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Leopardi cantore di Arimane è il campione di un satanismo disperato, ma lucido e coerente

di Francesco Lamendola - 16/10/2008

Fra le carte napoletane di Giacomo Leopardi, dopo la morte del grande poeta, venne trovato anche un testo autografo, l'inno Ad Arimane (Ahriman o Angra Mainyu era, nel dualismo zoroastriano, la divinità persiana delle Tenebre; mentre Ormuzd o Ahura Mazda era quella della Luce, impegnati entrambi in una lotta cosmica, che sarebbe terminata col trionfo del secondo).

Fu scritto, forse, a Firenze, nella primavera del 1933 e subito prima del trasferimento a Napoli; appartiene, pertanto, all'ultimo periodo della vita di Leopardi (spentosi nella città partenopea il 14 giugno 1837). Il pubblico lo poté conoscere, per la prima volta, mediante il saggio di Giosué Carducci Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi, pubblicato a Bologna nel 1898.

Benché non rappresenti una novità assoluta nel pensiero del poeta recanatese, in quanto riprende e sviluppa motivi comuni agli ultimi Canti (e specialmente il concetto della intrinseca malvagità di una forza arcana che sta oltre la natura e che domina sul destino dei viventi: cfr. A se stesso, vv, 14-15), indubbiamente questo abbozzo di poesia è impressionante, in quanto vi compare la celebrazione blasfema di una vera e propria religione del Male, dominata da un principio satanico.

 

Vale la pena di riportare il testo leopardiano nella sua interezza, tanto più che è abbastanza breve (da: Leopardi, Canti, a cura di Lucio Felici, Newton Compton Editori, Roma, 1974, 1976, pp. 387-88):

 

AD ARIMANE

 

Re delle cose, autor del mondo, arcana

malvagità, sommo potere e somma

intelligenza, eterno

dator de' mali e reggitor del moto,

io non so se questo ti faccia felice, ma mira e godi ec. contemplando eternam. ec.

Produzione e distruzione ec. per uccidere partorisce ec. sistema del mondo, tutto patimen.  Natura è come un bambino che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: amore.

I selvaggi e le tribù primitive, sotto diverse forme, non riconoscono che te. Ma i popoli civili ec. te con diversi nomi il volgo appella fato, natura e Dio. Ma tu sei Arimane, tu quello che ec.

E il mondo civile t'invoca.

taccio le tempeste, le pesti, ec. tuoi doni, che altro non sai donare. Tu dai gli ardori e i ghiacci.

E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l'opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell'uomo sempre regneranno. L'ardimento e l'inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo, e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec.

Vivi, Arimane e trionfi, e sempre trionferai.

Invidia dagli antichi attribuita agli dèi verso gli uomini.

Animali destinati in cibo. Serpente Boa.  Nume pietoso ec.

Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L'amore? Per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri e del tempo nostro passato ec.?

Io non so se tu ami le lodi o le bestemmie ec. Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec.

Ma io non mi rassegnerò ec.

Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ec. concedimi ch'io non passi il 7° lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggior predicatore ec. L'apostolo della tua religione. Ricompensami. Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de' mali, la morte (non ti chiedo ricchezze ec. non amore, sola causa degna di vivere ec.). Non posso, non posso più della vita.

 

I concetti di fondo, dicevamo, non sono nuovi nella poesia di Leopardi, e se ne trovano tracce anche nelle sue poesie più famose; anzi, si può dire che sono sottesi all'intera sua produzione poetica e all'intera sua visione della realtà.

Quello che, qui, colpisce particolarmente, è che Leopardi, sia pure con sarcasmo e con tono di sfida (con un titanismo, si direbbe, alla rovescia, tanto che lo vediamo scagliare maledizioni contro Arimane), si fa tuttavia banditore e rivendica il ruolo di essere stato il massimo apostolo di una religione del Male.

