. E’ noto che la teoria cosmologica oggi più accreditata è quella del big bang, ed è noto che in passato era stata avanzata una teoria alternativa, quella dello stato stazionario. Tale teoria è stata abbandonata di fronte all’evoluzione delle scoperte empiriche e delle analisi teoriche che portavano argomenti a favore della teoria del big bang. Possiamo immaginare convegni scientifici nei quali i sostenitori delle due teorie si danno battaglia, e nei quali, col passare degli anni, le voci a sostegno della teoria dello stato stazionario diventano sempre meno numerose. Immaginiamo ora un convegno di astrofisica nel quale l’ultimo grande sostenitore della teoria dello stato stazionario, il professor X, prende la parola per dichiarare che la mole di dati sperimentali a favore della teoria del big bang, come pure la difficoltà di inquadrarli sul piano teorico all’interno della teoria dello stato stazionario, lo hanno convinto ad abbandonare quest’ultima per abbracciare la prima. Quale sarebbe la reazione della comunità degli studiosi? E’ chiaro che vi possono essere reazioni diverse: qualcuno dirà “finalmente un grande scienziato come il professor X si è convinto della verità delle nostre teorie e ci aiuterà a svilupparle”, qualcun altro penserà “finalmente il vecchio rimbambito ha capito di aver detto un mucchio di cavolate, meglio tardi che mai”. E’ però assolutamente certo che nessuno farà mai un discorso di questo genere: “attenzione perché il professor X ha detto di aver cambiato idea ma in realtà questo non è vero, la sua è solo una manovra per infiltrarsi nelle file dei sostenitori del big bang per qualche sua oscura manovra”. Una reazione del genere è assolutamente impensabile: se il professor X dichiara di abbracciare la teoria del big bang, non c’è assolutamente altro che deve fare, per essere considerato un sostenitore della teoria del big bang. Non deve portare nessun’altra prova: in un dibattito razionale ognuno è quello che dice di essere. Ed è lo stesso in un dibattito razionale sulla politica: ognuno è quello che dice di essere, è fascista chi dice di esserlo, cioè chi porta argomenti a favore del fascismo, così come è comunista o liberale, nazionalista o antisemita chi dice di esserlo.

E tutto questo è legato alla natura profonda del lavoro intellettuale, che è lavoro di pensiero e parola. L’azione di un intellettuale consiste nelle sue parole. Un intellettuale studia un problema, ci ragiona, arriva a delle conclusioni, le esprime con scritti e discorsi, e spera così di convincere qualcuno. Se ci riesce, è questa la sua azione. Tutta l’azione dell’intellettuale consiste nell’opera di convinzione tramite la parola. L’azione dell’intellettuale, in quanto tale, è tutta pubblica. Non c’è nulla di nascosto. Perciò se un intellettuale afferma pubblicamente, in scritti e discorsi, di aver abbandonato la destra, egli non è più di destra, e non deve portare nessun’altra prova. In un dibattito intellettuale, ognuno è quello che dice di essere.

 

 

 

4. Il capitalismo assoluto.

L’argomentazione che abbiamo svolto nel secondo paragrafo ci serviva a mostrare come una delle coppie tradizionali attorno alle qualli si è organizzato il discorso della politica nel secondo dopoguerra, appunto quella fascismo/antifascismo, sia inutile e vuota, almeno nell’attuale fase storica. Abbiamo altrove argomentato sullo svuotamento di altre opposizioni di questo tipo, come quella destra/sinistra[4], o quella comunismo/anticomunismo[5].

E’ chiaro che l’esaurimento di queste categorie apre uno spazio a varie proposte politiche e culturali. Una di queste è rappresentata dalle alleanze “rossobrune”: una volta che l’opposizione fascismo/antifascismo perde di significato, può avere senso tentare un’alleanza fra destra e sinistra estreme, basandosi su alcuni temi comuni (anticapitalismo, antimperialismo, antisionismo). Considero completamente sbagliata questa proposta. Nel resto di questo saggio intendo offrire alcune idee generali per una proposta completamente diversa.

