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Che cos'è la realtà?

di Francesco Lamendola - 30/06/2009

 


Che cosa è reale? Che cosa è l'insieme degli enti che noi siamo soliti definire - generalmente in maniera piuttosto superficiale e distratta - la realtà?
Sono reali solo le cose materiali? Sono reali solo le cose esterne? Una sedia, ad esempio, o una conversazione tra amici, sono reali quando avvengono nella dimensione ordinaria, mentre non lo sono più se avvengono nella dimensione del sogno o in quella della fantasia?
A quale genere di realtà appartengono i pensieri, le fantasie, i sogni: forse a una realtà di secondo grado? Ma di secondo grado rispetto a che cosa? Chi e in base a che cosa ha stabilito che gli enti e le situazioni della dimensione ordinaria - quella percepibile mediante i sensi desti, la mente razionale e la verificabilità oggettiva - sono forme della realtà di primo grado, mentre i medesimi enti, prodotti - ad esempio - dalla penna o dal pennello di un artista, non sono che le copie sbiadite di quelli?
Ad alcuni di questi interrogativi abbiamo già tentato di rispondere in parecchi scritti precedenti, compreso l'ultimo articolo: «Il segreto è capire che tutto ciò che abbiamo amato esiste per sempre», consultabile sul sito di Arianna Editrice.
In questa sede vorremmo generalizzare, in una certa misura, le precedenti riflessioni, e spingerci -  per quanto possibile - fino al cuore del problema: che cosa merita realmente il nome di realtà: quella che cade sotto i sensi ordinari e sotto il vaglio della mente razionale, o quella che ci si rivela negli stati di coscienza ampliata, trascendendo il Logos strumentale e calcolante e abbracciando, a colpo d'occhio, tutta l'immensa ricchezza e varietà dell'essere, immergendovisi e riconoscendosene una parte ed un riflesso più o meno opaco, più o meno luminoso?
Quand'è che noi possiamo realmente dirci consapevoli non di questa o quella realtà, ma della realtà in quanto tale, considerata come esperienza totale del nostro essere? Quando possiamo ritenerci, non diremo più vicini, ma almeno un po' meno lontani, un po' meno separati, dalla dimensione vera della realtà?
Prendiamo questo brano del capitolo IX della terza parte del romanzo di Julien Green «Adriana Mesurat» (titolo originale: «Adrienne Mesurat», Paris, Librairie Plon., 1927; traduzione italiana di Arturo Tofanelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1949, 1970, p. 271):

«La notte scendeva. Era una di quelle belle notti d'estate di cui non si saprebbe dire in qual momento incominciano, tanto il cielo resta chiaro, anche dopo il tramonto del sole.  Erano le otto e mezzo. Gli alberi erano più neri, gli uccelli s'eran taciuti, ma il cielo era azzurro.»

