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Bombacci Nicola. Rivoluzionario… Intervista a Guglielmo Salotti

di a cura di Susanna Dolci - 24/11/2008

 

 

 

Alla fine tragica della sua esistenza Benito Mussolini si ritrovò accanto il caparbio amico di sempre: Nicola Bombacci. Sì proprio lui, l’anziano socialcomunista che per una strana quanto perfida magia, sparirà dalla storia italiana per decenni e decenni. Nicola Bombacci la cui figlia Gea, in un documento personale del 17 luglio 1945, così scriveva: «Riteneva vero tradimento astenersi dalla lotta, in un momento così cruciale per la nostra Patria; eppure gli sarebbe stato non dico facile, ma possibile. Dopo il 25 luglio infatti era rimasto a Roma, tranquillo e sereno, e nessuno pensò a procurargli fastidi di sorta. Rimase a Roma anche dopo l’8 settembre fino al gennaio 1944, quando finalmente cedette alle insistenze giornaliere di alcuni suoi amici personali, uomini non fascisti i quali avendo seguito il governo in Alta Italia lo tempestarono di lettere, di telegrammi e di telefonate, ripetendogli ‘c’è bisogno di gente onesta, c’è bisogno di uomini che possano presentarsi al popolo guardandolo serenamente negli occhi’. E lui che in tutta la vita non aveva avuto che un ideale, migliorare le condizioni materiali, morali e spirituali del popolo, non seppe resistere a questi ripetuti appelli e nel gennaio 1944 si recò in Alta Italia. Io non l’ho visto, ma so perché lo sento, che quel cosiddetto tribunale del popolo che l’ha ucciso giustificando tale atto esecrando con la condanna di super-traditore ha dovuto fucilarlo nella schiena: è stato giusto perché nessuno di quegli uomini era degno, in un momento così supremo, di guardare negli occhi un super galantuomo quale era Nicola Bombacci, mio padre».

 

Sì sempre lui, l’uomo che dalla copertina del volume Nicola Bombacci: un comunista a Salò (Mursia editore) ci contempla dal bianco e nero un po’ sbiadito di una foto dell’altro secolo ed ammicca tra l’ironico e lo smagliante irriverente, pensando già all’altrove dell’azione. A scrivere un nuovo libro sul rivoluzionario gentiluomo ci ha pensato Guglielmo Salotti [nella foto a sinistra], allievo e collaboratore del munifico storico Renzo De Felice. Specializzato sulla storia d’Italia del XX secolo tra le due guerre, dall’impresa fiumana di D’Annunzio al Ventennio fascista ed alla RSI, Salotti collabora a riviste di settore ed ha operato nell’ambito del Ministero degli Esteri. Sempre ed ancora Bombacci, dunque, con la cui folta barba “ci farem gli spazzolini/per lucidare le scarpe/ di Benito Mussolini”, come solevano cantare gli squadristi fascisti tra il 1921 ed il 1922. Bombacci, romagnolo fastidioso per i compagni e gli antagonisti. Traditore per i rossi, scomodo per gli eredi dei neri proprio per quel suo grido in punto di morte con il duce ed i suoi fedeli: “Viva il Socialismo”. Per oltre quarant’anni diede tutto alla causa dei lavoratori. Umile tra gli umili, atipico in tutta la sua splendente quanto gravosa dignità delle povere origini, vuolsi qui di lui ricordare come ben e quanto segue (21 dicembre 1944): «Socializzazione è altruismo, è dignità di lavoro, è benessere, è dirittura politica e morale del lavoratore, purché questi sia onestamente attivo, sollecito nel dovere verso la collettività, doveri consorziati al diritto acquisito, scevro da scorie borghesi di egoismi individuali…. Se sarete egoisti… sarete peggio dei vostri padroni». Il resto lo lasciamo narrare allo stesso autore che ringrazio, qui e di nuovo sentitamente, per la sua signorile disponibilità.

 

 

Prima domanda ma che, in realtà, dovrebbe forse essere l’unica. Chi era Nicola Bombacci, uno dei personaggi più carismatici della storia del Novecento italiano? Ovvero il “social comunista, atipico, eretico, espulso”?