Il punto di partenza di una nuova proposta politico-culturale deve naturalmente consistere in una visione sintetica dei caratteri fondamentali dell’attuale fase storica. La tesi fondamentale alla base di questo saggio consiste nel caratterizzare l’attuale fase storica come “capitalismo assoluto”. Con tale espressione s’intende il fatto che, alla fine del XX secolo, il capitalismo è penetrato ormai in ogni angolo e ogni poro della società, tutti piegandoli alla propria logica economica. Il capitalismo contemporaneo è assoluto perchè la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni. L’azienda, cioè l’istituzione che promuove la produzione e la circolazione delle merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l’alfa  e l’omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di  conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l’ospedale, persino la scuola, e persino l’intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l’ “azienda-Italia”. La logica puramente contabile dei ricavi monetari da massimizzare e dei costi monetari da minimizzare, propria dell’azienda, diventa così il criterio regolatore di ogni ambito della vita associata, generando un inedito totalitarismo, non della politica ma dell’economia, dell’economia autoreferenziale del plusvalore.

Questa inedita situazione storica spinge il nostro mondo verso quella crisi di civiltà di cui parlavamo all’inizio. Asservire ogni ambito della società, e la natura stessa, alla logica della merce e del profitto significa ledere in modo gravissimo natura e società. Questa nuova realtà colpisce al cuore i fondamenti stessi della civiltà occidentale.

Con “civiltà occidentale” intendiamo in sostanza la civiltà borghese moderna. Essa è la civiltà che elabora alcuni valori universali (i diritti individuali, la libertà e la sicurezza personali, la ricerca personale del vero) e alcune istituzioni nelle quali incarnare e far vivere questi diritti (lo Stato-nazione, l’istruzione pubblica), mettendo al centro di questa complessa costruzione la nuova realtà dell’economia capitalistica. Il rapporto fra borghesia, con i suoi valori e la sua cultura, e capitalismo, non è però così semplice e lineare come pensano i critici di entrambi. Se è vero che la borghesia è la classe sociale dominante nei paesi ad economia capitalistica, se è vero che la sua azione storica è quella di favorire lo sviluppo di tale economia, è anche vero che i valori universali di cui la cultura borghese si fa carico pongono dei limiti al dispiegamento universale della logica del profitto. Per fare solo due esempi, la sfera dei rapporti familiari, e la sfera della cultura e dell’istruzione, sono pensate nel mondo borghese classico come relativamente autonome e indipendenti rispetto alla sfera dell’economia e del profitto (anche se non in conflitto con queste ultime, s’intende). E questa autonomia e indipendenza non sono un’aspirazione ideale, ma un fatto storico concreto. Inoltre, nelle coscienze più avanzate della borghesia si fa presto strada la percezione di come la logica del capitalismo lasciata a se stessa finisca per confliggere con i valori proclamati dalla borghesia stessa, e questa coscienza porta al fiorire delle correnti riformiste che cambieranno il volto dei paesi occidentali negli anni che seguono la fine della Seconda Guerra Mondiale. La fusione fra i valori liberali classici e quelli “social-riformisti” è alla base degli aspetti più validi della civiltà borghese moderna, sintetizzati per esempio nelle “quattro libertà” di un famoso discorso di Roosevelt, in seguito ripreso nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

In sostanza, il mondo borghese vive in un equilibrio instabile fra sviluppo dell’economia capitalistica e sviluppo di valori universali[6].

La nostra tesi fondamentale è che questo equilibrio si è definitivamente rotto in tempi recenti, e lo sviluppo del capitalismo assoluto si pone oggi in radicale contrasto con i valori universali che la borghesia ha elaborato in passato. La logica di sviluppo dell’economia del plusvalore porta, come abbiamo detto,  ad invadere ogni ambito della vita sociale, piegandoli tutti all’esigenza del profitto. Società e natura diventano variabili dipendenti. Questo totalitarismo dell’economia capitalistica non è più borghese perché distrugge alcuni degli aspetti fondamentali della cultura borghese, e in questo modo distrugge la stessa borghesia, che è una classe definita anche dalla sua tradizione culturale e non solo dal suo ruolo dirigente nel modo di produzione capitalistico. L’attacco alle realizzazioni migliori della civiltà borghese è uno degli aspetti fondamentali del nostro tempo. Il processo di distruzione delle conquiste di tipo socialdemocratico è ben avviato in tutti i paesi occidentali. Le stesse garanzie liberali sono poste in questione dagli sviluppi della “guerra al terrorismo” portata avanti dagli USA. Questi fenomeni appaiono una conferma delle parole di J.Diamond citate all’inizio, che prospettano “un futuro caratterizzato da standard di vita significativamente inferiori a quelli odierni” (per l’abbandono delle conquiste di tipo socialdemocratico ottenute nel secondo dopogeurra) e una “crisi di quelli che consideriamo alcuni dei nostri valori-chiave” (per l’abbandono delle garanzie della libertà personale nella “guerra al terrorismo”).

