Occidente: dalla potenza assoluta alla impotenza strategica
di Luigi Tedeschi - 04/07/2025
Fonte: Italicum
Israele e USA: un fallimentare delirio di onnipotenza
Il mainstream ha imposto una narrazione virtuale del conflitto degli USA e Israele contro l’Iran da cui tutti
escono vincitori: questa guerra si è conclusa senza sconfitti. Viene pertanto oscurata la realtà di una tregua
non risolutiva del conflitto, ma che inaugura una nuova fase di ulteriore instabilità nell’area mediorientale,
che prefigura potenziali nuove guerre.
Netanyahu, dopo aver ingaggiato 5 conflitti senza averne concluso nessuno, ha aperto un nuovo fronte con
l’Iran, al fine di conseguire una vittoria con il necessario coinvolgimento degli USA. In realtà, Trump è
intervenuto non per distruggere un fantomatico arsenale nucleare iraniano, ma per scongiurare una
probabile sconfitta di Netanyahu e quindi, con la tregua, porre fine al conflitto.
Con l’aggressione all’Iran si è riproposta la strategia delle guerre preventive iniziata da Bush junior e
dall’establishment Neocon, già messa in atto nelle guerre in Iraq, Libia, Afghanistan. L’obiettivo di tale
strategia era ed è quello di destabilizzare l’area mediorientale e di creare con la guerra una nuova
architettura del Medio Oriente con una egemonia israeliana a garanzia del dominio statunitense sulle
risorse energetiche sulle aree strategiche della regione. Si imponeva quindi un regime change in Iran,
peraltro assai improbabile da realizzare senza un intervento diretto di truppe sul territorio. Si è inoltre
dimostrata infondata l’ipotesi di una destabilizzazione interna dell’Iran messa in atto con l’innesco di una
“rivoluzione colorata” degli oppositori iraniani contro un regime, che la aggressione occidentale ha anzi
contribuito a rafforzare.
L’obiettivo della strategia americana invero, non era tanto quello di provocare un regime change rivelatosi
improbabile, quanto piuttosto di far deflagrare una serie di conflitti interni nell’area, che conducessero alla
frammentazione dell’Iran, onde eliminare un pericoloso competitor dell’Occidente. In sostanza, gli USA,
mediante il braccio armato israeliano, non vogliono imporre un nuovo ordine in Medio Oriente, ma semmai
generare uno stato di caos e conflittualità permanenti. Ma tale strategia presuppone la capacità
dell’egemone di controllare e dominare il caos. E gli USA hanno dimostrato già in passato di non esserne in
grado. Anzi, dal caos sono sempre scaturiti nuovi nemici dell’Occidente e le ripetute sconfitte, con relative
ingloriose ritirate americane, ne sono la prova evidente.
Dalla guerra dei 12 giorni, l’Iran ne esce rafforzato sia all’interno che nelle sue alleanze con Russia e Cina, al
punto che è largamente prevedibile che nel prossimo futuro sarà dotato dell’arma nucleare, la cui
deterrenza scongiurerà nuove aggressioni. Il popolo iraniano si è compattato non tanto a sostegno del
regime, quanto perché animato dal timore di una destabilizzazione politica che potesse generare un caos
interno incontrollabile, come accaduto in Siria, Libia e Iraq. Tale prospettiva è ben delineata in un articolo di
Albero Negri dal titolo “La tigre della guerra è uscita dalla gabbia”, pubblicato su “Il Manifesto” del
15/06/2025: “Un cambio di regime con un sollevamento della popolazione, come vorrebbe il premier
ebraico con il suo appello alla popolazione iraniana, però non è probabile: gli iraniani temono il regime ma
forse temono ancora di più di fare la fine dell’Iraq e precipitare nel caos e nell’anarchia”.
L’Iran, plurisanzionato e criminalizzato dall’Occidente in tema di diritti umani, ha regole democratiche, un
presidente eletto e nel suo parlamento sono rappresentati tutti i popoli e le religioni presenti nel suo
territorio, ma non è uno stato liberale. L’Iran inoltre aderisce al trattato di non proliferazione nucleare.