 

Definire Nicola Bombacci uno dei personaggi più carismatici del Novecento italiano mi sembra decisamente eccessivo. Più realistico parlare di lui come di un esponente di primo piano del socialismo massimalista italiano, tra i fondatori, a Livorno, nel gennaio 1921, del Partito comunista d’Italia (anche se il suo nome è “stranamente” scomparso dalle cronache di quel Congresso), amico di Lenin, avvicinatosi lentamente, dagli inizi degli anni Trenta, prima ancora che al fascismo, al vecchio compagno e conterraneo Mussolini, fino al tragico epilogo del 28 aprile 1945 sul lungolago di Dongo. E quando dico esponente di primo piano, non mi riferisco certo a sue particolari doti di teorico e ideologo (doti che invero fecero difetto alla sinistra italiana del tempo, eccezion fatta per un Gramsci e, in parte, per un Bordiga), ma alla passione, sostenuta da una trascinante oratoria, che lo distinse nella sua azione all’interno del Psi prima e del Pcd’I poi. Con questo, e quasi a volerne riequilibrare l’immagine, Bombacci non fu semplicemente un passionale barricadiero romagnolo, ma mostrò anche insospettate doti diplomatiche (apprezzate anche da capi di Governo dell’Italia liberale, come Francesco Saverio Nitti), battendosi strenuamente per l’allaccio di rapporti diplomatici fra Italia e Unione Sovietica, in un misto di enfasi rivoluzionaria e di più ponderata attenzione agli interessi economici e commerciali di entrambi i Paesi. Forse mi sono dilungato troppo, ma se pensa che, per rispondere implicitamente alla Sua domanda, ho impiegato anni di ricerche e oltre 250 pagine di testo, potrà ben comprendere che dire di meno sarebbe stato impossibile”.

 

 

Perché un libro su di lui?

 

Sarebbe più esatto parlare di un mio secondo libro su Bombacci, perché quello uscito ora presso l’Editore Mursia costituisce una edizione rinnovata e ampliata del Nicola Bombacci da Mosca a Salò (da anni esaurito), pubblicato nel 1986 dall’Editore Bonacci di Roma nella Collana “I fatti della storia” diretta da Renzo De Felice. Perché questo mio interesse, reiterato interesse, per Bombacci? La prima molla, sul piano puramente storiografico, è stata dettata dalla damnatio memoriae abbattutasi nel secondo dopoguerra sul suo nome. Di lui non volevano parlare socialisti e comunisti, se non per rinnovare quell’infamante etichetta di “supertraditore” affibbiatagli sul documento attestante la sua esecuzione, a Dongo. Ma mostravano imbarazzo a parlarne anche gli eredi spirituali di coloro al cui fianco era caduto; molti (me lo confermò a suo tempo l’on. Pino Romualdi) non avevano mai cessato, durante e dopo il fascismo, di considerarlo un comunista. C’è però, me lo lasci dire, anche un risvolto umano. Si dice spesso che un biografo finisca prima o poi per innamorarsi del personaggio oggetto dei suoi studi. Io non credo (nonostante ben due libri su di lui) di essermi innamorato di Bombacci, ma forse non ho debitamente tenuta a freno la mia simpatia sia per l’”eretico” (spesso gli eretici, in senso religioso o politico, leggono meglio la storia di quanti rimangono sempre legati a un dogma), sia per la sua coerenza nei momenti estremi. Se è vero, infatti, che Bombacci ricevette molti aiuti economici da Mussolini, è altrettanto vero che non fu certo l’unico (tra gli oppositori politici o tra gli intellettuali) a usufruirne. Con la differenza che mentre molti, la maggior parte dei beneficiati, fecero carte false per ricrearsi una verginità politica, spacciandosi per antifascisti sin da quando… erano in fasce (la cosa grave è che siano stati presi sul serio), Bombacci rimase fedele a Mussolini sino all’ultimo. E, tra lo squallido opportunismo degli uni e la coerente fedeltà dell’altro, Lei può ben immaginare su chi possano cadere le mie simpatie.