A parte la fresca bellezza e la straordinaria efficacia descrittiva del brano, con quello stacco struggente fra la chiarità del cielo serotino e l’ombra che si diffonde in basso, sulla terra, la nostra attenzione è indirizzata verso una domanda quasi inevitabile: la sera d’estate descritta da Julien Green è qualche cosa di meno «reale» della sera d’estate che possiamo godere nella nostra vita ordinaria, mediante l’esperienza diretta dei nostri cinque sensi?
È essa qualche cosa di più labile, di più effimero; oppure, al contrario, qualche cosa di più «reale», dal momento che sopravvive dopo la morte di colui che l’ha pensata e descritta, e sopravviverà alla morte di noi stessi, che l’abbiamo letta e apprezzata nelle pagine di un libro?
Per tentare di rispondere a tali domande, dobbiamo in primo luogo domandarci quale sia l'origine dell'esistente. A questa domanda, semplice ma essenziale - qualcuno ha detto che gli uomini sono capaci di capire pressoché tutto, tranne le cose semplici - la risposta non può essere che univoca: l'origine dell'esistente, per logica e per definizione, è l'Essere.
Abbiamo scritto l'Essere con la lettera maiuscola, per distinguerlo dall'essere «ordinario», di cui l'esistenza dei singoli enti è una manifestazione.
Gli enti non sono l'essere, ma hanno l'essere, nel senso che vi partecipano; non lo sono, perché non possono darsi da se stessi la propria esistenza, e perché sono soggetti a continui mutamenti di stato; ma vi partecipano, perché esistono ed, esistendo, escono dal non-essere per essere, appunto, qualcosa.
Dunque, l'origine della realtà, di tutta la realtà, in ogni sua manifestazione e su ogni piano o dimensione in cui può espandersi, è l'Essere: l'essere che è; l'essere che non deve ad altri la propria esistenza; l'essere in cui l'esistenza coincide con l'essenza, e viceversa: nel senso che noi non posiamo neanche immaginarci l'essere al più alto grado di sé, che non possieda anche l'attributo dell'esistenza, che sia meramente pensabile.
Tutte le forme contingenti dell'essere, dunque tutte le manifestazioni dell'essere attraverso l'esistenza dei singoli enti, possono essere meramente pensabili; solo nell'Essere originario non può non darsi una perfetta coincidenza fra intelligibilità ed esistenza, e fra esistenza ed essenza. L'essenza dell'Essere, infatti, è il fatto di esserci, dunque di esistere; mentre l'essere dei singoli enti è un essere parziale, contingente, possibile ma non necessario. La loro esistenza non è parte essenziale del loro esserci; dunque, non fa parte della loro essenza.
L'essenza dell'Essere è l'esistere; l'essenza degli esseri è la disponibilità ad esistere, la possibilità di esistere. Potremmo fare il paragone del marmo e della statua. L'essenza della statua è l'esistere come statua; ma l'essenza del marmo è solo potenzialmente quella di esistere come statua. Una statua è fatta di marmo, ma non tutti i blocchi di marmo diverranno delle statue; anzi, per qual che ne sappiamo, potrebbe anche darsi che nessun blocco di marmo diverrà mai una statua. Perciò il marmo è marmo e la statua è statua; così come all'Essere compete l'attributo dell'esistenza, mentre ai singoli enti l'esistenza può competere, oppure no.
Ora, se l'origine della realtà è l'Essere, ne deriva, come logica e inevitabile conseguenza, che la realtà è la manifestazione dell'essere; ossia che la realtà è quella manifestazione dell'essere che si rivela attraverso l'esistere degli enti. La realtà è tanto più reale quanto più è vicina alle proprie sorgenti, e tanto meno reale quanto più ne è lontana.
Il mondo materiale, che - nel linguaggio ordinario - si suole definire «la realtà» per antonomasia, è il più remoto dalle fonti dell'Essere, perché il più accessorio e contingente. Posto che esso esista davvero e non sia, semplicemente, un pensiero della Mente infinita dell'Essere all'interno delle menti finite - certi fisici contemporanei amano fare la similitudine con il concetto di «ologramma», ovvero parlano di «realtà virtuale»; così come i mistici indiani parlano dell'universo fisico come di «lila», ossia «gioco divino», «sogno cosmico» di Dio - la cosiddetta realtà materiale è la meno reale fra i diversi gradi di realtà dell'esistente.
Essa, infatti, più di ogni altra, ha l'attributo della contingenza: può esservi, come non esservi. Non c'è alcuna ragione necessaria per cui questo albero debba esistere, o questo uomo, o questa galassia; anche se, naturalmente, l'esistenza degli enti è strettamente intrecciata, e la loro storia complessiva è la somma delle loro relazioni reciproche.
Il mondo concettuale possiede un più alto grado di realtà, perché gli enti di cui risulta composto sono bensì contingenti e non necessari, e tuttavia, poste determinate premesse e messa in morto, per così dire, la ruota della loro esistenza, divengono assolutamente necessari. Noi possiamo anche non pensare alcun triangolo; ma, una volta che pensiamo un triangolo rettangolo, il teorema di Pitagora ne scaturisce come una conseguenza assolutamente necessaria, perché si deduce dalla sua essenza. Non esiste e non è pensabile alcun triangolo rettangolo in cui la somma dei quadrati costruiti sui cateti non sia equivalente al quadrato costruito sull'ipotenusa.
Questo rigore logico, questa assoluta consequenzialità non appartengono al mondo degli enti materiali, ma solo a quello degli enti ideali. Una montagna può esserci o non esserci; se c'è, può avere le caratteristiche più varie, senza con ciò violare alcuna categoria della logica.