Israele, possiede da 90 a 200 ordigni nucleari mai sottoposti al controllo di organismi internazionali e, con le
uccisioni di numerosi leader politici e militari di un paese sovrano e membro dell’ONU quale è l’Iran,
effettuate mediante bombardamenti di palazzi residenziali, si è reso responsabile di atti di terrorismo,
peraltro dichiarati e rivendicati, senza essere mai sanzionato dall’Occidente, alla pari del genocidio di Gaza
tuttora in atto.
Si è giunti alla tregua per l’esaurimento della potenza aggressiva di Israele e degli USA. Fallita la guerra
lampo, una guerra di logoramento si è rivelata per loro insostenibile. Sono state sottovalutate le capacità di
resistenza dell’Iran, che è in grado di produrre 300 missili al giorno ed i suoi impianti nucleari non sarebbero
stati gravemente danneggiati. Israele si è dimostrato vulnerabile nei confronti delle ritorsioni iraniane, il
suo sistema di difesa antimissile Iron Dome è ormai saturato, le scorte missilistiche sono sul punto di
esaurirsi. Israele è dipendente dalle forniture di armamenti degli USA, i cui arsenali sono assai sguarniti e la
loro ricostituzione si presenta problematica, a causa degli elevati costi di fabbricazione e di una tempistica
produttiva assai dilatata nel tempo. La produzione di armamenti in Occidente si è rivelata nella Guerra
Grande non competitiva rispetto alla Russia e alla Cina, che non potranno non essere coinvolte in questo
conflitto mediorientale. Un crollo dell’Iran, inibirebbe alla Russia l’accesso all’Oceano Indiano e
comporterebbe la destabilizzazione da parte dell’Occidente della sua area di influenza centroasiatica. Alla
Cina verrebbe preclusa la Via della Seta, quale essenziale via commerciale di collegamento con il
Mediterraneo.
Da questa guerra sono inoltre emerse le profonde fratture interne alle istituzioni americane. L’attacco
israeliano all’Iran è stato avallato e sostenuto da forze interne agli USA, indipendenti da Trump, che ne è
rimasto marginalizzato. Lo schieramento Neocon, trasversale ai dem e ai repubblicani, annovera nei suoi
ranghi la lobby ebraica, il potere finanziario delle Big Three, che detengono larga parte del risparmio
mondiale, l’industria degli armamenti, una quota rilevante dei Giganti del web, esponenti autorevoli degli
apparati burocratici e militari. I Neocon esercitano il potere reale negli USA da circa 30/40 anni. L’ideologia
dei Neocon si identifica con l’espansionismo messianico americano, perseguito in passato da Clinton, Bush,
Obama e Biden, al fine di imporre una egemonia mondiale degli USA, che però si rivela ormai impossibile.
Trump, che non ha il controllo della politica estera americana, si è riposizionato dinanzi al fatto compiuto
della guerra e, dopo essersi vantato della millantata distruzione del nucleare iraniano, ha tuttavia imposto
una tregua temporanea, coinvolgendo Putin in eventuali trattative future.
L’esito della guerra dei 12 giorni può essere valutato alla luce dell’affermazione di Henry Kissinger secondo
cui “Il guerrigliero vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince”. Da tale paradigma
interpretativo emerge in tutta evidenza la sconfitta di Israele e degli USA. Il fallimento del piano che
prevedeva un regime change iraniano imposto dall’esterno, non potrà che determinare profonde
conflittualità interne nelle istituzioni dei paesi aggressori. Del resto, l’alternativa al regime degli Ayatollah
sono i pasdaran, così come l’alternativa a Putin in Russia sono i falchi del nazionalismo. In entrambi i casi, si
imporrebbero regimi ancor più estremisti e nemici dell’Occidente.
Le cause della sconfitta di Israele e USA possono essere individuate nel loro delirio di onnipotenza, nella
loro innata aspirazione, a base teologica, ad una potenza assoluta atta a ricreare il mondo a loro immagine
e somiglianza. Gli obiettivi delle guerre egemoniche dell’Occidente in Medio Oriente si sono rivelati
irraggiungibili. Tali fallimenti eroderanno progressivamente i miti suprematisti fondativi di Israele e degli
USA, quali “La Grande Israele” e “Il destino manifesto”. Si prefigurano nuove crisi e conflittualità interne in
entrambe le potenze: i falliti progetti di regime change esterno sia in Russia che in Iran, infatti, potrebbero
dar luogo (a seguito delle sconfitte strategiche dell’Occidente in Ucraina e Medio Oriente), ad un regime
change interno che coinvolgerebbe l’intero Occidente.