Combattere la crisi di civiltà verso cui il nostro mondo si sta avviando significa dunque combattere contro il capitalismo assoluto e la sua logica totalitaria.

Naturalmente, una lotta politica deve essere fatta contro delle realtà politiche, e il capitalismo assoluto non è una realtà direttamente politica ma si situa piuttosto sul piano socioeconomico. Per dispiegare una proposta politica occorre individuare le realtà politiche che nel mondo attuale rappresentano la minaccia alla civiltà.

Per orientarci, ripensiamo alla minaccia rappresentata alla metà del Novecento dagli Stati nazifascisti, in particolare dalla Germania: uno Stato fascista di grandi dimensioni, industrialmente e tecnologicamente avanzato, potentemente armato, guidato da un lucido e coerente disegno di dominio geopolitico, deciso a portare la guerra in ogni angolo del pianeta per realizzare le proprie mire strategiche, motivato ideologicamente dalla convinzione della propria superiorità culturale e quindi capace di usare ogni mezzo, anche il più inumano, nella repressione di chi a tali mire si opponga. Questo è stata la Germania nazista, e il pericolo che essa ha rappresentato si è concretizzato nella immane carneficina della Seconda Guerra Mondiale.

Nessuno Stato attualmente esistente corrisponde a questa descrizione. Esiste però uno Stato che ci arriva abbastanza vicino. Basta infatti togliere a quella descrizione l’aggettivo “fascista”. Rileggiamola dopo questa modifica: uno Stato di grandi dimensioni, industrialmente e tecnologicamente avanzato, potentemente armato, guidato da un lucido e coerente disegno di dominio geopolitico, deciso a portare la guerra in ogni angolo del pianeta per realizzare le proprie mire strategiche, motivato ideologicamente dalla convinzione della propria superiorità culturale e quindi capace di usare ogni mezzo, anche il più inumano, nella repressione di chi a tali mire si opponga.

Si tratta di una buona descrizione della realtà attuale degli Stati Uniti d’America. Gli Stati Uniti d’America rappresentano nel mondo contemporaneo un pericolo per l’umanità analogo a quello rappresentato dalla Germania nazista alla metà del Novecento. E rappresentano anche il paese capitalista che con più forza e determinazione agisce per una sempre maggiore estensione dei rapporti sociali capitalistici. Gli USA sono dunque, sul piano della realtà politica, l’avanguardia delle forze che spingono il nostro mondo alla rovina, e devono quindi essere combattuti come i nemici del genere umano.

Si può osservare come questa inedita situazione storica sia il vero fondamento dell’esaurimento della categoria di antifascismo. Non c’è oggi nessuno spazio politico per l’antifascismo non solo perché non c’è all’orizzonte nessun “pericolo fascista”, ma soprattutto perché il pericolo per l’umanità, analogo a quello rappresentato dal nazifascismo alla metà del Novecento, è oggi rappresentato da una grande potenza che fascista non è. L’antifascismo ha rappresentato la risposta politica, culturale, morale alla sfida nazifascista. In particolare, la struttura della tipica “alleanza antifascista” (moderati, liberali, cristiani assieme a socialisti e comunisti) era una conseguenza ovvia della natura del pericolo da combattere. Oggi siamo in presenza di un pericolo completamente diverso, di una sfida completamente diversa, e la risposta deve essere diversa. In particolare, è ovvio che deve essere diversa la natura delle alleanze politiche e culturali necessarie per combattere l’attuale nemico.

 

 

 

5. In difesa della civiltà occidentale.

Abbiamo detto che il capitalismo assoluto, con la sua espressione politico-militare rappresentato oggi dall’imperialismo USA, tende a distruggere alcuni aspetti fondamentali della civiltà occidentale.

