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Cosa stanno cercando di dirci le società «primitive» prima di spegnersi per sempre

di Francesco Lamendola - 16/03/2009


 

Ovunque le cosiddette società primitive (ma primitive rispetto a che cosa?) stanno scomparendo a ritmo sempre più rapido. Entro pochi anni, di esse non resterà che il ricordo nei musei etnologici e nelle ricerche condotte tra esse da un certo numero di antropologi.
È una scomparsa silenziosa, della quale pochissimi si accorgono nel mondo che si autodefinisce civile e pochi anche fra coloro i quali hanno qualche rapporto di vicinanza geografica con i popoli nativi e che pure, in genere, sono proprio gli artefici - magari inconsapevoli - di una tale, sistematica distruzione.
Già molte culture sono scomparse dalla faccia della Terra, cancellate per sempre. Che cosa resta, oggi, dei Puelche e dei Teuhuelche dell'Argentina, degli Ona della Terra del Fuoco, dei popoli «canoeros» del Cile meridionale: Chonos, Alakaluf, Yamana o Yaghan? Quanti sono i Khoisan (Boscimani, Ottentotti e Berg Damara) che vivono liberi nella savane e nell'arida steppa ai margini del Kalahari - autori di antiche, bellissime pitture rupestri -, non ancora persuasi della necessità di imitare i loro compagni che hanno accettato di insediarsi nei centri governativi, ove possono disporre di condutture d'acqua e sconfiggere la loro eterna nemica, la siccità, e la sua minacciosa compagna, la sete? E Gli Ainu di Hokkaido, il misterioso popolo di razza bianca del Giappone settentrionale e della parte meridionale dell'isola Sakhalin, celebri per la loro cerimonia religiosa incentrata sull'orso: quanti sono ancora e fino a quando potranno resistere al richiamo della comoda vita urbana e alla pressione della società moderna, che sta distruggendo inesorabilmente il loro ambiente e le risorse del territorio?
Salvo che per alcune tribù di indios della foresta amazzonica e in pochi altri casi, la distruzione delle società primitive non presenta più i caratteri violenti che essa aveva in passato, ad esempio quando i «bandeirantes» di San Paolo del Brasile penetravano nell'interno a caccia di indigeni Tupì   e Guaranì da fare schiavi, per rivenderli ai proprietari delle piantagioni di caffè. La distruzione si serve ormai di mezzi ben più sofisticati e, del resto, si presenta camuffata da ideologia del progresso, ossia come benefica avanzata dello «sviluppo»: ora sotto forma di una autostrada da costruire per collegare località isolate con la costa, ora per mettere a coltura nuovi terreni destinati a sfamare l'eccesso di popolazione.
Del resto, perché mai dovremmo stupirci del fatto che le ultime società primitive scompaiono senza far rumore, dal momento che una cosa del genere è accaduta, meno di mezzo secolo fa, proprio alla nostra società contadina, e quasi nessuno di noi se ne accorse in tempo? Non se ne accorsero gli etnologi, tutti presi dallo studio dei popoli lontani; né gli uomini politici, gli amministratori e i sociologi; perfino la maggioranza degli intellettuali non se ne rese conto, tranne qualche poeta e qualche scrittore isolato: Pasolini, Zanzotto, Camon. Erano tutti ipnotizzati davanti alla scatola  magica prodotto dalla tecnologia applicata alle comunicazioni di massa: la televisione; e tutti stregati dal nuovo oggetto del desiderio, che sempre più fungeva da surrogato di una sbandierata ma in realtà assai problematica «liberazione» sessuale: l'automobile privata.
Quanto ai giovani, erano tutti infatuati dai «Beatles» e da un esercito di divetti dello spettacolo in  formato tascabile, che portavano i capelli lunghissimi e parlavano di fiori, pace e amore, ma anche di sballo, di droga, di protesta; figurarsi se avevano il tempo di accorgersi che la millenaria civiltà rurale stava agonizzando sotto i nostri occhi. Specialmente se quei giovani erano di estrazione contadina. Per loro, andarsene dal paese e inurbarsi era di gran lunga la massima aspirazione, il segno più tangibile della riuscita emancipazione.
