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Perché non possiamo non dirci anti-americani

di Francesco Lamendola - 01/12/2008


 

La massima forma di scorrettezza politica è considerata, attualmente, quella di essere, o anche soltanto essere sospettati di essere, anti-americani. «Anti-americano» è la suprema parolaccia, la bestemmia che non sarà mai perdonata, in saecula saeculorum. Tutto si può perdonare, con il tempo; da qualunque crimine ci si può redimere - dalla mafia, dalla pedofilia, dal cannibalismo - ma dall'anti-americanismo no, mai, cadessero il Cielo e la Terra.
Ebbene, tenteremo adesso di spiegare perché non solo siamo convintamente anti-americani, ma perché non possiamo e non potremmo non esserlo; e perché lo siamo non occasionalmente, ma nel senso più profondo del termine.
Non staremo ora a fare l'elenco di tutte le azioni vergognose e criminali di cui la politica estera americana si è macchiata nel corso della sua storia e fin dalle sue origini: sarebbe un elenco davvero troppo lungo.
Il padre fondatore, George Washington, non era che un latifondista e uno schiavista ambizioso e incapace: per vanagloria e per puro spirito imperialista precipitò la guerra contro i Francesi del Canada, quando la Guerra dei Sette Anni non era stata ancora ufficialmente dichiara; e ne fu sonoramente battuto, nella maniera più umiliante (1754-55).
Tacciamo tutte le finzioni e tutte le menzogne di cui gli Americani si sono sempre serviti per giustificare le guerre che intendevano scatenare contro altre nazioni: dalla «misteriosa» esplosione della corazzata «Maine» nel porto dell'Avana, che offrì loro il pretesto per attaccare la Spagna nel 1898 e derubarla di Cuba, di Puerto Rico, di Guam e delle Filippine (1898); all'affondamento del vapore «Lusitania» - in realtà, un incrociatore ausiliario britannico che trasportava armi per una nazione belligerante, e verso il quale l'ambasciatore tedesco a New York aveva messo in guardia i passeggeri americani -, che permise loro di entrare nella prima guerra mondiale (1917); alla tanto decantata «sorpresa» di Pearl Harbor, che non fu affatto una sorpresa - come oggi riconoscono perfino alcuni storici americani -, che consentì di far passare l'entrata in guerra contro il Giappone per un atto di legittima difesa (1941); alla spudorata menzogna circa le «armi di distruzione di massa» dell'Iraq, che permise a Bush junior di invadere quel paese e, poi, di catturare e far condannare a morte l'odiato Saddam Hussein (2003).
Non facciamo l'elenco completo, dicevamo, perché richiederebbe pagine e pagine.
Molte di quelle azioni vergognose sono orma consegnate alla storia, come la partecipazione della C.I.A. al colpo di Stato in Cile che portò al potere il generale Pinochet, contro un governo democraticamente eletto dal popolo (1973); di mole altre, invece, esistono forti indizi, ma non prove certe, come nel caso del coinvolgimento dei servizi segreti americani nella strage di Piazza Fontana (1969), nel disastro aereo di Ustica (1980) e, più recentemente, nello stesso attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001 (cfr. il nostro precedente articolo «Le menzogne di Bush sull'11 settembre servono a coprire un "lavoro" del Mossad?», consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Quando gli Stati Uniti vogliono mettere le mani su un luogo d'importanza strategica, finanziano una ribellione e si fanno cedere da uno Stato creato su misura il luogo da essi ambito: così hanno fatto per mettere le mani sull'Istmo di Panama, ove poi sarebbe stato aperto il Canale: fomentando una insurrezione contro la Colombia e facendosi concedere poi, dalla compiacente neonata Repubblica delle banane, ciò cui miravano (1903).
Quando vogliono affrettare la resa dell'avversario, non esitano a servirsi di ogni mezzo, perfino della collaborazione della malavita organizzata: così hanno reintrodotto la mafia in Sicilia nell'estate del 1943, annullando gli sforzi dell'unico governo italiano - piaccia o no, quello fascista - che l'avesse mai seriamente combattuta.
