Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’odio di Vittorio Alfieri verso i Francesi

L’odio di Vittorio Alfieri verso i Francesi

di Fabrizio Legger - 06/10/2009

   Il fatto che, negli ultimi anni della sua vita, Vittorio Alfieri (1749-1803), il “conte repubblicano” (come veniva singolarmente chiamato a causa della sua avversione antimonarchica, pur essendo egli un aristocratico) odiasse mortalmente e smisuratamente la Francia, i Francesi e la loro Rivoluzione, non è affatto un mistero, avendo egli scritto un’opera mista di versi e di prose, Il Misogallo, che significa appunto “l’odiatore dei Francesi”.A dire il vero, però, Vittorio Alfieri mostrò nei confronti della Francia e del suo popolo un feroce disprezzo che già traspare con molta chiarezza da alcuni capitoli della Vita e da certe lettere dell’Epistolario.Ma fu, ovviamente, durante il suo ultimo soggiorno in terra di Francia, quando assistette agli orrori della Rivoluzione Francese guidata da Marat, Danton e Robespierre, che egli divenne “misogallico”, odiatore dei Francesi tanto implacabile quanto pungente e velenoso nelle opere che scrisse contro questo popolo e la sua “servile Licenza” (così egli bollò la Rivoluzione Francese a causa dei suoi eccessi e del suo carattere borghese che non corrispondeva affatto ai suoi ideali platonico-plutarchiani).L’odio che Vittorio Alfieri nutrì verso i Francesi fu sia di natura ideologica, sia di natura biografica.Da un punto di vista ideologico e intellettuale, egli lesse, studiò e meditò le opere dei grandi illuministi francesi, in particolare Voltaire, Montesquieu, Helvetius, Rousseau, Condillac, Diderot e D’Alambert, ma ben presto si rese conto che quel loro razionalismo anti-spiritualistico, quel loro deridere e screditare la religione cristiana e ogni altra forma di sacro, quel loro affidarsi unicamente alla “positività” della ragione pur di fronte al mistero irrazionale dell’universo, non potevano certo condurre (secondo il suo modo di ragionare aristocratico ed elitario) alla costruzione di una società migliore e più giusta.E siccome tutti i sopra citati filosofi e scrittori erano o francesi di nascita o di lingua francese, Alfieri imputò ad essi (e quindi alla Francia stessa) la diffusione dei pestiferi germi della cosiddetta “ideologia dei Lumi”: perciò, tanto nelle Satire quanto nella Vita, flagellò senza pietà sia il “gallo Voltèro”, sia il “ginevrino bisbetico” (cioè, il detestato Rousseau, che Alfieri rifiutò di conoscere nonostante ne avesse avuto l’opportunità durante uno dei suoi infaticabili viaggi attraverso l’Europa).Alfieri si era formato sulla lettura di Plutarco, di Tacito, di Platone e di Tito Livio, e quelli erano i suoi punti di riferimento non solo culturali, ma anche ideali e spirituali, ragion per cui, ideologicamente e spiritualmente, egli era agli antipodi del volterianesimo e del razionalismo illuminista, e questa avversione, dilatata a dismisura verso tutto ciò che era francese e che veniva divulgato con tale lingua, lo portò ad odiare tutto ciò che “puzzava” di Francia, nonché la cultura e la stessa lingua di quel popolo di “galli” (gioco di parole tra i volatili e il nome degli antichi abitatori della Francia, cioè, i Galli) che egli considerava degno di vivere solamente in un “pollaio”.Per quanto concerne le vicende biografiche, Alfieri ebbe modo di odiare smisuratamente i Francesi in quanto, dopo la sua fuga precipitosa da Parigi, nell’agosto del 1792, le autorità parigine fecero confiscare tutti i beni che il Poeta e la contessa Luisa Stolberg d’Albany, sua compagna di vita, avevano nella capitale francese.In particolare, ad Alfieri non andò giù il fatto che gli fossero state sequestrate le scatole contenenti le copie dei libri che aveva fatto stampare in Francia (tutti i trattati e gli scritti in versi e in prosa di carattere filosofico-politico), oltre alla sua ricca biblioteca e tutti quegli effetti personali che aveva dovuto abbandonare a Parigi, onde fuggire subito dalla capitale rivoluzionaria, evitando così di essere arrestato e giustiziato come aristocratico nemico della Rivoluzione (come poi avvenne, per molti altri nobili, a partire dal mese di settembre di quello stesso fatidico 1792).Per tutti questi motivi, il “conte repubblicano” Vittorio Alfieri si trasformò in un reazionario feroce (giunse persino a lodare le truppe degli austro-russi, cioè i brutali dragoni austriaci e i cosacchi moscoviti che percorsero in lungo e in largo l’Italia, combattendo i francesi invasori ma compiendo orrendi saccheggi e terribili stragi), e la sua penna, una volta rientrato in Italia, nell’autunno del 1792, prese a scrivere sarcasticamente, in verso e in prosa, contro i “Galli” e la loro “schiavesca” Rivoluzione.Le opere in cui si concretizzò maggiormente il suo odio antifrancese furono, come ho accennato, Il Misogallo (libello composto di rime e prose, tra cui epigrammi e dialoghi, in cui, con uno stile un po’ dantesco e un po’ giovenalesco, esecrò rabbiosamente tutte le varie vicende che caratterizzarono al Rivoluzione di Francia), le Satire (in cui condanna aspramente il volterianesimo, l’Illuminismo e l’intera società settecentesca) e l’ultima parte della Vita (la sua avvincente autobiografia, in cui descrive la drammatica fuga da Parigi e le successive peregrinazioni in Italia e in Toscana, durante l’occupazione francese da parte delle soldataglie di Napoleone).Certo, Alfieri mostra un astio e un odio che, a volte, sembrano esagerati, grotteschi e fuori misura, ma occorre rilevare che egli visse di persona, sulla sua pelle, gli effetti drammatici della Rivoluzione e della successiva dominazione napoleonica, rischiando persino di essere arrestato e ghigliottinato.Ragion per cui, si può anche comprendere il suo odio senza fine per una Rivoluzione che, poi, divorò i suoi stessi figli e che aprì la strada al cesarismo imperialista di Napoleone Bonaparte.Perciò, alla fine dei conti, pur se non totalmente condivisibile, l’avversione di Vittorio Alfieri nei confronti degli odiatissimi “Galli” rimane comunque comprensibile e, in parte, giustificabile.