Corsie della verità
di Lorenzo Merlo - 10/10/2025
Fonte: Lorenzo Merlo
“Chi decide la ragione?", dice John Nash (Russel Crowe) in A beautiful mind.
“Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola. [...] Poiché la Verità è illimitata, incondizionata, irraggiungibile attraverso qualunque via, non può venire organizzata, e nessuna organizzazione può essere creata per condurre o costringere gli altri lungo un particolare sentiero. [...] La fede è qualcosa di assolutamente individuale, e non possiamo e non dobbiamo istituzionalizzarla. Se lo facciamo diventa una cosa morta, cristallizzata; diventa un credo, una setta, una religione che viene imposta ad altri. È quello che tutti cercano di fare in tutto il mondo. La Verità viene svilita e resa un giocattolo per persone deboli o solo momentaneamente insoddisfatte. Non possiamo ‘abbassare’ la verità, ma piuttosto sforzarci noi di ‘salire’ a essa. Non possiamo far scendere a valle la cima della montagna. Se vogliamo raggiungere la cima dobbiamo attraversare la valle e salire il versante, senza timore dei pericolosi precipizi. Dobbiamo salire individualmente verso la Verità, che non può venire ‘abbassata’ per noi o organizzata per noi. [...] L’organizzazione diventa uno schema in cui i membri trovano la loro collocazione. Non si ricerca più la Verità, non si mira più alla vetta, ma ci si scava una comoda nicchia in cui collocarsi o in cui farsi collocare dall’organizzazione, pensando che sarà l’organizzazione a condurci alla Verità”.
Jiddu Krishnamurti Libertà totale, Astrolabio-Ubaldini.
La razionalità, o meglio, l’incantesimo del razionalismo – ovvero la fede nella presunta superiorità della ragione quale unica attendibile timoniera dei saperi, dell’intelligenza, della moralità, dell’educazione e della politica – ha costretto la creatività umana entro canali superficiali: come un rio sulla prateria, infatti, si è inconsapevolmente accontentato di incidere la superficie della conoscenza. Ogni alveo corre separato inseguendo il suo mare di verità. Le congiunzioni tra ruscelli, torrenti e fiumi, non inficiano l’idea dell’indipendenza strutturale della cosiddetta conoscenza analitica e della sua altrettanto presunta superiorità assoluta.
Sebbene il suo avanzare sia ricco di serendipità, il percorso che segna, il solo che può, è ordinato dalla logica. Entro tale campo, concezione e realtà, viene giocoforza escluso ogni neo, ogni disturbo, cioè ogni prospettiva che non possa sottostare ai tre principi aristotelici.
A tutto ciò consegue una concezione esistenziale di tipo meccanicistico in cui il sempre di più, così come il sempre meglio, sono creduti impliciti e scontati, nonostante anche la più superficiale delle osservazioni delle ordinarie dinamiche quotidiane porti ad assistere al contrario.
In questa concezione è del tutto necessario esaurire la realtà costringendola entro una linea grafica disegnata su un piano cartesiano.
È una condicio sine qua non obbligata dalla camicia di forza della logica e della razionalità che, per quanto abbia il diritto di porsi qualunque domanda, non ha gli occhi per vedere come e quanto ne deforma grottescamente le risposte. Non è in grado di avere coscienza che il mistero viene ad esistere nel momento esatto in cui essa si pone la domanda sulla natura del mistero stesso, e ad alimentarsi mentre cerca di trovare risposta con i suoi grossolani criteri. Inadeguati quanto pinze e martelli quando applicati ai contesti umanistici che, pur essendo infiniti, gli scientisti cercano di comprimere nelle loro scatolette di verità, lamentandosi di quanto sia difficile prevedere il frutto delle relazioni emozionali e sentimentali, ma certi che prima o poi la scienza trionferà ancora, per annunciare al mondo come stanno le cose.
Lo scientista fa paura perché non sa di esserlo, né di essere ligio chierichetto ai comandamenti della fede nella Scienza... classica.
Si tratta di argomenti che le tradizioni sapienziali hanno da millenni risolto riconoscendo l’identificazione degli uomini con il loro io e la corrispondente caducità della realtà, e quindi delle verità storiche, per la cui difesa combattiamo, sopraffacciamo chiunque le neghi, e veniamo sopraffatti quando le parti si invertono.
“Il tipo di mente del fisico non potrebbe mai penetrare il mistero dell’universo [...]”. (1)
Ogni verità egoica, che ha in sé il potere di separare, ha anche quello di impedire l’evoluzione individuale, quindi umana. Al contrario, una volta emancipati dalle burrasche egoiche, avvertiamo una verità, generalmente detta d’amore, che conduce tutti verso un solo punto prospettico, quello dell’unione di tutte le cose, dell’Uno. Un destino disponibile a tutti, libero da qualsivoglia ideologia, da quelle strutturate alle quali si può aderire in massa, a quelle individuali nascoste sotto l’educazione, la morale, le esigenze, i sentimenti, la scienza, la filosofia, la presunta superiorità dell’intelletto.
La conoscenza emozionale ha carattere globale e ha a che vedere con l’infinito. La conoscenza cognitivo-analitica, col finito. Infatti, il medium logico-meccanico di causa-effetto realizza la materia misurabile, mentre quello alogico-magico-quantistico genera sentimenti ed emozioni, a loro volta creatori di mondi incommensurabili e meccanicisticamente imprevedibili.
Forse, è per questi argomenti che la libertà del linguaggio lirico ha il significato e il potere del tappeto volante, che conduce dove la rigida prosa analitica non ha accesso a causa della sua gravità, che le impedisce di elevarsi dal buco nero in cui risiede, che non ha mai ali.