Oppure non si peritano di bombardare gli argini dei fiumi per provocare delle carestie destinate a fare milioni di morti: così hanno fatto in Vietnam, Paese sul quale hanno gettato - oltre a quantità industriali di armi chimiche - qualcosa come quaranta volte tutte le bombe che furono mai sganciate su tutti i fronti di guerra del secondo conflitto mondiale.
O, anche, introducono il bacillo della peste bovina per distruggere gli allevamenti del «nemico» e ridurlo  del pari alla fame: come hanno fatto a Cuba, dopo aver fallito con lo sbarco alla Baia dei Porci; oppure assoldano eserciti di mercenari sanguinari, specializzati nel terrorizzare, torturare e uccidere donne e bambini: così hanno fatto con i contras che, dall'Honduras, attaccavano le campagne e i villaggi del Nicaragua sandinista. Hanno anche posto delle mine davanti al porto nicaraguense di Corinto, compiendo un atto di pirateria che l'Alta Corte Internazionale dell'Aja condannò ufficialmente (presidente americano all'epoca, Ronald Reagan).
E quando vogliono risparmiare la vita dei loro soldati, non si curano della vita delle popolazioni civili del nemico, anzi, cercano di massacrarne quante più possibile: così hanno fatto con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki (1945).
Infine, dopo aver costruito dei miti di cartapesta (come la tanta celebrata «leggenda di Alamo»), se ne servono per giustificare la spoliazione sistematica di altre nazioni: come quando, a conclusione della guerra contro il Messico, si annetterono - gigantesco bottino di guerra - oltre metà del suo territorio, con il trattato di Guadalupe-Hidalgo (1848).

Del resto, non facciamo una questione di moralismo.
Quando si afferma un Impero - per quanto democratico esso possa dirsi, come quello ateniese di Pericle - subentra una machiavellica ragion di Stato, per cui esso non può assicurare la propria supremazia senza ricorrere anche ad azioni politicamente spregiudicate, violente, ciniche e immorali. Ciò è sempre accaduto, dagli Assiri in poi, e sempre accadrà: fa parte, ineluttabilmente, della logica degli Imperi.
Perché, dunque, un accanimento particolare contro l'Impero americano?
Potremmo rispondere: per la sua ipocrisia.
Perché esso fa esattamente quel che hanno sempre fatto tutti gli Imperi, compreso quello sovietico, ma con la tipica ipocrisia puritana di chi vuol presentarsi sempre dalla parte della ragione, magari per una speciale predilezione divina («Dio benedica l'America!», recitano immancabilmente i presidenti statunitensi al termine di ogni discorso ufficiale: una prova di fondamentalismo che riterremmo inaccettabile se venisse, ad esempio, dall'Iran o da qualche altro preteso «Stato-canaglia»).
Ma tutto ciò è perfettamente in linea con lo spirito più autentico della nazione americana, nello spirito dei Padri pellegrini che, nel XVII secolo, colonizzarono il New England con la Bibbia in una mano e il fucile nell'altra (per scacciare gli Indiani dalle loro legittime terre).
Ma no, non è questa la ragione per la quale non possiamo non essere profondamente anti-americani; anche l'ipocrisia, infatti, appartiene all'armamentario ideologico e propagandistico di un certo tipo di Imperi, quelli a base democratica; come, appunto, l'Atene di Pericle.
E non è neppure per il doppio crimine che segna le radici stesse della storia americana: la schiavitù dei neri e lo sterminio dei pellerossa (a proposito, continuiamo a parlare di America come sinonimo di Stati Uniti, e già questa è una spia dell'arroganza propagandistica di quella nazione: l'America, infatti, è un continente, che va dallo Stretto di Behring al Capo Horn; gli Stati Uniti occupano una porzione minoritaria di quel continente, corrispondente a circa un terzo della superficie della sola America Settentrionale).