Se proviamo a indicare alcuni dei contributi di valore universale della civiltà occidentale, possiamo ricordare, come abbiamo fatto sopra, da una parte le conquiste di tipo più strettamente “liberale” (libertà di pensiero e di parola, libertà religiosa, sicurezza della persona, garanzie di una magistratura indipendente dal potere politico, sovranità della legge), dall’altra  quelle di tipo “socialdemocratico” (assistenza sanitaria, pensioni, istruzione pubblica, diritti del lavoro). Ora, nella configurazione economica e politica del mondo contemporaneo vediamo venire meno entrambi i tipi di conquiste.

E’ stato da più parti osservato che la cosiddetta “guerra al terrorismo” sta mettendo in questione i fondamenti dello Stato di diritto, una delle grandi conquiste della civiltà occidentale[7]. A nostro avviso, non si tratta di un momento passeggero. La crisi dello Stato di diritto, il venir meno di alcuni diritti fondamentali degli individui, è un aspetto costitutivo della realtà attuale: il progetto Usa di controllo globale delle risorse del pianeta non può che suscitare un rifiuto altrettanto globale, per combattere il quale, nell’epoca di internet e degli spostamenti facili, non è possibile farsi fermare da cose come l’habeas corpus.

Allo stesso modo, la fine del Welfare State è una conseguenza necessaria della nuova realtà economica e sociale che chiamiamo globalizzazione o neoliberismo, come ci ripetono da anni tutti i sostenitori della bontà della globalizzazione stessa. Non possiamo più avere diritti e garanzie, ci viene detto, perché essi sono incompatibili con la fase attuale del capitalismo.  La rete di sicurezze e garanzie del Welfare State è un ostacolo alla competitività di un paese, e nell’era della globalizzazione la competitività è tutto.

Questa situazione ci porta in modo naturale alla seguente proposta: il fondamento di una nuova radicalità anticapitalista è rappresentato oggi dalla difesa intransigente dei valori fondamentali della civiltà occidentale, quali si trovano condensati in testi come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Costituzione della Repubblica Italiana.

Vi sono diversi argomenti a favore di questa proposta. Vi sono innanzitutto argomenti pratici. Assumere la difesa dei diritti, sia “liberali” sia “socialdemocratici”, come fondamento dell’anticapitalismo, rappresenta l’unica possibilità per far uscire l’anticapitalismo dalla sua attuale condizione ultraminoritaria. Mentre la grande massa della popolazione non seguirà mai, in questa fase storica, chi propone il comunismo o il comunitarismo, è almeno pensabile che possa seguire chi propone di difendere la sanità pubblica o il diritto di non essere messi in carcere senza prove. Se questo è l’aspetto pratico, il punto decisivo da capire è che sostenere queste richieste ha oggi una valenza anticapitalista molto maggiore del comunismo o del comunitarismo: il sistema sanitario pubblico o l’habeas corpus rappresentano in questa fase delle “incompatibilità del capitale”, rappresentano ciò che deve essere abbattuto perché si possa dispiegare la logica del capitalismo assoluto. E’ per questo che non coglie nel segno la prevedibile obiezione di chi osserverà che queste sono tipiche richieste “riformiste”, e che il riformismo (nel suo senso proprio) non ha oggi alcuno spazio. La risposta a questa obiezione è: “appunto per questo”. Appunto perché si tratta di richieste incompatibili con l’attuale capitalismo, e d’altra parte sono comprensibili a tutti, appunto per questo il sostenerle ha una valenza anticapitalistica impareggiabile.

Naturalmente questo non vuol dire che qualsiasi richiesta incompatibile con l’attuale capitalismo sia da sostenere. Sono da sostenere quelle richieste che ci aiutano a spezzare la presa soffocante del capitalismo assoluto, la sua tendenza a piegare alla logica del profitto e della merce ogni ambito della società. La proposta di difendere i valori fondamentali della civiltà occidentale non deve essere intesa come un tentativo di ritorno ai tempi felici del consumismo spensierato. Si tratta invece di individuare gli ambiti sociali nei quali questo tipo di richieste renda possibile spezzare la logica del capitalismo assoluto. In una situazione, per ora inimmaginabile, nella quale sia possibile indirizzare la politica di un paese in senso anticapitalistico, il fatto che un ambito sociale sfugga alla logica capitalistica porterà ovviamente a una serie di contraccolpi, visto che nel frattempo la stessa logica continuerà a dominare la totalità sociale. Questi contraccolpi andranno fronteggiati continuando nel tentativo di sottrarre altri ambiti sociali alla logica del profitto, questo tentativo indurrà altri contraccolpi e questo insieme di azioni e reazioni rappresenterà un percorso di fuoriuscita dall’attuale dominio del capitalismo assoluto, percorso che si costruirà in assenza di un progetto precostituito di nuova società.