Così, come quei capi indigeni che vendettero le loro terre ai colonizzatori bianchi in cambio di qualche perlina colorata e di qualche specchietto, anche noi abbiamo venduto la nostra antica civiltà contadina, ecologica e a misura d'uomo, in cambio di qualche paccottiglia luccicante e rumorosa; e ci è sembrato di fare un buon affare. Chi avrebbe dovuto vedere, non ha visto; chi avrebbe dovuto capire, non ha capito; chi avrebbe dovuto mettere in guardia, non solo ha taciuto, ma si è adoperato in ogni modo perché procedessimo al baratto con animo lieto.
E così, insieme alla civiltà contadina, abbiamo venduto le nostre radici, la nostra visione del mondo, la nostra etica e la nostra estetica. In breve, ci siamo venduti l'anima.
Frattanto, le società primitive che stanno scomparendo per sempre, e delle quali, fra poco, non resterà che un mesto ricordo, stanno cercando disperatamente di dirci qualcosa, di trasmetterci un messaggio: e i loro Mani non saranno placati fino a quando non lo avremo compreso, ma continueranno a perseguitarci con amari rimpianti.
Qual è questo messaggio, dunque?
Non certo la nostalgia del «buon selvaggio» di settecentesca memoria. L'idea del «buon selvaggio» è una pura e semplice sciocchezza, una proiezione della cattiva coscienza dell'occidentale, il quale vorrebbe mettere a tacere i propri scrupoli di animale da preda civilizzato creando un riflesso speculare di se stesso, nel quale trasferire la sua parte migliore.
Il selvaggio non è mai stato «buono» o «cattivo», in quanto selvaggio: e ciò vale anche per quei casi - come gli Irochesi che torturavano gli Huroni prigionieri con satanica ferocia, prolungandone l'agonia il più a lungo possibile, per puro divertimento; o come certe tribù Papua cannibali, che sfracellavano i bambini del nemico per poi estrarne il cervello caldo dal cranio e berselo come un gelato - nei quali il giudizio morale dell'occidentale non sembra conoscere dubbi di sorta in proposito.
Claude Lévi-Strauss, il grande antropologo strutturalista, che fin dalla prima metà del secolo scorso osservava il processo inesorabile di distruzione delle società primitive e, pur deprecandolo,  lucidamente ne proclamava il carattere irreversibile, non aveva dubbi in proposito. La cosa principale che esse hanno da insegnare all'uomo che si ritiene civile, egli diceva,  è la saggezza. Quanto a noi, potremmo anche adoperare un'altra espressione, dicendo che esse hanno da insegnarci il senso del limite; infatti, le società primitive sono accomunate e caratterizzate dal un senso del limite altamente sviluppato. I loro membri sanno che non tutto può essere fatto, anche se ciò sarebbe praticamente possibile e anche se ciò sembrerebbe rispondere a criteri di praticità e comodità.
L'autore di «Tristi Tropici» era convinto che le società primitive possono trasmetterci una profonda lezione di saggezza, nel senso che lo studio di esse ci insegna che esistono molte maniere, per gli uomini, di vivere insieme; che quella che noi abbiamo scelto non è la sola buona e neppure l'unica possibile, e che - quindi - essa non deve renderci ciechi ai vantaggi che possono provenire dall'adozione di formule diverse.
Sarebbe un errore, aggiungiamo noi, pensare che il senso del limite sia dovuto, semplicemente, al fatto che le società primitive conducono un sistema di vita in cui è necessario mantenere un rapporto equilibrato tra il prelievo delle risorse e l'effettivo utilizzo che ne viene fatto, come se esse si delineassero quali società sobrie unicamente perché non possono permettersi il lusso di sperperare.
Del pari, sarebbe profondamente errato ritenere che esse sono riuscite a conservare un mirabile rapporto con la natura (con le debite eccezioni: non furono poche le società primitive che esaurirono il suolo e causarono l'estinzione di specie animali, come i Maori con i Moa della Nuova Zelanda), solo perché non possiedono una tecnologia in grado di alterare seriamente gli equilibri ecologici;  come se fossero «virtuose» per mancanza di occasioni di peccato.
No: il senso del limite (come, del resto, nel caso della civiltà contadina) aveva a che fare essenzialmente con l'atteggiamento profondamente religioso che caratterizza le società pre-industriali e, dunque, con il senso del mistero.
«Ho ucciso un mio fratello», diceva, nella sua preghiera, un Navajo, allorché doveva abbattere un pino, rivolgendosi al Signore degli Alberi. Certo, nelle aride regioni del Nuovo Messico e dell'Arizona la vegetazione arborea è rara e il legname, di conseguenza, una ricchezza preziosa; ma basta questa considerazione economica a spiegare l'atteggiamento di religioso rispetto che i Navajos mostravano nei confronti della natura?