No, la ragione vera è un'altra. E cioè questa: detta paradossalmente, perché gli Stati Uniti - così come,  del resto, la Gran Bretagna, dalla quale discendono e che ne è, oggi, l'avamposto puntato contro l'Europa - non hanno mai conosciuto la sconfitta.
Che vuol dire questo? È forse una colpa non essere stati sconfitti, non essere stati invasi, non aver mai conosciuto la realtà delle distruzioni dei bombardamenti aerei? Anzi, essere usciti da due guerre mondiali con una economia più forte ed espansiva di prima?
Dobbiamo qui rifarci, brevemente, ad alcuni concetti espressi in un nostro precedente lavoro, «La sofferenza è una parte essenziale della vita o qualcosa che bisogna puntare a eliminare?», sempre sul sito di Arianna Editrice.
In quella sede, avevamo affermato - fra l'altro - che la sofferenza non è costitutiva della condizione umana solamente in senso ontologico; essa lo è anche in senso etico.
Una simile affermazione - che, non ne dubitiamo, avrebbe indignato Lenin, così come indignerà  certamente tutti coloro che sentono e pensano come lui - non nasce da pavido fatalismo o, peggio, da un patologico impulso di tipo masochista. Nasce, al contrario, dalla constatazione che la sofferenza, ed essa soltanto, è lo stimolo che spinge gli esseri umani a perfezionarsi, a trascendersi, a cercare il bene per sé stessi e per i propri simili.
Se non vi fosse il male, se non vi fosse la sofferenza, verrebbe a mancare il fattore principale dell'evoluzione spirituale e il più forte elemento del progresso morale. Possiamo, forse, deprecare che l'essere umano abbia «bisogno» di coltivare una così gravosa forma di sollecitazione per mettersi, con tutte le sue forze, verso la strade del buono, del vero e del bello. Ma è così, perché infiniti fatti della storia stanno a indicarlo; e coi fatti non si discute.
Del resto, prima di lamentarci di questa nostra condizione, dovremmo riflettere che solo grazie alla notte noi siamo in grado di apprezzare il giorno; solo grazie al freddo, il calore; e, ugualmente, solo grazie alla sofferenza, le cose buone che la vita ci offre, insieme all'occasione di divenire un po' migliori.
Solo chi ha vissuto, da bambino, il terrore dei bombardamenti aerei ha potuto, poi, apprezzare pienamente la gioia di mettersi a letto a letto col pigiama, senza il pensiero angoscioso che le sirene si sarebbero messe a suonare nel cuore della notte, costringendo tutti a precipitarsi - insonnoliti e infreddoliti - verso i rifugi antiaerei; e senza sapere se, cessato l'allarme, avrebbero trovato ancora in piedi la propria casa.
Solo chi ha sperimentato una lunga e dolorosa malattia, che lo abbia ridotto all'immobilità per giorni, settimane o mesi, ha imparato poi a godere, una volta guarito, del semplice piacere di potersi reggere in piedi, di camminare, di uscire e di fare una passeggiata, o magari di recarsi dal fornaio ad acquistare il pane fresco.
Ovunque volgiamo lo sguardo, sempre osserviamo lo stesso spettacolo: che il dolore è maestro di vita, più di qualunque altra cosa al mondo.
Anche un solo giorno di sofferenza autentica, non cercata e tuttavia affrontata virilmente, può insegnarci più cose di quante non potrebbe farlo una intera biblioteca.
Onestamente, c'è qualcuno che pensa di poterlo negare?

Ed ora torniamo alla questione dell'anti-americanismo.
Un popolo che non ha mai conosciuto l'amaro sapore della sconfitta finisce per credersi infallibile e predestinato: come si ritenevano infallibili e predestinati i Padri pellegrini del «Mayflower», sbarcati nel 1620 nel Nuovo Continente con la Bibbia e il fucile.
Si dirà che anche gli Stati Uniti hanno conosciuto il sapore della sconfitta, alla conclusione della guerra del Vietnam, quando dovettero fuggire in fretta e furia da Saigon, mentre già vi stavano entrando le colonne dei vietcong (1975).