 

 

Compagni italiani e compagni rossi russi. Tutti effettivamente compagni? E così lo stesso per i Soviet, i rivoluzionari? Le classi operaie?

 

Le vicende che portarono, nel 1927, alla definitiva espulsione di Bombacci dal Pcd’I sono uno specchio fedele non solo della confusione esistente all’interno del partito, ma anche, e soprattutto, delle divergenze fra comunisti italiani e sovietici. Per questi la priorità assoluta era quella di rompere una sorta di “cordone sanitario” creatosi intorno alla Russia rivoluzionaria dopo l’ottobre 1917, e qualsiasi crepa si fosse formata in quel “cordone” era vista in senso quantomai favorevole. Così era accaduto con la piena disponibilità dimostrata sin dall’inizio dal Governo Mussolini a mettere in disparte le differenze politiche e a trovare una soluzione definitiva sui rapporti fra i due Stati. Quella così chiara e autorevole apertura fece passare in secondo piano, per i dirigenti sovietici, qualsiasi velleità di appoggiare i comunisti italiani nella lotta contro il fascismo; e in quella stessa ottica deve porsi il discorso di Bombacci alla Camera il 30 novembre 1923. Un discorso “eretico”, l’ho definito nel libro, e che rappresentò l’inizio di tutta una serie di provvedimenti disciplinari da parte degli organi dirigenti del Pcd’I contro Bombacci; sotto accusa una frase soprattutto di quel discorso, quando l’oratore, rivolto ai banchi del Governo, sostenne che tra due rivoluzioni, quella sovietica e quella fascista, non dovessero in fondo esistere difficoltà a trovare un reciproco e fattivo riconoscimento fra i due Paesi. Apriti cielo! Non starò qui a elencare le reazioni polemiche a quelle parole; mi limiterò a ricordare qui che, a difesa di Bombacci (come minimo della sua buona fede) non mancarono prese di posizione di alcuni deputati, di non pochi lavoratori e, soprattutto, varie insistenze da parte dei dirigenti sovietici, che cercarono inutilmente di attenuare almeno la gravità delle misure adottate contro il deputato comunista.

 

 

Bombacci e D’Annunzio?

 

La Sua domanda mi riporta un po’ indietro negli anni, ai tempi della mia tesi di laurea e dei miei esordi storiografici incentrati sull’Impresa fiumana di D’Annunzio. Dubito fortemente che possano esserci stati incontri o rapporti diretti fra il Poeta e Bombacci, ma certo questi non nascose una certa simpatia per il movimento dannunziano, “perfettamente e profondamente rivoluzionario” così come lo stesso D’Annunzio, secondo quanto sostenuto da Lenin in persona. Non si limitò comunque alla simpatia, Bombacci, ma aderì in linea di massima, insieme all’anarchico Errico Malatesta, a un piano insurrezionale proposto dal capitano Giuseppe Giulietti, segretario della FILM (Federazione Italiana Lavoratori del Mare), per estendere, sotto la guida di D’Annunzio, il moto legionario da Fiume al resto dell’Italia. Non se ne fece nulla in concreto, anche per la netta opposizione al progetto da parte del leader socialista Giacinto Menotti Serrati; non a caso, però, proprio Bombacci fu tra i primi destinatari, nel gennaio 1921, di un volume di documenti sul “Natale di sangue”, con accenni polemici più o meno larvati all’immobilismo dei Fasci di Combattimento in quelle giornate («falsi rivoluzionari - scriverà Eugenio Coselschi nella lettera di accompagnamento - , più conservatori dei conservatori palesi». A distanza di qualche mese, in agosto, D’Annunzio provvide poi a versare al Comitato provinciale di Brescia del Pcd’I la somma di 2.000 lire a favore degli affamati della Russia sovietica, ricevendo nell’occasione una grata risposta anche da Bombacci.

 

 

Bombacci e Mussolini? L’alter ego l’un dell’altro? Ma sempre perché per entrambi “l’Italia doveva bastare a se stessa”?