Possiamo fare un altro esempio, ancora più chiaro, per meglio illustrare il concetto di sobrietà e senso della misura che caratterizza quasi tutte le società primitive, sia nei rapporti con l'ambiente fisico, sia in quelli di natura sociale.
Ce lo presenta l'etnologo Georg Gerster, autore di uno studio sul campo del popolo dei Borana, allevatori nomadi dell'Etiopia meridionale; un popolo così integrato con il proprio ambiente, da considerare gi animali simili all'uomo e non come un semplice cibo, tanto che il recinto dove sta rinchiuso il bestiame  era il luogo d'onore per i funerali solenni.
Scrive dunque Gerster (nel volume miscellaneo: «Gli ultimi paradisi»; titolo originale: «Die letzen Paradiese der Menschheit», 1977; traduzione italiana di Roberto Aguerre, Milano, Euroclub, 1979, p. 85):

«Nel loro ambente ancora ecologicamente intatto, i borana possono sopravvivere solo grazie ai pozzi perforati nella viva roccia. Essi non hanno mai preteso di essere gli autori di queste impressionanti voragini, al contrario dicono di averle, per così dire, ereditate da una precedente popolazione. Il funzionamento dei pozzi, soprattutto la composizione della catena umana che attingono l'acqua, riflette un'attività di notevole senso comunitario. I gruppi piccoli, o quelli con elementi invalidi, dipendono per l'approvvigionamento dell'acqua dai gruppi più numerosi:  i borana sono orgogliosi di questa responsabilità, che fa parte della loro tradizione, dei più forti verso i più deboli.
I giovani borana sognano le pompe a motore per sfuggire alla servitù dell'estrazione dell'acqua, ma l'abba gada [la massima autorità politica, militare e giudiziaria, in carica per otto anni] a cui feci visita per ascoltarne l'opinione, ur senza minimamente conoscere il significato dei termini ecologia ed economia idrologica,  seppe dare la risposta giusta: "Ci opporremo alle pompe a motore con tutte le nostre forze. Più acqua significa più bestiame, più bestiame significa ancora più acqua, e così via via, sempre più di entrambe le cose, fino a quando i pascoli si esauriranno e l'acqua non ci sarà più per sempre…"»

Ecco il punto: per la maggior parte delle società primitive, l'atteggiamento conservatore verso le innovazioni del «progresso» non è il risultato di una impotenza tecnologica o, meno ancora, intellettuale, ma di un una sagace intuizione degli effetti degenerativi di molte delle supposte forme di «progresso».
Questo modo di porsi di fronte alla realtà è, per l'«homo tecnologicus» (variante moderna in camice bianco del vecchio, vecchissimo «homo oeconomicus») semplicemente inconcepibile. Per noi, è ovvio che, se è possibile creare uno strumento capace di alleviare la fatica materiale e di aumentare la produzione di beni,  la cosa va fatta senza por tempo in mezzo, e senza alcun bisogno di fornire una giustificazione di qualsiasi tipo. Per noi, infatti, il progresso, inteso come capacità di manipolazione della natura, è qualche cosa di autoevidente.
Non per nulla Sir Francis Bacon, il tristo profeta di questo nuovo atteggiamento mentale - tipico della modernità - sosteneva che «Sapere è potere» (cfr. il nostro precedente articolo: «Manipolazione spietata di cose, vegetali ed animali nella "Nuova Atlantide" di Francesco Bacone»,consultabile sul sito di Arianna Editrice).
E la stessa cosa si osserva in quel particolare ramo della tecnologia moderna che è costituito dalla bioingegneria, a cominciare dalla clonazione degli esseri viventi o dalla produzione su scala industriale, a scopo alimentare, di organismi geneticamente modificati.
Ma torniamo a Lévi-Strauss.
Nel 1973, intervistato da M. José  Ragué Arias per l'editore Salvat di Barcellona, il famoso antropologo Claude Lévi-Strauss si esprimeva in questi termini circa il problema complessivo delle cosiddette «società primitive» e della loro ineluttabile scomparsa, sotto la pressione crescente della «civiltà» (nel volume di José Ramón Llobera, «Le società primitive», Novara, De Agostini, 1977, pp. 9-15, 88-95); edizione originale Barcellona, Salvat, 1973):

«D.: A quale realtà si riferisce l'antropologia quando dice di occuparsi delle "società primitive"?