È vero; ma è stata un'unica sconfitta, e non certo totale: gli Americani non hanno visto il nemico in casa propria, non hanno subito l'occupazione e la spoliazione. È stata una umiliazione a metà e non ha dato luogo ad alcun serio ripensamento della loro politica estera, delle loro categorie morali. Al contrario, ha originato un forte sentimento di rivalsa, che si è sfogato non appena ha trovato margini di manovra sufficienti, e cioè non appena l'Unione Sovietica ha cominciato a implodere: in particolare, nelle due guerre del Golfo Persico - quella del 1991 e quella del 2003 -, ad opera dei due Bush presidenti: il padre e il (degno) figlio.
Le sconfitte che servono, così alle nazioni come agli individui, sono quelle da cui nasce una nuova consapevolezza di sé e degli altri, resa possibile dal dolore, dalla fragilità, dalla scoperta di non essere invincibili né onnipotenti. In altre parole, sono quelle dalle quali germoglia una più profonda umanità, una maggiore capacità di autocritica.
Ma gli Americani sono lontanissimi da tutto ciò.
Delle decine di film che hanno prodotto sulla loro partecipazione alle due guerre mondiali - ad esempio -,  non se ne trova uno solo che non suoni come una tronfia e stolida autocelebrazione, come un totale misconoscimento delle ragioni dell'avversario (che viene, anzi, sistematicamente denigrato o ridicolizzato) e come una assoluta incapacità di riconoscerne cavallerescamente il valore.

Questa è la prima e la principale ragione per cui gli Stati Uniti si rendono odiosi nel mondo.
Questa è la prima e la principale ragione per cui, quando si sparse la notizia dell'attacco alle Torri Gemelle, in tante piazze del mondo si è fatta festa: prima ancora che per la loro politica sfacciatamente e univocamente filo-israeliana e anti-araba o per la loro alleanza di ferro con i peggiori regimi feudali del mondo: quelli dell'Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti (con buona pace della democrazia, della libertà e dei diritti dell'uomo e del cittadino).
La seconda ragione è che negli Stati Uniti sono maturati, prima che altrove, i frutti della modernità, a cominciare da quella filosofia brutalmente utilitaristica e cinicamente materialista, che crede di poter dare un prezzo ad ogni cosa e risolvere qualunque problema aprendo il portafogli.
Troppo ci sarebbe da dire sulla società americana come punta avanzata dei processi degenerativi della modernità: per cui ci limiteremo a poche, brevissime osservazioni.
Gli Stati Uniti d'America sono l'unico Paese al mondo in cui, non solo vige la pena di morte (in quasi tutti i suoi Stati), ma in cui, alla vigilia di una qualsiasi esecuzione capitale, si può osservare, sotto le mura del carcere, una folla di individui che inneggiano alla sedia elettrica, lanciano slogan di morte contro il condannato, sfoggiano magliette e berretti con scritte che proclamano quanto sia bello lo spettacolo di un essere umano che viene ucciso dalle scariche ad altissimo voltaggio. Se scene del genere si verificassero, che so, in Cina, subito i mass-media dipingerebbero quella nazione come la quintessenza della barbarie; accadono, invece, negli Stati Uniti, e nessuno, nel resto del mondo, vi trova niente di strano o di censurabile.
Gli Stati Uniti d'America sono l'unico Paese al mondo che non accettano, per i propri concittadini, le norme della giustizia internazionale, valide per chiunque altro. Così, non solo non vedremo mai Bush dietro il banco degli imputati al Tribunale Internazionale dell'Aja, come abbiamo visto Milosevic e Karadzic; ma neppure abbiamo potuto vedere processati in Italia, molto più semplicemente, gli aviatori americani che tranciarono per gioco la funivia del Cermis, provocando venti vittime (scommettevano una cassetta di birra per chi avrebbe saputo passare al di sotto della funivia, come attestano le registrazioni di volo). L'allora capo del governo italiano, D'Alema, non ebbe nemmeno la dignità di annullare il viaggio a Washington; così come il presidente Berlusconi non ebbe nemmeno la dignità di protestare per l'assassinio a sangue freddo dell'agente Calipari, all'aeroporto di Baghdad, subito dopo la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Inutile dire che sia i bravi aviatori del Cermis che i prodi assassini di Calipari se la sono cavata senza un graffio con la giustizia americana.