 

Il rapporto fra Mussolini e Bombacci fu in realtà meno complesso e conflittuale di quanto a prima vista potrebbe apparire. A ben guardare, le convergenze superano le divergenze: a cominciare dalla comune provenienza romagnola, per proseguire con le basi culturali (entrambi maestri elementari prima di gettarsi nella lotta politica) e con le matrici ideologiche socialiste. E c’era poi una lunga e forte amicizia personale, non scalfita da contingenti contrapposizioni politiche; una amicizia per “Nicolino” (come a volte il Duce chiamava Bombacci) ricordata dallo stesso Mussolini in uno dei suoi colloqui con Yvon De Begnac: «Non si divide il pane della scienza per poi diventare l’uno all’altro Caino». Il lento e cauto riavvicinamento fu indubbiamente favorito (come accennato in precedenza) dagli aiuti economici fatti pervenire da Mussolini a Bombacci, alle prese con vari problemi famigliari meglio specificati nel libro; aiuti di cui il Duce si mostrò prodigo anche verso altri oppositori del Regime, e non sta a me (in verità, non dovrebbe stare a nessuno) sindacare su quanto essi fossero disinteressati o celassero intenti di “ammorbidimento”. Ci furono, quegli aiuti, e tanto basta, anche perché poi molti dei beneficiati antifascisti erano e antifascisti rimasero. Al riavvicinamento dettato da sentimenti di riconoscenza si affiancarono ben presto anche motivazioni di ordine più squisitamente politico, con cauti apprezzamenti al corporativismo e alle leggi sociali promulgate dal Regime. Anche in questo caso, tuttavia, Bombacci non fu solo nell’avvicinamento a Mussolini e agli esponenti della sinistra fascista (soprattutto Rossoni), nell’illusione, non solo sua, che il fascismo potesse ritornare verso le originarie posizioni rivoluzionarie. Un caso fra tutti, nel 1934, quello delle avances dell’ex sindaco socialista di Milano Enrico Caldara, portavoce di molti esponenti ex riformisti già condannati al confino, con l’offerta - fatta praticamente cadere da Mussolini, dopo una iniziale accettazione - per una leale collaborazione con il Regime e all’interno del fascismo in nome dei princìpi del Corporativismo.

 

 

E sugli anni del silenzio di Bombacci (sino al 1943)?

 

In effetti, se si esclude la pubblicazione de “La Verità”, su cui avrò modo di tornare, per un lungo periodo il nome di Bombacci scompare quasi del tutto dalle cronache politiche. Si tratta di un silenzio per certi versi obbligato, in quanto Mussolini non aveva interesse a rendere di pubblico dominio le profferte dell’ex esponente comunista, anche per non esacerbare le polemiche di quanti, all’interno del Regime, male avevano accolto gli accenni di apertura verso elementi antifascisti. Bastarono voci - poi rivelatesi infondate - circa la possibile nomina di Bombacci a curatore della propaganda della rinascita industriale del decennio fascista perché si assistesse a una decisa levata di scudi contro di lui; non si capiva, da parte dei vecchi fascisti intransigenti così come dei giovani, quali vantaggi sarebbero potuti venire al fascismo dal ritorno sulla scena, più o meno ufficiale, di elementi con cui la nuova Italia doveva avere di fatto chiuso tutti i conti. Non rimase comunque del tutto inattivo, Bombacci, pur consapevole del clima sfavorevole creatosi intorno a lui, e mantenne con Mussolini una lunga corrispondenza epistolare, di cui esiste ampia documentazione soprattutto presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Si tratta per lo più di lettere in cui Bombacci, oltre a esprimere i propri sentimenti di devozione e ammirazione per Mussolini e per le realizzazioni del fascismo, chiedeva di essere chiamato a svolgere i compiti che gli si fossero voluti affidare, intendendo uscire dall’inerzia in cui da tempo le circostanze lo avevano fatto piombare («Vi chiedo l’onore di entrare nella mischia» ebbe a scrivere); chiese più volte anche la tessera del Partito, ma la cosa cadde nel vuoto. Fra tutte le lettere, ce n’è una, del 6 luglio 1934, che riveste un particolare interesse, colto - pur senza enfatizzarne l’importanza reale - da Renzo De Felice in uno dei volumi della biografia di Mussolini. Nella lettera Bombacci delineava le direttrici di una politica economica nazionale, che avrebbe poi preso concretamente corpo nell’autarchia. Non è dato sapere quanto quel suggerimento avrebbe poi pesato sull’avvio di una politica autarchica, e sarebbe forse eccessivo fare di Bombacci l’antesignano di essa; certo è che Mussolini mostrò interesse per quel progetto, annotando con la solita matita blu in margine alla lettera «Prepararmi un piano dettagliato».