R. Le società che si chiamano primitive non sono evidentemente più "primitive" delle nostre. Dappertutto. Il passato dell'umanità è lo stesso e, dai milioni di anni in cui esistono degli ominidi sulla Terra, si può dire che le società (per quanto si possa già dar loro questo none) si sono formate, hanno subito un'evoluzione per cambiare o per scomparire e, in quest'ultimo caso,  lasciare il posto a società nuove. Nessuna di quelle società che è stato possibile osservare nel corso degli ultimi secoli, o che si osservano ancora oggi, offre dunque l'immagine, miracolosamente conservata, di quelle in cui sono vissuti i più lontani antenati. Sarebbe più giusto dire che le società studiate dagli etnologi differiscono dalle nostre perché si considerano conformi a tutto ciò che erano le società del passato. Ma procedere in tale identificazione è un errore, dal momento che tutte le società mutano continuamente, anche quelle che cercano di proteggere e di perpetuare la propria originalità invocando un passato mitico che le è proprio. È questo fatto che le rende particolarmente preziose per l'etnologo, dal momento che ciascuna di esse costituisce così un'esperienza compiuta, cioè rappresenta il modo particolare che degli uomini hanno scelto per risolvere il problema del vivere insieme. Queste società vengono così a formare un laboratorio spontaneo sulla scala del mondo intero.
D: Negli ultimi anni, gli antropologi hanno evitato di usare l'espressione "società primitive", sostituendola con eufemismi del genere  "società semplici", "altre culture" ecc., che servono a nascondere un certo paternalismo legato al complesso di superiorità ereditato dall'antropologia vittoriana. Fino a che punto, secondo lei, l'antropologia non costituisce un'illusione etnocentrica?
R.: Se vuole dire che la conoscenza scientifica è nata e si è sviluppata nella nostra civiltà, sono d'accordo con lei; anche se non bisogna dimenticare che la curiosità etnologica è apparsa, secoli fa, presso i Cinesi e gli Arabi. Ma sembra che allora essa non abbia prodotto molti frutti. Comunque non vedo nulla di "vittoriano" nel fatto di porre e di tentare di risolvere un problema di conoscenza. Le società studiate dagli etnologi non posseggono archivi e sfuggono al lavoro di ricerca degli storici i quali, proprio per questa ragione, le hanno a lungo disprezzate.  Per arrivare a conoscerle ad un livello di analisi paragonabile alle altre, era dunque necessario elaborare un metodo diverso da quello della storia: è così che è nata l'etnologia. Ma non è più etnocentrico studiare in qualità di etnologo i costumi dei melanesiani di quanto non lo sia il dedicarsi in qualità di storico alla ricerca delle istituzioni della Grecia e di Roma antica.
D.: L'antropologia, come le altre scienze umane, ha contribuito a creare la dicotomia "società civili - società primitive"; questa dicotomia si riflette in un modo o nell'altro in molte delle sue tipologie. D'altra parte, le "società primitive" vengono  negativamente, cioè in rapporto ala mancanza di determinati elementi caratterizzanti delle società civili (società senza mercato, senza classi, ecc.) Anche quando ci troviamo in presenza di una definizione specifica, questa è generalmente imprecisa e incapace di organizzare scientificamente l'immensa varietà empirica delle società primitive. Crede che sia possibile andare al di là dell'aspetto tipologico e descrittivo nello studio delle società primitive, e qual è il metodo che lei propone per raggiungere questo scopo?
R.: La mia risposta precedente contiene in germe quella che darò alla sua nuova domanda. Secondo la mia opinione, la sola caratteristica obiettivamente comune in tutte le società che noi studiamo è quella di aver ignorato o di non aver pienamente utilizzato la scrittura e le sue risorse. Direi dunque volentieri che si tratta di società senza scrittura; oppure, se se ripugnano le definizioni negative: società caratterizzate dalla tradizione orale.