Gli Stati Uniti d'America sono il solo Paese al mondo in cui possano verificarsi violazioni atroci dei diritti fondamentali dell'uomo, come è avvenuto nelle carceri di Abu Grahib e come tuttora avviene in quelle di Guantanamo, senza che vi sia il minimo segno di ripensamento, di risarcimento, di mea culpa. Non so quanti si ricordino le fotografie, pur così recenti, dei corpi di prigionieri iracheni torturati o ammucchiati, ormai cadaveri, mentre soldati e soldatesse yankee si facevano ritrarre con sorrisi d'esultanza e con gesti beffardi e insultanti per le proprie vittime; noi le ricordiamo molto bene. Se fossero state trovate delle foto simili di soldati delle SS naziste presso le loro vittime ebree (e non ci risulta che ne siano state trovate), il mondo intero ne avrebbe dedotto che solo un regime politico infernale poteva aver prodotto soldati di quella fatta. Invece è accaduto nell'esercito americano, e il resto del mondo - passata la superficiale indignazione del momento - non ha fatto una piega. Anche in questo caso, è appena il caso di ricordare che solo un paio di soldati semplici sono stati processati e condannati all'espulsione dall'esercito per i fatti di Abu Grahib, mentre i comandi superiori ne sono usciti totalmente indenni.
Potemmo continuare.
Potremmo dire che gli Stati Uniti d'America sono il solo Paese al mondo che si riserva di studiare, fabbricare ed impiegare liberamente ogni sorta di arma chimica e batteriologica; di installare testate nucleari nelle basi dei Paesi «amici», senza nemmeno informarli della loro entità (come ad Aviano); di organizzare trame, complotti, stragi e colpi di stato, ma con la pretesa di essere sempre dalla parte della democrazia e dei diritti dell'uomo.
Ora, con l'elezione alla presidenza di Barak Obama, sono in molti a sognare chissà quale palingenesi universale, chissà quale era di felicità e di progresso per il mondo intero.
Si fa un paragone con John Fitzgerald Kennedy (per inciso, colui che lanciò a corpo morto il proprio Paese nella guerra del Vietnam); si fanno paragoni con Martin Luther King, solo per il colore della pelle. Ci si dimentica, a quanto pare, che sia Colin Powell, sia Condoleezza Rice, che tennero mano a Bush e Dick Cheney nella preparazione e nella esecuzione della infame guerra contro l'Iraq, nel 2003, erano neri come lui. Credere che Obama sarà un buon presidente solo perché è un nero (per metà) non è solo una forma di suprema ingenuità; significa fare del razzismo alla rovescia.
Comunque, staremo a vedere.
Per intanto, la maniera in cui gli Stati Uniti stanno affrontando la crisi internazionale del sistema bancario, da essi provocata e dal dissennato egoismo dei loro uomini d'affari - ossia da una economia basata su un immenso  spreco di risorse, e finalizzata a mantenere in povertà gran parte della restante popolazione mondiale - non lascia presagire nulla di buono.
Già nel 1929 essi hanno regalato al mondo una crisi finanziaria ed economica senza precedenti (che ha prodotto, fra le altre cose, il nazismo e la seconda guerra mondiale); e, anche in quella occasione, invece di farsi carico delle responsabilità mondiali della loro economia, cercarono di salvarsi col protezionismo e con la sospensione dei prestiti alle nazioni europee, moltiplicando gli effetti del disastro.
Vedremo.
Buona fortuna a Barak Obama e a tutti i suoi tifosi e sostenitori.
Noi, intanto, e fino a prova contraria, eravamo, siamo e resteremo radicalmente, irriducibilmente anti-americani: in nome dei valori spirituali che la civiltà del dollaro, dell'atomica e della Coca-Cola ogni giorno continua a offendere, calpestare e deridere.