Egli, cioè, va molto oltre la «semplice» constatazione» che tutto è male e che nulla di bene esiste al mondo (principio, peraltro, ontologicamente insostenibile, come fa notare, e a ragione, Giovanni Papini), già avanzata nello Zibaldone (a cura di F. Flora; Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1953, vol.  II, p. 1.004):

 

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista, è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non vi è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive…

 

A ciascun essere umano dotato di intelligenza e sensibilità deve essersi affacciato alla mente, crediamo, prima o dopo, un pensiero di questo genere. Leopardi ne ha fatto il termine fisso di tutta la sua filosofia e l'argomento privilegiato dalla sua poesia.

Nell'inno Ad Arimane egli si è spinto ancora più in là, e ha compiuto l'ultimo passo che ancora lo separava dall'approdo a una vera e propria religione del Male, di cui egli si riconosce massimo sacerdote, e sia pure fremente e recalcitrante; tanto da domandare ad Arimane la grazia suprema della morte, dal momento che non riesce più a sopportare la vita.

Nessun pensatore del suo tempo - per quanto pessimista, come Schopenhauer - si era mai spinto così lontano su quella medesima strada; e, in verità, pochi - con l'eccezione di Eduard von Hartmann - lo hanno fatto, anche in seguito.

Per trovare una figura d'intellettuale che sia giunto alle stesse conclusioni, bisogna uscire dall'ambito della filosofia e passare in quello della letteratura «gotica» e fantastica: bisogna arrivare fino all'americano Herbert Phillips Lovecraft (del quale ci siamo già specificamente occupati: cfr. il nostro saggio Gli dèi mostruosi venuti dallo spazio: letture e riflessioni sull'opera di H. P. Lovecraft, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice); e, specialmente, del suo ciclo di Cthulhu, un insieme di romanzi e racconti dedicato a delle divinità demoniache che dominarono la Terra in tempi antichissimi e cercano di ritornarvi, attraverso una finestra spazio-temporale aperta, mediante riti blasfemi e innominabili, dai loro occulti adoratori umani.

Quella delineata nell'inno Ad Arimane, si badi, non è semplicemente una forma di adorazione del Diavolo: è la proclamazione che solo il Diavolo esiste, e che la creazione è totalmente e interamente malvagia. Non si tratta né di nichilismo, né di satanismo contrapposto al teismo, ma di un monoteismo diabolico, che esclude qualunque idea di bene dalla faccia del mondo.

Pure, è necessario osservare due cose, prima di trarre conclusioni affrettate.

La prima è che Leopardi riconosce che, in realtà, esiste qualcosa che, se non è il bene, è - per lo meno - una aspirazione verso di esso, là dove domanda allo stesso Arimane: «Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere?». Ma certo si potrebbe rispondere che quelle apparenze di bene sono state poste da Lui al solo scopo di poter meglio illudere e, quindi, tormentare le creature viventi.

Resta però il fatto che Leopardi soffre, e soffre al punto da invocare la morte; e da dove gli verrebbe quella consapevolezza del proprio soffrire, quel desiderio di aver pace e riposo (e sia pure nella morte), se gli uomini non possedessero una sia pur vaga e indistinta aspirazione alla felicità, cioè al bene? Per riconoscere che una cosa è cattiva, bisogna avere la nozione, per quanto imperfetta, del bene. Questo non è un concetto cristiano, ma platonico; ed è difficile confutarlo.

La seconda cosa su cui è giusto fermarsi a riflettere è che Leopardi, nell'inno Ad Arimane, oltre a escludere totalmente l'esistenza di qualunque forma di bene, fa un passo ulteriore e nega, nel modo più radicale, il nucleo della religione cristiana (e, in verità, di qualunque religioni teistica), ossia la possibilità di una redenzione.

La redenzione è il concetto base del cristianesimo.