Sostenere, contro il capitalismo assoluto, alcune delle conquiste raggiunte dalla civiltà occidentale non significa dunque tornare alla fase “socialdemocratica” vissuta dai paesi occidentali nel secondo dopoguerra, ma usare i valori delle civiltà occidentale come leve per scardinare la logica del capitalismo assoluto.

Questo ci sembra l’unica possibilità di pensare ad un cambiamento nella direzione che il mondo contemporaneo ha preso. Si tratta naturalmente di un processo per il quale al momento non esistono le condizioni di avvio. E’ però almeno pensabile che le prime avvisaglie della crisi di civiltà verso la quale ci stiamo avviando possano cambiare le attuali condizioni, creando un’opportunità storica che oggi non è data.

Queste considerazioni ci portano all’altro gruppo di argomenti a favore della nostra proposta, che sono argomenti di tipo teorico. Ci sembra infatti possibile sostenere che non c’è in sostanza, nella situazione attuale, altra base teorica effettiva per l’anticapitalismo. Le immagini di società alternative, comuniste o tradizionaliste, si riducono a nulla, a vuoto. Questo non è casuale ma ha una motivo molto serio. Abbiamo infatti detto che ciò che contraddistingue l’attuale capitalismo assoluto è il suo penetrare in ogni angolo della totalità sociale. Esso è ormai penetrato dentro le stesse modalità di formazione antropologica degli individui. E’ la stessa persona umana che oggi è plasmata dalle dinamiche del plusvalore. Questa inedita realtà non è ancora stata adeguatamente pensata[8], ma si possono capire bene alcune sue conseguenze. Se il capitalismo assoluto si pone come unica realtà, che plasma la stessa antropologia, ogni immagine di una realtà alternativa (comunista o comunitaria) non potrà che sbiadire, non potrà che ridursi a un’idea vacua e insulsa. E’ esattamente quello che succede. Al contrario, i principi e i valori della civiltà occidentale sono realtà ancora ben vive e presenti, per quanto sotto attacco, e per questo rappresentano una vera base di resistenza anticapitalistica.

 

 

 

6. Contro l’estremismo.

La proposta politica e culturale che stiamo esponendo si scontra con l’atteggiamento culturale e umano delle attuali minoranze anticapitalistiche. Le persone alle quali ci rivolgiamo si considerano infatti dei rivoluzionari che intendono abbattere la società borghese, e troveranno certo molto strano che ci si appelli a loro per un programma di difesa dei valori della civiltà occidentale, cioè borghese.

Questa impostazione, di estremismo rivoluzionario e quindi di rifiuto dei valori della civiltà occidentale, ci sembra oggi profondamente sbagliata. Un nuovo movimento culturale e politico anticapitalista non dovrà, a nostro avviso, definirsi come estremismo antiborghese. Ci sembra perciò necessaria una critica dell’estremismo.

Il punto di partenza di tale critica è la totale e radicale insignificanza storica dell’attuale estremismo politico anticapitalista (di destra e di sinistra). Nelle nostre società occidentali l’estremismo anticapitalista non conta nulla, non ha mai contato nulla da almeno 40 anni, non c’è nessun elemento per pensare che possa contare qualcosa in tempi ragionevoli.

La radicale insignificanza storica del mondo dell’estremismo è insieme causa ed effetto di una particolare strutturazione culturale e umana che non è difficile da descrivere.

