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Se l'economista non ci azzecca più

di Luca Ricolfi - 14/09/2009

 

 

E’ la terza estate che siamo in ballo. Prima lo scoppio della bolla immobiliare americana, la cosiddetta crisi dei mutui subprime (estate 2007). Poi, giusto un anno fa, il fallimento di Lehman Brothers (estate 2008). E ora, estate del 2009, questo inquieto pattinare sul sottilissimo strato di ghiaccio della crisi, senza sapere se il ghiaccio cederà, o invece continuerà a reggerci.

Ma il mio sentimento dominante, in questa calda estate del 2009, non è né la paura né la speranza, per dirla à la Tremonti. Il sentimento che mi occupa è la nostalgia, il ricordo di un tempo in cui l’economia e gli economisti, pur litigando tra loro come oggi, erano ancora in grado di essere utili alla politica. Io ero iscritto a Filosofia a Torino, ma davo quasi esclusivamente esami di economia (i tempi lo permettevano). Il mio maestro era Claudio Napoleoni, con cui mi sarei laureato in un’altra estate, quella del 1973, segnata da un’altra crisi, quella del petrolio. A Torino oltre a lui insegnavano Gianni Zandano, Terenzio Cozzi e Siro Lombardini. Andavamo alle loro lezioni, li studiavamo, ma intanto leggevamo anche i maestri di fuori, Salvati, Graziani, Sylos Labini.

E fu proprio studiando Sylos Labini e il suo famoso modello econometrico, che mi accorsi che l’economia, allora, di previsioni ne faceva eccome, e spesso ci azzeccava pure. Certo erano previsioni condizionali, del tipo «se x allora y», ma erano pur sempre previsioni precise, che dicevano il quando e il come qualcosa sarebbe potuto succedere. E i modelli econometrici funzionavano anche in giro per il mondo, in America, nel Regno Unito. Modelli delle singole economie nazionali, ma anche modelli del mondo nel suo insieme. È proprio di quegli anni il decollo del progetto LINK, una rete di modelli econometrici nazionali, che contribuirà a far vincere il Nobel al suo ideatore, l’economista statunitense Lawrence Klein.

Oggi non c’è grande istituzione o centro di ricerche economiche che non abbia il suo modello econometrico, spesso un mostro matematico fatto di migliaia di equazioni. Le tecniche statistiche si sono evolute, le basi di dati sono molto più ricche, le serie su cui si lavora sono spesso trimestrali, anziché annuali come ai tempi eroici di Sylos Labini. E i modelli sfornano a getto continuo previsioni, a breve e a medio termine, su tutto: prezzi, produzione, consumi, investimenti, e chi più ne ha ne metta.

Eppure le previsioni sono estremamente imprecise, spesso errate addirittura nel segno: si prevede un aumento di x, ma x diminuisce, si prevede una diminuzione di y, ma y aumenta. Quanto ai grandi interrogativi, sulle svolte del ciclo o il sopraggiungere di crisi, la risposta tipica è la delineazione di «scenari» possibili, più o meno ottimistici, più o meno ravvicinati nel tempo. Scenari le cui parole chiave immancabili sono «opportunità», «incertezza», «rischio».

Per non parlare della politica economica. Oggi i governi e le Banche centrali brancolano nel buio, ma nessuno dei complicati (e costosi) modelli econometrici sparsi sul pianeta è in grado di valutare con ragionevole accuratezza le conseguenze delle loro eventuali decisioni economiche. Per sapere che cosa fare, e che cosa potrebbe scaturirne, oggi non si può far altro che decidere di chi fidarsi. Ognuno ha i suoi consiglieri, e se per caso vi viene l’idea di metterne insieme un certo numero, ad esempio otto Nobel, potete star certi che non solo dissentiranno fra loro su che cosa sia desiderabile (i fini), ma anche sulle conseguenze delle varie decisioni di politica economica possibili (i mezzi).

In una situazione del genere, non stupisce che una generica previsione di crisi prossima ventura come quella più volte formulata da Tremonti venga considerata una profezia azzeccata, e che l’unica cosa che gli economisti che firmano lettere contro di lui siano in grado di ribattergli è che, anche loro, non pretendono certo di prevedere «il quando e il come» di una crisi. Un’affermazione, questa, decisamente impegnativa. Perché da un lato equivale ad ammettere che, non importa qui per quali ragioni, ormai i modelli econometrici non sono più quelli di un tempo. E dall’altro equivale a sconfessare in anticipo quanti, negli ultimi anni, si sono messi al lavoro per costruire modelli del funzionamento dell’economia globalizzata più realistici di quelli standard (di alcuni esempi dava notizia Dirk Bezemer su Il Sole 24 Ore di mercoledì scorso), nella speranza di azzeccare anche «il quando e il come».