Questa sconfitta può provocare effetti destabilizzanti sia in Israele che negli USA. Potrebbero esasperarsi i
conflitti interni negli USA già in atto tra gli stati ed il governo centrale. Da questa sconfitta potrebbe
scaturire inoltre una grande ondata di protesta del popolo americano avverso a nuove guerre contro le elite
dominanti. In Israele, questa sconfitta potrebbe preludere alla defenestrazione di Netanyahu, nel contesto
della permanente conflittualità interna che non potrà che esasperarsi, tra la componente estremista
religiosa al potere e quella dell’opposizione laica assai diffusa nella società israeliana. E’ prevedibile che la
sconfitta di Israele genererà nuovi conflitti nell’area, data l’impossibilità di coinvolgere lo stato ebraico in
nuovi assetti geopolitici stabili.
Fine del primato geopolitico e finanziario americano?
La crisi economico – finanziaria degli USA, unitamente al declino del primato del dollaro, sono da
annoverarsi tra le cause determinanti della guerra dei 12 giorni. La crisi strutturale americana è evidenziata
dalla crescita inarrestabile del debito pubblico che a maggio del 2025 ha superato la soglia dei 36.000
miliardi, (il rapporto debito/Pil è pari al 130% e gli oneri per interessi sul debito sono aumentati in un anno
da 753 miliardi a 1.235, superando la spesa militare), e da un deficit commerciale che a marzo 2025 ha
raggiunto la cifra record di 140 miliardi.
Il primato del dollaro quale valuta di riserva consentiva alla FED di emettere liquidità ad libitum, per
finanziare ad oltranza il debito federale, la spesa pubblica, gli armamenti, i consumi, e per fronteggiare le
ricorrenti crisi del settore bancario. La FED non può più effettuare manovre di quantitative easing, in
quanto tali emissioni di liquidità provocherebbero ondate inflazionistiche e ulteriori svalutazioni del dollaro.
Trump invoca il ribasso dei tassi per incentivare investimenti nell’economia reale, ma la FED si è
ripetutamente opposta. Aggiungasi inoltre che gli elevati tassi sui titoli decennali del Tesoro che
ammontano ad oltre il 4% (il doppio dei tassi tedeschi), non hanno determinato il rafforzamento del
dollaro, che anzi si è svalutato. Il dollaro ha perduto la sua attrattiva di investimento nei marcati mondiali,
perché sono venute meno le garanzie di stabilità del debito americano.
Si rileva inoltre che la situazione patrimoniale netta americana è negativa per l’ammontare di 26.000
miliardi. Il sistema finanziario americano dipende dunque dagli investimenti di capitali esteri (specie nel
settore tecnologico), il cui venir meno determinerebbe il collasso finanziario degli USA.
Il primato del dollaro quale valuta di riserva presuppone la sussistenza del suo status di valuta di scambio
internazionale. Pertanto, il controllo delle aree di produzione delle materie prime energetiche è essenziale
per gli USA, per salvaguardare il ruolo del dollaro quale valuta di scambio nelle transazioni commerciali nei
settori del gas e del petrolio. Le cause geopolitiche della guerra si saldano con quelle di natura finanziaria.
Al declino del primato geopolitico americano fa riscontro quello della sua egemonia finanziaria, essenziale
alla sopravvivenza stessa degli USA.
Il ricorso alla guerra è scaturito dalla necessità di contrastare il processo di dedollarizzazione in atto nei
mercati mondiali a seguito dell’emergere del gruppo dei BRICS. In virtù del ristabilimento delle relazioni
diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, con la mediazione cinese, le esportazioni del petrolio saudita in Cina
vengono pagate in yuan, e i profitti del greggio vengono reinvestiti nella Cina stessa, replicando il
meccanismo dei petrodollari, che però affluiscono nei mercati cinesi, anziché a Wall Street.