Ce lo dice anche il mito della Torre di Babele secondo il quale i diversi idiomi impediscono agli uomini di capirsi e li inducono, per questo, a combattersi, generando così l’inferno. Ma è una metafora. Non sono, infatti, le lingue differenti il deus ex machina della sofferenza, ma la presunta indipendenza dell’io dal tutto. È questa che genera l’impossibilità di trovare un’unica verità permanente e di realizzare la consapevolezza che sono le circostanze, circoscritte dalle proprie idee, a generare una moltitudine di verità mutevoli.
L'io ritiene di essere l'autore del pensare. Solo nei pensieri esso esiste. Lotta in loro difesa, poiché ne andrebbe di se stesso. All’uomo identificato col proprio io essi appaiono sempre legittimi, giusti e necessari, a qualunque conclusione portino. Qualunque, sì, in quanto altri uomini, affermando altre conclusioni, ne sono lo specchio in altra forma, tempo e circostanza.
Ci sono due uomini. Uno descrive il mondo all’altro, concludendo che questo ci sarebbe anche se non ci fosse nessuno a raccontarlo. L’altro fa presente che il mondo è solo nella descrizione che ne si può fare. “Se tu non ci fossi che mondo potresti descrivere?” Chiede il secondo al primo.
Entrambi i tipi di uomini, tutti, non sanno di supportare conclusioni effimere, sempre a sostegno delle proprie biografie. Entrambi, tutti, le credono, infatti, punti fermi della verità. Ogni io prende dal cesto delle idee solo quelle idonee a se stesso.
Sembra una cialtronata – secondo le parole dello scientista – ma a quale altro dio può rivolgersi il musulmano se non ad Allāh, il cristiano se non a Dio, l’ebreo se non a Yahveh. E così via, dal bimbo che non può che replicare quanto detto dai genitori, agli adepti di un’ideologia che non possono che contestare le ideologie altrui.
“Non credeva che gli uomini potessero agire saggiamente per conto proprio. Riteneva invece che ogni atto ben presto eludesse il controllo di chi lo perpetrava, per allargarsi in un’ondata clamorosa di conseguenze impreviste”. (2)
Ogni perché ha già la sua risposta (hiperuranio), purché non la si ricerchi nel rivolo della ragione. Cercare in esso la causa delle cose è impedire la conoscenza. Come anche appellarsi al “ma è ovvio!”. Un’affermazione fondata sull’inconsapevole idea che il campo ristretto della nostra visione corrisponda a quello altrui.
È solo dai campi chiusi, territori concettuali ordinati da norme, regole e linguaggio condivisi da chi è al loro interno, con relativamente pochi elementi e dinamiche, che emerge la verità. Quella che Foucault ha contenuto ne “la verità sta nel discorso”.
Quelli umanistici sono tendenzialmente infiniti, moltiplicati dalla libera interpretazione dettata dalle esigenze di chi la esprime, nonostante i potentati si impegnino a controllare le menti degli individui, a provocare emozioni che li avviluppino al fine di prevederne le istanze e, così, dirigerne il pensiero e l’azione. È il modo dell’imbonitore.
Dunque, le verità che gli uomini si adoperano per raggiungere e difendere hanno bisogno di alvei o regole o norme – tutte e sempre autopoietiche – per emergere, divenire ideologia in senso lato, lasciandoli ammaliati dalla loro apparente consistenza. Una solidità potente, perlopiù, in occasione di ogni affermazione, messa sul tavolo, nel rispetto del mito babelico dell’arroganza, come fosse un’universalità.
Vista corta quella degli uomini, nelle loro verità, nelle loro affermazioni, nelle loro ideologie, ideale per impedire di avvedersi della superficie in cui scorrono i ruscelli, i torrenti e i fiumi. Inadatta a scendere in profondità e trovare il cuore del mondo.
“Walter Russell ha raffigurato l’ordine, la simmetria e l’equilibrio che tutta la Natura esprime. Egli spiega come la Natura si polarizza e si depolarizza perpetuamente in ogni sua espressione, proprio come voi fate in ogni vostra azione e in ogni secondo della vostra vita nelle vostre cose, ma non ne siete consapevoli”. (3)
Questa affermazione di Russel rispecchia una realtà che si potrebbe chiamare quantistica, in quanto essa prende la forma dell’osservatore, ovvero delle esigenze sottili ed esplicite che in esso rutilano. Per fare un solo esempio di come l’osservazione unisca certi punti e ne scarti altri, si può evocare la deformazione professionale. Uno schema nascosto che, con modulazioni varie, è sempre presente in ogni io giudicante.
Una psicologia estranea agli animali che, privi del linguaggio logico-intellettuale, non proiettando sé stessi nella realtà, vivono nel qui e ora. Risiedono, dunque, nel presente, che altro non è che “libertà dal conosciuto”. Una modalità esistenziale che implica la consapevolezza dell’origine concettuale della cosiddetta realtà oggettiva, in quanto è sempre solo mentalmente e arbitrariamente che elaboriamo congetture per definire lo stato della realtà/mondo.
“Per secoli, la scienza ha cercato il PERCHÉ delle cose nella materia e non sembra rendersi contro che il PERCHÉ non è affatto nella materia, né nello spazio. Lo spazio è materia tanto quanto lo sono i pianeti, ma di forma, potenziale e scopo opposti. C’è qualcosa oltre la materia delle galassie e dello spazio che i sensi non possono comprendere, ma la coscienza sì”. (4)
Note
.1 Walter Russell, L’uno universale, s.e., s.l., 2022, p 5.
.2. Cormac McCarthy, Oltre confine, Torino, Einaudi, 2014, p. 127.
.3 Ivi, pp. 4-5.
.4 Ivi, pp. 4