Certo, questo criterio è troppo vago e troppo generale, e richiederebbe inoltre di essere molto attenuato (ad esempio, per quanto riguarda l'antico Messico), perché sia possibile fondare su di esso una tipologia delle società umane. Glielo confesso apertamente: io non vedo la necessità, e neppure la possibilità, di una simile tipologia, che ci farebbe immediatamente ricadere nelle secche di un evoluzionismo unilaterale. Si possono costruire delle tipologie parziali, che sono applicabili a determinati aspetti della vita e del funzionamento delle società. Per quanto riguarda la parentela e le regole del matrimonio, ne ho tracciato una. Altri hanno fatto la stessa cosa per le tecniche,  l'attività economica, la religione... Ma una società è una realtà estremamente complessa che sarebbe impossibile definire con un'unica caratteristica, o con un piccolo numeri di caratteri che permettano di classificarla entro una data tipologia. La descrizione di una società obbliga sempre a fare ricorso ad un gran numero di dimensioni che, da una società all'altra., non si definiscono in un identico modo.
D.: Il concetto di "sistema di trasformazioni" che lei ha applicato ai sistemi di parentela e dei miti svolge un ruolo centrale nella sua opera. Potrebbe spiegarne il significato? Lei crede che questo concetto potrebbe dar conto della diversità di queste "società"?
R.: Non sono stato io ad inventare la nozione di sistema di trasformazione. La sua origine è matematica, ed è stata utilizzata in maniera molto feconda in botanica nel XVIII secolo da Goethe, e in zoologia all'inizio del XX secolo, da d'Arcy Wentworth Thompson. Fin dal Rinascimento, d'altronde, Albrecht Dürer ne aveva avuta l'intuizione quando aveva dimostrato, come teorico della pittura, che era possibile trasformare un profilo umano in un altro facendo variare in modo molto  semplice il sistema di coordinate usate per rappresentare il primo.
Il mio ruolo si è dunque limitato alla trasposizione nel campo delle scienze umane di un metodo di intelligibilità che si era già conquistato dei titoli in altri ambiti. Perché l'ho fatto? Perché le scienze umane studiano oggetti così complessi, nei quali sono presenti un numero talmente elevato di variabili, che non si può mai esser sicuri di essere arrivati a comprenderne la natura vera o ultima. Ora, se si rinuncia a tratte questi oggetti come entità separate, e li si tratta al contrario come delle  trasformazioni degli uni negli altri nell'ambito di un campo determinato, ci si accorge, come nel caso dei profili di Dürer, che le relazioni che li uniscono sono molto più semplici, e meglio intelligibili, di quanto non appariranno mai quegli stessi oggetti, se considerati per conto suo.
Ma - e qui rispondo all'ultima questione da lei sollevata - in questo modo non è mai possibile studiare delle società prese nel loro insieme, bensì piuttosto certi campi della vita sociale come il linguaggio, la parentela l'arte, la religione e - perché no? - altri aspetti più umili come la cucina, l'attribuzione dei nomi propri agli uomini e agli animali, la moda ecc.
Con quest'ultima precisazione, credo che si possano studiare nel modo che ho detto tutti questi tipi di fenomeni in qualsiasi società.
D.: Lei ha parlato del "primato delle infrastrutture". Che cosa bisogna intendere con questo termine riferito alle società primitive?
R.: Affermare il primato delle infrastrutture significa dire che l'uomo, a qualunque società appartenga, pensa in favore delle sollecitazioni di un mondo determinato in cui egli è nato e nel quale vive. Questo mondo è contemporaneamente fisico, tecnico, economico e sociale.
Tutto questo vale tanto per le società cosiddette "primitive" che per le nostre, anche se le infrastrutture sono caratterizzate da contenuti molto diversi.
D.: L'etnocidio fisico e culturale delle società primitive non sembra volersi arrestare. Qual è dunque il futuro di queste società? Che cosa possono fare gli antropologi per aiutare queste società a sopravvivere?
R.: Ogni anno che passa assistiamo alla distruzione fisica o morale di diverse società, all'annientamento di lingue ciascuna delle quali rappresenta invece un capolavoro del pensiero umano e dovrebbe, in quanto tale, venir circondata da altrettante cure e da altrettanto rispetto come facciamo per i monumenti dell'architettura, o per le opere dei grandi pittori che conserviamo gelosamente nei musei.
Tutto ciò è desolante, certamente, ma io non vedo proprio come si potrebbe arrestare questo processo, il quale è il risultato, contemporaneamente, dell'esplosione demografica e dell'espansione della civiltà industriale, fenomeni d'altra parte intimamente legati l'uno all'altro. Che le società cosiddette "primitive" siano destinate alla scomparsa è un fatto che mi sembra fin troppo evidente. L'etnologo può solamente, in casi particolari, consigliare gli Stati (che non lo ascoltano mai) di frenare determinate trasformazioni, di predisporre delle tappe graduali, di avvertire i pericoli.