A seguito delle sanzioni irrogate alla Russia e il divieto di accedere al sistema SWIFT per le transazioni
commerciali russe, si sono sviluppati con successo sistemi alternativi. Il 16 aprile 2025 il volume delle
transazioni effettuate mediante il sistema cinese CIPS, ha superato quello dello SWIFT. L’espansione della
potenza cinese nell’economia mondiale si sta realizzando a discapito dell’area dollaro che ha subito
rilevanti ridimensionamenti.
La guerra dunque non si è rivelata uno strumento efficace per riaffermare il ruolo primario del dollaro e del
debito americano quali beni rifugio nelle fasi di crisi. La paventata chiusura dello stretto di Hormuz è stata
impedita dall’intervento della Cina a sostegno dell’Iran. Una escalation bellica avrebbe provocato una crisi
dell’economia mondiale che non avrebbe giovato a nessuno. Non si è innescata nemmeno la prevista
ondata speculativa al rialzo sui prezzi petroliferi.
La Cina è ormai in grado di incidere profondamente sull’andamento dell’economia mondiale e di
contrastare efficacemente l’egemonia americana. Il deficit di credibilità politica degli USA si riflette sul
declino della loro credibilità finanziaria e sul progressivo venir meno del primato del dollaro.
Un Occidente senza patria e senz’anima
La Guerra Grande può essere considerata come uno scontro delle civiltà? L’Occidente a leadership
americana non concepisce altre civiltà al di fuori della propria. Il suo espansionismo fu legittimato
dall’ideologia anglosassone ottocentesca della “Civilization”, che discriminava drasticamente le culture del
mondo tra “civilizzate” e “barbare”. La Civilization costituì la giustificazione ideologica del colonialismo
europeo, che ebbe come erede legittimo l’impero americano. L’Occidente, considerandosi una civiltà
superiore, ha sempre giudicato il mondo sulla base dei propri paradigmi culturali suprematisti. Le guerre in
Medio Oriente possono dunque definirsi guerre coloniali, dato che Israele può considerarsi l’ultima colonia
dell’impero americano nell’area.
Gli USA e tutto l’Occidente, hanno creato un modello culturale, politico ed economico unitario suscettibile
di esportazione nel mondo, in vista dell’istituzione di una governance globale con epicentro negli USA.
Ma quello occidentale, può definirsi un modello politico unitario ed omogeneo? La realtà smentisce le
velleità universalistiche occidentali. La società occidentale è in crisi perché dilaniata dalle conflittualità
interne tra lobby politiche, militari e finanziarie che presiedono alla governance effettiva della società e si
impongono alle istituzioni nelle scelte politiche fondamentali. Il sistema neoliberista ha una struttura
piramidale, è dominato da oligarchie autoreferenti che hanno materialmente destituito le istituzioni
democratiche. Le stesse contrapposizioni tra le forze politiche riflettono i conflitti interni tra le lobby del
sistema finanziario.
Questo processo degenerativo del modello occidentale è ben delineato da Andrea Zhok in un articolo
recente dal titolo “L'anello di Gige e l'orizzonte della violenza illimitata”: “L’Occidente, a causa del lungo
processo di presa del potere reale da parte delle oligarchie finanziarie, ha raggiunto un livello di non ritorno
dal punto di vista della degenerazione della sua classe politica. Il problema in tutto ciò è solo uno: siccome
chi esercita il potere è dietro le quinte e non può venire chiamato a prendere alcuna responsabilità, di fatto
oggi siamo nella condizione di più straordinaria deresponsabilizzazione delle classi dirigenti della storia
dell’Occidente: chi comanda non risponde in nessun modo di ciò che fa, né formalmente, né
istituzionalmente, né moralmente. E l’esercizio del potere al riparo dagli sguardi altrui conduce
inevitabilmente all’abiezione, come rammentava Platone nel racconto dell’Anello di Gige”.
La crisi dell’Occidente si identifica con il fallimento della globalizzazione e quindi con il declino della
superpotenza americana, che deve far ricorso a guerre infinite, necessarie alla sua stessa sopravvivenza.