Il mondo dell’estremismo è un mondo di piccole sette chiuse in se stesse, incapaci di comunicare fra di loro e col resto della popolazione. Ciascuna piccola setta si costruisce i propri riferimenti culturali, in genere scegliendo autori in qualche modo laterali, e il proprio linguaggio, che ha la funzione di discriminare fra il piccolo mondo interno alla setta e il resto del genere umano. Gli appartenenti alla setta si dedicano ad un lavoro pseudo-culturale che consiste in sostanza nel rafforzamento dei dogmi fondanti della setta, e ad un lavoro pseudo-politico il cui unico effetto concreto è quello di creare l’illusione di una attività sensata. Sul piano umano, ciò che più colpisce è il fatto che gli adepti del piccolo mondo degli estremismi non sono evidentemente per nulla coinvolti negli ideali che affermano di avere. Se lo fossero, la stridente contraddizione fra i loro ideali e l’appartenenza a piccoli gruppi politici che sono totalmente e manifestamente incapaci di fare alcunché in favore degli ideali, non potrebbe restare celata alle loro coscienze: causerebbe una sofferenza tale da esplodere drammaticamente, e questa esplosione non potrebbe non implicare una radicale distacco critico da tali piccoli gruppi politici. Ma non è questo ciò che avviene nel mondo dell’estremismo. Gli adepti dei piccoli gruppi estremisti sembrano vivere benissimo con la loro pseudo-cultura e la loro pseudo-politica. Il che significa una cosa sola: alla maggioranza delle persone in questi ambiti non importa nulla degli ideali che dicono di avere. Ciò che cercano non è realmente un mondo migliore, ma proprio l’ambiente della setta.

Come dicevamo, non è difficile fare questa descrizione dell’ambiente degli estremismi di destra o di sinistra nei paesi occidentali. Più difficile è capire le cause di questa situazione. Infatti l’estremismo non è sempre stato così. In altri momenti ha rappresentato una forza politica e culturale reale, anche se sempre minoritaria. Il punto è che l’estremismo in altri tempi esprimeva una realtà sociale e culturale viva e presente, era la punta estrema di movimenti sociali, politici, culturali che avevano realtà e consistenza storica. Oggi non è più così. Cosa è successo nel frattempo? E’ successo il fenomeno che abbiamo grossolanamente descritto sopra: il capitalismo ha invaso ogni ambito della vita sociale generando l’inedita realtà che denominiamo capitalismo assoluto, e in questa evoluzione ha spazzato via le basi sociali e culturali degli estremismi anticapitalistici, sia di destra che di sinistra.

Il fatto che oggi il capitalismo si ponga come capitalismo assoluto distrugge ogni illusione che esista una base sociale già data per una politica anticapitalistica. Né il proletariato né la piccola borghesia nazionalistica rappresentano una base di questo tipo. Gli attuali ceti subalterni non esprimono più in nessun modo istanze di oltrepassamento del capitalismo. Allo stesso modo, la novità dell’attuale situazione storica ha fatto emergere i limiti delle tradizioni culturali cui gli estremismi facevano riferimento. In mancanza di una base sociale rivoluzionaria, il marxismo mostra il suo sostanziale nichilismo: se l’essere umano è l’insieme dei rapporti sociali (VI tesi su Feuerbach) e questi rapporti sociali non producono una soggettività rivoluzionaria, il marxista non ha nessuno strumento per la critica del presente. Dall’altra parte, la difficoltà del pensiero di destra nel collegare le analisi culturali e antropologiche con la critica dell’economia politica è alla radice della sua difficoltà a focalizzare la natura dell’avversario, e questa difficoltà è accentuata in una situazione, come l’attuale, in cui è la logica del profitto a penetrare in ogni ambito della società, distorcendone la natura.

Riassumiamo: l’estremismo antiborghese oggi è privo di una base sociale e culturale, produce solo piccole sette insignificanti e attira in maggioranza tipi umani scarsamente interessati agli ideali che proclamano. Se siamo convinti della pericolosità della fase storica che stiamo vivendo, dell’urgenza di mobilitare tutte le forze disponibili per combattere il nemico del genere umano rappresentato dal capitalismo assoluto e dall’imperialismo USA, occorre allora abbandonare definitivamente il mondo dell’estremismo.