 

 

Ci può parlare della rivista “La Verità”?

 

Prima ancora di parlare della rivista in sé, credo sia opportuno accennare alle dure polemiche scatenatesi, ancor prima della sua uscita, sia all’interno dello schieramento antifascista, sia, soprattutto, tra i settori intransigenti del fascismo; e questo, nonostante il fatto che ad autorizzare la pubblicazione de “La Verità” ci fosse ovviamente Mussolini in persona, e che essa fosse stata caldeggiata da figure di primo piano del Regime, come Costanzo Ciano e Rossoni. L’ennesima levata di scudi contro Bombacci sembrò avere avuto la meglio con una lunga sospensione della pubblicazione della rivista (il primo numero uscì nell’aprile 1936, il secondo soltanto nel gennaio 1937); ma anche alla ripresa le voci contrarie non mancarono, e se ne fece interprete soprattutto il segretario del PNF Starace, che in una lunga lettera a Mussolini non usò mezzi termini per bollare come “rottami marginali” o “emerite carogne, capaci di tutto domani, come lo sono state ieri”, sia Bombacci che altri collaboratori della rivista. Detto delle polemiche, “La Verità” (solo un caso che si trattasse della traduzione italiana della “Pravda” moscovita?) uscì mensilmente (a parte la lunga sospensione già ricordata) quasi ininterrottamente sino al giugno 1943, spaziando dai temi di politica interna a quelli di politica estera, da frequenti attacchi alle degenerazioni del bolscevismo a considerazioni sulle ben diverse condizioni di vita e di lavoro delle classi operaie in Unione Sovietica e nell’Italia fascista. Con toni alquanto imbarazzati - comuni del resto a quasi tutta la stampa italiana - dopo la firma del Patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939, che costrinse i commentatori politici a veri e propri giochi di equilibrismo dialettico per spiegare una situazione così radicalmente e improvvisamente mutata. Da un punto di vista politico, la pubblicazione de “La Verità” può farsi rientrare in quel clima di disponibilità mostrato da alcuni settori antifascisti verso la metà degli anni Trenta a operare lealmente all’interno del Regime, in nome del socialismo e di una rivoluzione sociale che si sperava potesse nascere dal corporativismo. Una disponibilità che sembrò trovare un terreno favorevole nelle voci ricorrenti, in quello stesso periodo, di una conversione a sinistra del Regime, che vedeva in prima linea il ministro dell’Agricoltura Rossoni, e che fece paventare ad alcuni ambienti conservatori la possibile collusione tra fascismo di sinistra e bolscevismo.

 

 

Ultimo capitolo: 1943-1945. RSI, socializzazione, operai. Cos’altro?

 