E tutto ciò presupponendo che si accetti di ascoltare la nostra vice, cosa di cui dubito molto.
D.: Per molta gente, sia in Occidente che nel Terzo Mondo, le "culture primitive" non sono altro che un ostacolo allo sviluppo economico ed all'integrazione con il mondo moderno. Quale lezione può trarre il mondo moderno dalle società primitive?
R.: Innanzitutto una lezione di saggezza. Lo studio di queste società ci insegna che esistono molte maniere, per gli uomini, di vivere insieme; che quella che noi abbiamo scelto non è la sola buona e neppure l'unica possibile, e che quindi essa non deve renderci ciechi ai vantaggi che possono provenire dall'adozione di formule diverse.
In secondo luogo, queste società sono riuscite in un certo numero di cose che noi non sappiamo più fare:  come trasmettere ad esempio senza traumi la nostra cultura di generazione in generazione oppure, soprattutto, come vivere in buoni rapporti con l'ambiente naturale e riuscendo a rispettarlo.
Queste società senza dubbio conferiscono all'uomo un posto privilegiato, ma nessuna di esse fa di lui il padrone e signore del creato., libero di disporne a suo piacimento senza preoccuparsi minimamente delle specie vegetali e animali che egli distrugge, e di che genere di mondo egli lascerà ai suoi discendenti. Dopo la lezione di saggezza, possiamo dunque attenderci da queste società una lezione di moderazione.
D.: In conclusione, qual è il futuro dell'antropologia se scompaiono le società primitive?
R.: Intanto va detto che le cose non procedono così velocemente come si crede. Esistono sparse nel mondo centinaia di società che non sono ancora state studiate seriamente: anche in quelle che si trasformano rapidamente, resteranno a lungo preservati interi settori del sapere.
L'etnobotanica e l'etnozoologia si occupano della ricerca e della raccolta delle prodigiose conoscenze che sempre queste società posseggono del loro ambiente naturale. La fine dell'antropologia tradizionale non è un fatto del domani immediato, ma tuttavia è necessario affrettarsi.
In secondo luogo, nei paesi che hanno raggiunto di recente l'indipendenza, o che stanno per raggiungerla, l'antropologia praticata dall'esterno si trasformerà in ricerche praticate dall'interno, e non per questo meno indispensabili: scienziati indigeni, al posto degli etnologi europei o insieme ad essi, si dedicheranno a studi che saranno sostanzialmente gli stessi e che semplicemente avranno cambiato nome: si chiameranno storia, archeologia, filosofia, filologia, linguistica…
Inoltre va detto che anche se dovesse impiantarsi su tutta la Terra una civiltà mondiale e perfettamente omogenea - cosa di cui io dubito - essa non durerebbe affatto. Gli uomini hanno bisogno che fra di essi si mantenga una certa diversità; altre forme faranno la loro comparsa secondo modalità che noi non sospettiamo neppure.
L'uomo non sarà dunque mai perfettamente trasparente a se stesso, e si vedranno conservare o sorgere dei coefficienti di estraneità.
Si può dunque affermare che, fintantoché l'uomo esisterà sulla Terra, vi sarà sempre posto per un'antropologia.»

Anche queste ultime parole del grande studioso dovrebbero essere attentamente meditate e se ne dovrebbero trarre le debite conclusioni. «Fintantoché l'uomo esisterà sulla Terra, vi sarà sempre posto per un'antropologia».
Speriamo che non si ripeta quello che è accaduto fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del'900, quando la nostra civiltà contadina è stata assassinata nell'indifferenza generale.
Speriamo di ricordarci che l'antropologia ha ancora moltissime cose da dirci, purché noi teniamo fermo al principio che l'uomo non è un essere ad una dimensione - quella economica -, ma a molte dimensioni; ivi compreso il diritto ad esprimersi di quello che lo storico olandese Johan Huizinga chiamava, giustamente, «homo ludens».
L'uomo è quella creatura che, oltre a perseguire la lotta per la sopravvivenza, sa ritagliarsi il tempo per sognare, per giocare, per vedere la bellezza del mondo e per renderne grazie a Qualcuno più grande di lui.
Il giorno in cui tutte queste dimensioni scomparissero, e non rimanesse che quella del Logos progettante e strumentale, non vi sarebbe più spazio per l'antropologia, per il semplice fatto che non vi sarebbe più l'uomo.