Questo abbandono comporta enormi vantaggi, dal punto di vista dell’attività politica pratica. Infatti esso prepara le condizioni per abbandonare la posizione ultraminoritaria dell’anticapitalismo attuale e per attirare larghi strati della popolazione dei paesi industriali avanzati. Si tratta semplicemente di sviluppare e sistematizzare le idee che abbiamo enunciato sopra, quando abbiamo proposto la difesa dello Stato di diritto e delle conquiste del Welfare State come esempi di rivendicazioni anticapitalistiche. Il punto fondamentale è che tali rivendicazioni sono perfettamente comprensibili e condivisibili da molte più persone rispetto agli slogan tipici dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Allo stesso modo, il compito di una forza politica anticapitalista dovrebbe essere oggi non quello di assumere atteggiamenti estremisti ma anzi quello di indicare come i veri estremisti, pericolosi per l’umanità, siano gli attuali ceti dominanti. E infatti, se vogliamo indicare cosa sia l’estremismo, esso andrebbe definito come l’atteggiamento culturale di chi prende un aspetto particolare e delimitato delle realtà sociale, lo pone come assolutamente valido e cerca di imporne la logica alla totalità della realtà sociale. In questo senso, è chiaro che è proprio l’attuale capitalismo assoluto ad apparire estremista, e fautori dell’estremismo sono gli attuali ceti dominanti, che di tale estremismo capitalistico si fanno zelanti fautori o per cecità culturale o per puro e semplice disinteresse verso qualsiasi cosa non abbia a che fare con i propri interessi immediati.

Con la proposta di abbandonare il mondo dell’estremismo intendiamo anche l’abbandono delle identità politiche che vivono in questo mondo. In particolare intendiamo l’abbandono delle identità comunista e fascista. La nostra proposta, contrapposta a quella delle alleanze rossobrune, è quindi che le minoranze anticapitaliste, comuniste e fasciste, abbandonino le loro contrapposte identità politiche, abbandonino lo sterile mondo degli estremismi, e si uniscano in un’opera di salvezza dei fondamentali valori della civiltà occidentale minacciati dalla logica mortifera del capitalismo assoluto. Non un’alleanza rossobruna, ma una nuova identità né rossa né bruna.

Questa proposta non implica la sconfessione delle proprie radici culturali. Al contrario, entro questa nuova identità anticapitalista dovranno confluire gli apporti migliori delle tradizioni culturali cui gli estremismi di destra e di sinistra fanno riferimento. La nostra proposta di dissolvimento delle contrapposte identità si riferisce alle identità politiche, non alle tradizioni culturali.

 

 

 

7. Frammento di una discussione sui fondamenti filosofici.

Una nuova identità anticapitalista va ovviamente costruita su tutti i piani: culturale, filosofico, politico, sociale. Essa può risultare solo da una discussione approfondita su tutti questi piani, e poi naturalmente dal confronto con la realtà storica. Nel resto di questo saggio proverò a fornire qualche schizzo di come questo tipo di discussione potrebbe essere condotta. In particolare in questo paragrafo tenterò di abbozzare una discussione filosofica, quindi non direttamente collegata alle discussioni storico-politiche svolte nel resto del saggio.

Enunciamo tre tesi filosofiche che vorrebbero tentare una sintesi delle contrapposte culture della destra e della sinistra.

i.                    Il Bene è.

ii.                  La vita umana ha senso e valore solo in quanto scelta e testimonianza, quindi manifestazione, del Bene.

iii.                Ogni vita umana è una possibilità permanente di manifestazione del Bene.

 

Per la precisione, la tesi ii. è quella che considero espressione della cultura di destra, la tesi iii. è espressione della cultura di sinistra, la tesi i. è il fondamento delle due successive. Esaminiamole nell’ordine.

 

i. Il Bene è. In questa espressione utilizziamo la distinzione, tipica del lnguaggio filosofico ma inusuale nel linguaggio ordinario, fra essere ed esistere. Il Bene può, in un dato momento storico, non esistere sul piano dell’evidenza empirica, ma continua purtuttavia a essere. Si tratta naturalmente di una formula che ha senso e contenuto solo come punto d’arrivo della riflessione filosofica, non come assioma di partenza. Le varie articolazioni di questa tesi si ricavano dal pensare rigorosamente, come ha cercato di fare l’intera tradizione filosofica occidentale, la nozione di Bene. Dire che il Bene è significa dire che esiste un ordine trascendentale di valori e significati che costituiscono il livello specificamente umano della realtà. L’essere del Bene sta nel suo dare un senso e un valore alla vita umana. Il Bene è realtà trascendentale, condizione universale del manifestarsi della realtà umana come tale[9].