Cos’altro? Tanto altro. Storiograficamente parlando, i mesi della RSI presentano un panorama quantomai confuso, con una vera e propria “babele” di posizioni, di programmi, di illusioni, con il ripresentarsi, e anzi l’acuirsi, dei contrasti insanabili tra le varie anime del fascismo, tenuti più o meno a freno durante il regime, pressoché incontrollabili nel periodo tra il settembre l943 e l’aprile 1945. Anche perché, bisogna ammetterlo, in quell’arco di tempo Mussolini non aveva più la forza, fisica e psicologica, né una adeguata volontà politica, per dominare una situazione sulla cui ineluttabilità era forse il primo a non crearsi illusioni. Le confesserò un mio sogno “nel cassetto”, quello di occuparmi proprio del periodo della RSI, dopo aver scritto qualche anno fa un libro sulla storia del fascismo; ma io per primo non mi nascondo le enormi difficoltà di affrontare i quasi venti mesi di vita della RSI dopo averlo fatto per i più di venti anni del regime mussoliniano. Non potendo qui, in sede di intervista, sintetizzare quei quasi venti mesi di storia italiana, di tragica storia italiana, mi limiterò a parlare del ruolo di Nicola Bombacci all’interno della RSI. Si può dire che, per certi versi, il silenzio di Bombacci si prolunghi anche in quei mesi: nessun incarico ufficiale, un ufficio presso il Ministero dell’Interno, a Maderno, dove occuparsi di un progetto di legge sulle abitazioni da assegnare ai lavoratori, un ruolo indefinito nella stesura dei 18 punti del Manifesto di Verona e del testo della legge sulla socializzazione delle imprese (anche se è più che probabile che il termine stesso di “socializzazione” fosse venuto da una sua proposta accettata da Mussolini), indagini, condotte negli ultimi mesi della RSI insieme al segretario particolare del Duce Luigi Gatti, sui reali responsabili e sui torbidi moventi affaristici del delitto Matteotti di vent’anni prima. Tutto più o meno nell’ombra, così come privi di ogni ufficialità sono i quasi quotidiani contatti di Bombacci con Mussolini; la porta dello studio del Duce sarà per lui sempre aperta, in quei mesi, senza bisogno di anticamere o di intermediari. Per questo, qualcuno ha definito il Bombacci della RSI “l’eminenza grigia di Salò”; io parlerei piuttosto di un ritrovato rapporto personale e politico con Mussolini, sulla scia della speranza, dell’illusione, che si stesse finalmente realizzando quella rivoluzione sociale tanto auspicata quanto troppe volte frenata.

 

 

Il canto del cigno: Viva il Socialismo!”. Questa fu dunque la fine?

 

Le dico subito che l’immagine del “canto del cigno” non è farina del mio sacco, avendola ripresa da Alberto Giovannini a proposito del discorso tenuto da Bombacci il 15 marzo 1945 (si noti la data, poco più di un mese dalla fine), a Genova, in una affollatissima piazza De Ferrari. Già, perché nella risposta precedente ho omesso di parlare di una incessante attività oratoria di Bombacci, soprattutto negli ultimi mesi della RSI, del rinnovato rapporto del vecchio tribuno con il mondo del lavoro, fosse sulle piazze o nelle fabbriche socializzate. Di fronte al perdurante silenzio di Mussolini (sintomo secondo me della consapevolezza del Duce per l’ineluttabilità della situazione), eccezion fatta per il discorso del Lirico e per quelli alle truppe italiane addestrate in Germania, le uniche voci capaci di suscitare un certo interesse (oggi parleremmo di audience) furono quelle del cappellano militare Padre Eusebio e, appunto, di Bombacci. Nel suo caso dovette esserci, inutile nasconderlo, anche una certa curiosità per ascoltare le argomentazioni dell’ex esponente comunista schierato ora con la Repubblica mussoliniana; e Bombacci non deludeva i suoi ascoltatori, ricordando spesso e volentieri la propria milizia del Pcd’I e la propria amicizia con Lenin, le speranze riposte a suo tempo nel bolscevismo e la certezza che ora la rivoluzione potesse farla solo Mussolini. Soltanto un illuso, Bombacci, nelle sue speranze e certezze, prive di qualsiasi serio aggancio alla realtà? C’era indubbiamente in lui una forte componente passionale, ma è certo che anche nei suoi incontri con gli operai, nel sincero entusiasmo per l’attuazione (seppur lenta, contrastata e parziale) della socializzazione, non poteva sfuggire nemmeno a lui la realtà di un mondo del lavoro ormai quasi del tutto insensibile alle sirene sociali mussoliniane.