Guerre senza strategia che comportano l’erosione progressiva dell’Occidente stesso, fino alla sua
dissoluzione. Il venir meno dell’egemonia globale americana è quindi la causa originaria della Guerra
Grande.
Si riscontra tuttavia nella società occidentale l’emergere di un dissenso di massa nei confronti delle
strategie guerrafondaie dell’Occidente. Trattasi però di un dissenso interno al sistema e quindi
politicamente ininfluente. Si contestano le guerre e il riarmo europeo facendo appello al neutralismo e al
pacifismo. L’equidistanza neutralista tra i competitor (Russia – Ucraina e Israele – Palestinesi), e il pacifismo
belante, si configurano come istanze moraliste finalizzate ad occultare la fondamentale malafede di
determinate forze politiche, il cui intento è quello di omologarsi ai diktat del futuro vincitore e pertanto,
non intendono contrapporsi ad esso nella fase bellica.
Nel conflitto tra Israele e Iran il dissenso avrebbe dovuto schierarsi in difesa dell’Iran, quale paese
aggredito, in aperta violazione del diritto internazionale, e soprattutto in nome della lotta di liberazione e
della indipendenza dei popoli contro l’imperialismo americano. Si è invece manifestato contro il riarmo, nel
totale misconoscimento del principio della autodeterminazione dei popoli sancito dall’ONU. Ci si rifiuta di
sostenere l’Iran, in quanto paese retto da un regime teocratico – oscurantista, oppressivo, pluricondannato
dall’Occidente per violazione dei diritti umani (tra cui vengono ricompresi l’ideologia woke, il gender,
l’LGBT).
E’ evidente dunque che questo dissenso, nel contestare la guerra, assume posizioni politiche conformi ai
paradigmi dell’ideologia liberal occidentale. Anzi, contesta le leadership occidentali nella misura in cui esse,
con le guerre, si discostano dai principi del pacifismo, delle libertà individuali, i diritti umani e dalla stessa
cultura woke dominate nei campus delle università americane. Questo dissenso è funzionale al sistema
dominante, in quanto assume il ruolo di coscienza critica dell’Occidente, quale legittimo interprete
dell’ortodossia ideologica cosmopolita e globalista di matrice occidentale. Il dissenso ufficiale invero
condanna Netanyahu e gli “eccessi di difesa” sionisti, non il suprematismo teocratico di Israele e il
genocidio in atto a Gaza. Sono pertanto evidenti le cause dell’impotenza e dell’irrilevanza del dissenso in
Occidente.
Nei conflitti della Guerra Grande occorre dunque schierarsi. Secondo Lenin infatti, “Chi non sta da una
parte o dall'altra della barricata, è la barricata”. Non ci si schiera in base ad interessi politici, economici,
strategici. Anzi, non ci si schiera scegliendo tra opzioni alternative, ma si abbraccia quella causa conforme al
nostro essere.
I valori che definiscono la nostra identità di mediterranei, italiani ed europei, hanno le loro radici nella
cultura classica e nel cristianesimo, che sono parte integrante del pluriverso multiculturale del Medio
Oriente.
Ci si identifica dunque con la Palestina, quale patria spirituale che include in sé popoli, etnie, culture e
religioni diverse. La nostra identità si riflette nella universalità di Gerusalemme, che ha invece assunto la
denominazione di capitale dello stato ebraico, imposta dalla potenza sionista occupante. Nella stessa
Chiesa Cattolica è stato oscurato il culto della Gerusalemme celeste. L’Occidente ha sradicato dalla nostra
anima il Medio Oriente: ha annullato il nostro esserci nella storia. Alle lotte di liberazione dei popoli contro
il neocolonialismo occidentale in atto, fa riscontro un’Europa in cui le basi Nato assurrgono al rango di
baluardi ideali eretti a difesa della nostra libertà: l’atlantismo servile europeo viene millantato come una
scelta di civiltà.
E’ facile prevedere che questa guerra avrà effetti di lunga durata nel mondo. E’ altresì evidente che il delirio
di onnipotenza israeliano – americano non potrà che condurre al suicidio dell’Occidente. La Guerra Grande
si è dimostrata una via senza ritorno.