Il mondo spirituale possiede un grado di realtà ancora più alto. Ciò deriva dal fatto che esso è ancora più vicino, o - per meglio dire - ancora meno lontano dalle sorgenti dell'Essere. La bellezza, la bontà, la verità, la giustizia, l'amore, sono più reali degli enti puramente concettuali, perché non solo possiedono un grado di necessità ancora maggiore di quelli, ma la loro esistenza tende a coincidere con la loro stessa essenza. Infatti, la loro essenza consiste nell'essere così come sono, né potrebbero essere altrimenti, in quanto emanazione diretta dell'Essere.
Non sono gli enti che creano la bellezza, la bontà, la verità, la giustizia e l'amore: gli enti non fanno altro che assentire alla chiamata dell'Essere per farsene tramite rispetto ad altri enti; a distribuirne la presenza, per così dire, nel mondo. Il teorema di Pitagora, in quanto tale - ossia come operazione logica e non come dato di fatto - è un atto del pensiero; ma la bellezza, la bontà e la verità, non sono operazioni del pensiero: sono modalità dell'essere. Non dipende dai singoli enti, dalle singole menti, il fatto di pensarli oppure no; a loro compete solo di rispondere positivamente, oppure no, al loro appello, facendosene trasmettitori.
Per fare un esempio: non è un pittore come Sandro Botticelli a creare la bellezza che erompe dai suoi quadri, così come non è un musicista come Bach a creare la bellezza che erompe dalle sue composizioni: essi sono solo un tramite per la manifestazione della Bellezza, che è un attributo dell'Essere; e, naturalmente, devono servirsi di mezzi finiti per cercare di esprimere una realtà infinita. All'interno dell'arte, esiste comunque una scala ascendente, che va dal mezzo più materiale, quale la pietra per lo scultore o l'architetto e il colore per il pittore, a quello più spirituale, quale la nota musicale per il compositore e la parola pura per il poeta. Sempre, comunque, si osserva il medesimo fenomeno: che l'artista tenta di esprimere con mezzi finiti, e rivolgendosi al tramite dei nostri sensi finiti - la vista, l'udito, ecc. - la Bellezza assoluta, ossia un attributo dell'Essere che, in quanto tale, è inesprimibile e incommensurabile.
La stessa cosa vale per la bontà.
Noi possiamo vedere delle manifestazioni più o meno toccanti, più o meno significative della bontà; arriviamo a parlare di santità, quando la bontà raggiunge le manifestazioni più sublimi all'interno dell'orizzonte che ci è familiare, quello dell'umano sentire e operare. Tuttavia, anche nel suo più alto dispiegarsi, la bontà che possiamo vedere e sperimentare non è che un pallido riflesso della Bontà in quanto tale, che è un altro attributo dell'Essere. Nessuna cosa finita è interamente buona; nessuna azione umana è perfettamente buona: e questo accade perché nessun ente possiede la pienezza e, meno ancora, la necessità dell'essere buono; ma ne è solamente un tramite, un ponte gettato verso la sete struggente degli altri enti.
Noi possiamo anche immaginare un mondo senza triangoli: un mondo, cioè, dove nessuna mente finita arriva a pensare l'esistenza del triangolo; e, di fatto, mondi del genere sono stati storicamente osservati dagli antropologi, ad esempio presso le società tribali. Ma non possiamo immaginare un mondo senza bellezza e senza bontà o senza verità, senza giustizia e senza amore; e, di fatto, non c'è gruppo umano, per quanto «primitivo», che sia totalmente sprovvisto di tali nozioni, per quanto imperfettamente comprese ed elaborate.
Questi, dunque, sono i tre gradi principali della realtà, dal più debole al più forte: quello materiale, quello ideale e quello spirituale.
Vi sono poi numerosi altri gradi intermedi, ad esempio quello dei sogni o quello delle fantasie, di cui ci siamo già occupati in numerosi precedenti lavori, e che andrebbero trattati uno per uno, caso per caso (cfr., ad esempio, il nostro articolo: «Dov'erano gli enti prima di esistere?», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Qui ci limiteremo a dire che non sempre e non necessariamente il piano del sogno e quello della fantasia giacciono su un minore livello di pienezza e possiedono, pertanto, un minore grado di realtà, rispetto a quello materiale; anzi, a nostro avviso, sovente è vero il contrario. Ad esempio, un personaggio letterario ben riuscito - lo aveva già osservato Pirandello - finisce con l'essere più «reale» del suo stesso autore; non solo perché gli sopravviverà e di molto, ma anche perché possiede una vita autonoma e, forse, una esistenza che precede quella dell'autore, il quale si è limitato a renderlo manifesto.
Ad ogni modo, quel che ci preme di evidenziare è che soltanto all'Essere spetta interamente l'attributo di «reale».
Tutti gli enti - materiali, ideali o spirituali - non sono che un riflesso dell'unica vera Realtà: quella dell'Essere, che attraverso di loro si manifesta.
Il concetto è reso nel modo più chiaro nel «Cantico delle creature» di San Francesco: è giusto cantare la bellezza degli enti, ma senza mai dimenticare che essi scaturiscono dall'Essere; che la loro bellezza proviene dall'Essere.
La realtà è lo splendore dell'Essere; tutto il resto non è che riflesso, ombra, illusione.
Dobbiamo fare attenzione a non scambiare il riflesso per la realtà vera; a non rinchiuderci nel vicolo cieco degli enti, per quanto belli e attraenti. Perché la loro vera bellezza non è connaturata ad essi, ma è una emanazione della perfetta Bellezza dell'Essere.