 

Si sarebbe forse potuto salvare, Bombacci, se fosse rimasto a Gaino, il paesino dell’entroterra gardesano dove viveva con moglie, figlia e nipotina; alcuni abitanti del luogo, da me a suo tempo avvicinati, lo ricordavano con simpatia e rispetto, memori anche dei tanti suoi interventi a favore di giovani partigiani fatti prigionieri dalle “Brigate Nere” o dai tedeschi e quasi sempre rimessi in libertà dietro sue pressioni su Mussolini. Invece Bombacci seguì il Duce a Milano e molte testimonianze (non saprei quanto attendibili) lo ricordano salire in auto con lui nel cortile della Prefettura, prima di separarsene a Menaggio, della cattura ad opera dei partigiani, della fucilazione sul lungolago di Dongo.

 

 

A chiusura alcune domande di più ampio respiro. La prima: Lei è stato allievo e collaboratore di Renzo De Felice. Un Suo ricordo del grande storico?

 

Sono stato allievo di De Felice agli inizi degli anni Settanta, al tempo della preparazione della mia tesi di laurea sull’Impresa fiumana, Suo stretto collaboratore (soprattutto all’interno della rivista “Storia contemporanea” da Lui diretta) dall’inizio degli anni Ottanta sino alla Sua scomparsa, nel maggio 1996. Quello che voglio ricordare di questo lungo rapporto è lo spirito con cui si usciva dagli incontri con il Professore, arricchiti non solo di consigli e indicazioni, ma della voglia di tuffarsi nella ricerca, di non dare alcunché per scontato, di non fermarsi alle prime facili ma spesso errate conclusioni, di scavare nelle miniere degli archivi e nella polvere delle carte. E insieme al ricordo, il rimpianto per uno Studioso la cui scomparsa tanto ha pesato e pesa ancora oggi sulla vita culturale italiana.

 

 

Si dipanerà mai e completamente scevra da luci e ombre la storia italiana del XX secolo?

 

Indubbiamente molti singoli avvenimenti della storia italiana del XX secolo sono ancora avvolti da una nebbia fitta e difficilmente diradabile. Quello che sta cambiando, ed è secondo me destinato a mutare ulteriormente, è il tipo di approccio a temi e momenti fondamentali della storia italiana (mi riferisco ovviamente qui al fenomeno e al periodo fascista), sempre più libero da schematici luoghi comuni e da quei pregiudizi ideologici (rimasti ormai prerogativa di sempre più ristretti e sempre meno rilevanti settori della vita politica e culturale) che per tanto tempo ne hanno impedito una corretta lettura e comprensione. Un mutato approccio che, detto per inciso, potrebbe finire per riguardare la stessa figura di Nicola Bombacci, una volta liberata dalle etichette di “supertraditore” o di “comunista comunque e sempre”. Tutto bene, a patto, però, me lo lasci dire, che una seria opera di revisione storica (iniziata e propugnata proprio da Renzo De Felice e da Lui inculcata agli studiosi formatisi alla Sua “scuola”, in polemica con gli strenui difensori della “vulgata”) sia lasciata agli storici seri, e non diventi appannaggio di politici pasticcioni e poco credibili. In altri termini, ognuno faccia il proprio mestiere!.

 

 

Lei dedica il presente volume alla memoria di Gea Bombacci, figlia di Nicola, ringrazia (fra gli altri) Rossella del Guerra e Sua moglie Patrizia, “cui va un ringraziamento tutto particolare”. Dunque è vero che dietro ogni grande uomo c’è sempre un’altrettanto grande donna?

 

Almeno per l’ultima domanda, una risposta più breve che per le altre. La dedica del volume alla memoria della figlia di Bombacci, Gea, è come minimo doverosa, anche per il rapporto di stima e di amicizia venutosi a creare fra noi; così come doveroso il ringraziamento alla nipote di Bombacci, Rossella del Guerra, che ha voluto, con grande liberalità, cedere a me tutta la documentazione raccolta negli anni dalla Famiglia. Quanto a me, non credo sinceramente di essere un “grande uomo”, mentre senz’altro una “grande donna” è mia moglie Patrizia, che è stata sempre al mio fianco sia nella vita privata così come in questo e in altri lavori. Però, attenzione, non facciamoci sentire da lei: potrebbe montarsi la testa! Grazie.

 

 

Grazie a Lei…

 

 

 

 

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