San Paolo lo ha sostenuto nel modo più esplicito, là dove ha affermato (nella Prima Lettera ai Corinzi,15, 12-29):

 

Noi dunque predichiamo che Cristo è resuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? ma se non c'è resurrezione dai morti, neppure Cristo è resuscitato! E se Cristo non è resuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi, finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che Egli ha resuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non resuscitano, Dio non lo ha resuscitato affatto. Infatti, se i morti non resuscitano, allora neppure Cristo è resuscitato. E se Cristo non è resuscitato, la vostra fede è un'illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti…

 

E, oltre che del cristianesimo, il concetto di redenzione sta alla base di tutte le religioni di salvezza(cfr. il nostro precedente saggio Il concetto cristiano della redenzione tra riparazione della colpa e divinizzazione dell'uomo, sempre sul sito di Arianna Editrice).

Come ha scritto Bernhard Hartmann, nella sua monumentale Teologia dogmatica (titolo originale: Lehrbuch Der Dogmatik, Freiburg, 1932; traduzione italiana a cura di Natale Bussi, Edizioni Paoline, Alba, 1957, vol. 2, p. 9:

 

Ogni religione è religione di redenzione, poiché si prefigge di liberare l'umanità dal male e dalla sofferenza da esso generata. Ora c'è chi fa derivare il male dal capriccio di spiriti maligni, chi dalla materia, chi da un'occulta disposizione divina, chi da un'azione libera colpevole…

 

Viceversa, avere affermato che nulla mai potrà mutare nell'ordinamento (malvagio) del mondo, significa negare nel modo più assoluto la possibilità di una redenzione: significa affermare che il mondo è l'Inferno, e che tale rimarrà nei secoli dei secoli.

Non è possibile concepire una dottrina più spaventosa di questa; e non fa certo meraviglia che Leopardi, in quello stesso testo, chieda al suo Signore (con commovente ma significativa contraddizione) il privilegio di poter morire presto, entro i trentacinque anni. Ricordando il primo canto dell'Inferno di Dante, viene quasi da pensare che Leopardi abbia accarezzato l'idea di scrivere l'anti-Divina Commedia (un po' come, facendo naufragare la barca dei Malavoglia chiamata Provvidenza, sembra che Verga abbia voluto scrivere l'anti-Promessi Sposi; ambizione - se tale è stata - ripresa ai nostri tempi da Sebastiano Vassalli, con La Chimera).

Concezione, dicevamo, spaventosa.

Perfino gli dèi mostruosi di Lovecraft, al confronto, sembrano temo temibili; esistono, infatti, delle tecniche di magia per tenerli a bada, almeno provvisoriamente; per impedir loro di irrompere in mezzo a noi: ma chi mai potrà salvarci dal Male assoluto predicato da Leopardi, se ogni cosa è destinata a permanere eternamente nel proprio stato, senza alcuna sia pur esile speranza di mutamento o di alleggerimento della propria pena?

 

Nel suo saggio Il Diavolo. Appunti per una futura diabologia (Vallecchi Editore, Firenze, 1953, pp. 237-41), Giovanni Papini osservava in proposito:

 

Il vero «cantore di Satana» non è, in Italia, il Carducci, il quale vede in Satana, sotto l'influenza di Michelet, il simbolo della libertà, della scienza, del progresso, cioè un nume benefico, contrapposto al «Geova dei sacerdoti», insomma redentore, divinità buona, propizia, provvida e simpatica. Quello di Carducci non ha nulla a che fare, dunque, col vero Lucifero della tradizione e della teologia cristiana.

Il vero «cantore di Satana», inteso come principio e sovranità del Male, è invece Giacomo Leopardi. In una sua poesia famosa aveva accennato al

 

                                           «brutto poter

         che ascoso a comun danno impera»

 

ma senza avere il coraggio di chiamarlo col suo nome.. Si capiva, però, che quel «brutto poter»era il Diavolo e ch'egli solo regnava, non come antagonista di Dio ma nel posto di unico Dio.

Quasi alla fine della vita, il Leopardi - che alcuni anni prima aveva steso le tracce di alcuni inni cristiani - abbozzò un inno a Satana ma neppur questa volta - forse  per un estremo scrupolo verbale - osò chiamarlo col suo nome ebraico e cristiano e ricorse alla teologia di Zarathustra: lo chiamò Arimane.