 

ii. L’essere umano vive nella scissione fra l’ordine di valori e significati, che sintetizziamo nell’espressione “il Bene”, e la realtà empirica che non permette la piena realizzazione del Bene. Ciò significa che l’essere umano vive nel continuo sforzo di realizzazione del Bene, ed essendo l’essere umano libero, la sua vita si realizza come libera scelta del Bene (che solo in quanto libera è scelta del Bene autentico). Perché tutto ciò è, in un senso molto lato, di destra”? Perché in questo sono implicite le idee di gerarchia e di autorità. Gerarchia, perché il Bene deve essere liberamente scelto e qualsiasi scelta implica appunto una gerarchia, implica decidere cosa ha valore e cosa non ne ha. Autorità, perché, dato che gli infiniti accidenti dell’esistenza rendono infinitamente diverse le scelte e i destini, le vite umane finiscono per differenziarsi anche e soprattutto nella loro capacità di realizzare e manifestare il Bene. Ma questo significa, contro l’egualitarismo, che in ogni dato momento c’è chi manifesta più e meglio il Bene, e in un mondo sensato questo deve essere riconosciuto in termini di autorità spirituale. Riconoscere e accettare l’autorità spirituale di chi meglio manifesta il Bene è un modo di scegliere il Bene (si noti come qui gerarchia a autorità siano indissolubilmente connesse alla libertà umana).

 

iii. Ma nessuno realizza pienamente il Bene. Nessun individuo, nessuna istituzione, nessuna società. Ognuno, anche il più saggio, deve essere aiutato a correggere i limiti del proprio modo di manifestare il Bene. E’ per questo che la terza tesi appare, anche qui in senso lato, “di sinistra”. Essa implica che ciascuno può aiutare l’altro, e quindi non posso mettermi nella condizione di non ascoltare l’altro (condannandolo alla schiavitù o all’ignoranza, per esempio), perché in tal modo privo me stesso della sua umanità e della sua intelligenza, e rinuncio così alla possibile manifestazione del Bene che egli avrebbe potuto donarmi, aiutandomi a correggere le mie parzialità. E’ questo il lato di eguaglianza fra gli esseri umani che è necessario difendere in una corretta visione filosofica. Inoltre, il variare degli accidenti storici fa sì che una realtà storica che in un determinato periodo manifesta il Bene possa non farlo più in un periodo successivo: essa va allora criticata e superata. E’ questa l’elemento di “progressismo” che deve essere conservato.

 

Se si accetta questa impostazione, sono chiare le critiche che possono essere portate alle contrapposte unilateralità della cultura di destra e di quella di sinistra. La tradizione conservatrice tende a “empiricizzare” il Bene. Tende cioè a identificarlo con istituzioni, culture, tradizioni specifiche e determinate, senza vedere come ogni tradizione abbia il suo modo particolare e determinato di realizzare il Bene ma anche di tradirlo, e come le vicende storiche possano cambiare il senso delle realtà empiriche, trasformando ciò che era Bene in un dato momento in qualcosa che non lo è più. Le posizioni progressiste fanno l’errore opposto, basandosi sulla realtà innegabile di tali mutamenti storici per negare l’idea stessa di Bene, l’idea stessa di un ordine trascendentale di valori che fa da orizzonte di senso alla storia senza essere esso stesso storico. E’ interessante notare che talvolta la cultura di sinistra riesce a commettere entrambi gli errori, negando ogni valore assoluto e allo stesso tempo assolutizzando particolari realtà contingenti (vedi la difesa a oltranza dell’URSS nel dopoguerra). A me sembra che la radice comune di questi due errori simmetrici sia la fuga di fronte alla tragicità della situazione umana. Siamo condannati a cercare il senso della nostra vita in un ordine di valori che sappiamo inattingibile nella sua pienezza. Sappiamo inoltre che ogni realizzazione empirica del Bene che riusciamo a costruire nella nostra vita è destinata, in quanto realizzazione umana, ad essere infranta dalla realtà empirica, dal suo essere irriducibile all’ordine trascendentale dei valori. E’ da questa “fragilità del Bene” che fuggono sia la cultura di destra sia quella di sinistra, la prima illudendosi di trovare il Bene realizzato in una solida e stabile realtà empirica, la seconda negando il Bene stesso per negare alla radice l’angoscia generata dall’impossibilità che il Bene abbia stabilità e permanenza empiriche.