Questo compendio della religione satanica del Leopardi non fu mai compiuto e rimase inedito fino al 1898, quando fu pubblicato, insieme ad altri scritti, a cura di una commissione presieduta dal «cantore di Satana».

L'inno ad Arimane, nell'abbozzo che ci è rimasto, non è lungo ma contiene tutti gli elementi del disperato pensiero del Leopardi.

(…)

I concetti son chiari, anche troppo chiari, e si riducono a una succinta e frettolosa esposizione del pessimismo leopardiano: il male trionfa e trionferà sempre,  l'autore e reggitore di un mondo così tetro e infelice non può essere altro che il Dio stesso de Male, cioè, per dirlo alla persiana, Arimane.

Il Leopardi non mutua dallo zoroastrismo che la divinità maligna; non accenna neppure a Ormuzd (o Ahura Mazda), principio luminoso del Bene, e tanto meno al suo finale trionfo, quale appare nell'Avesta.

Il Leopardi fu, a momenti, grandissimo poeta ma fu mediocre e non originale pensatore, come dimostra anche questo suo inno ad Arimane. A kui non viene in mente neppure il problema stesso della resistenza e sopravvivenza del mondo: se tutto fosse ispirato e dominato dal Male, ch'è distruzione e suicidio, come potrebbe esistere ancora la vita? E come potrebbero gli uyomini immaginare e definire e desiderare il bene se tutto l'universo e tutta l'umanità non fossero altro che forme e leggi e azioni del Maligno? Se l'uomo si ribella al male e si lamenta e cerca, quando può, di superarlo e di sconfiggerlo, è segno certo che v'è in lui un'idea, un germe, un seme, un istintoi del Bene.  Lo stesso leopardi inneggia al suo Arimane con profonda amarezza e con dolente sarcasmo: vuol dire che il suo animo non aderisce a quel Male che sarebbe la totale sostanza, il vero dominatore del mondo e degli uomini. L'inno ad Arimane del leopardi è fanciullesco e contraddittorio, come tanti altri suoi tentativi filosofici, ma era necessario ricordarlo perché rappresenta, nella letteratura italiana, l'unica testimonianza d'una teoria teologica del Male assoluto, cioè del Diavolo.

 

Naturalmente l'interpretazione della filosofia di Leopardi da parte di Emanuele Severino è diversa, e si basa sul concetto che le cose sono nulla perché escono dal nulla e al nulla ritornano (cfr. E. Severino, Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi, Rizzoli Editore, Milano, 1997, 2006, p.97).

Quanto al passo dello Zibaldone sopra citato, Severino fa presente (p. 403 sgg.) che lo stesso Leopardi non afferma che l'universo è «il peggiore dei mondi possibili», non vuol essere, cioè, l'anti-Leibniz; ma dichiara che, non essendo umanamente conoscibile il limite del possibile, nessuno può dire se esso sia il migliore o il peggiore.

Ma per Severino, Leopardi è «il più radicale» dei pensatori dell'Occidente, in quanto ha portato all'estremo la convinzione che le cose  vengano dal nulla e tornino al nulla: ossia il concetto del divenire.

Nell'inno Ad Arimane, invece, abbiamo visto che Leopardi nega il divenire nel modo più risoluto, sostenendo l'immutabilità del tutto e il permanere immodificabile del male nel mondo.

E allora?

Forse, Severino ha avuto troppa fretta di «arruolare» Leopardi fra i pensatori del divenire; e, ammesso - e non concesso - che l'idea del divenire sia l'essenza del pensiero occidentale, di promuoverlo a supremo cantore del nichilismo.

Leopardi non è stato un cantore del nulla, ma del Male, e del Male con la M maiuscola; del Male immutabile e irredimibile; del Male che pesa, eterno, su tutte le cose.

Appunto, un cantore del Diavolo.

Un grandissimo, infelicissimo, ma lucido e coerente cantore del Diavolo; e sia pure di una coerenza che non percepisce l'intima contraddittorietà di porre un mondo totalmente dominato dal Male: che, se esistesse, si distruggerebbe da se stesso in un istante.