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La nostra capacità di comprendere discende dalla nostra capacità di ascoltare

di Francesco Lamendola - 11/01/2010

 

 

«Se ho capito bene, sei seccato perché quei tali non hanno capito nulla del tuo discorso, perché ne hanno estrapolato solo una piccola parte e si sono affrettati a inserirla nel loro sito informatico, ovviamente senza dirti nulla, come oggi purtroppo si usa. Be’, che ci trovi di tanto indisponente? Sono cose normalissime…».
Sabina mi guarda da sotto in su con il suo sorriso un po’ ironico e non privo di una divertita, irresistibile malizia femminile.
«Te lo ripeto: quel che mi secca non è l’estrapolazione e nemmeno il fraintendimento; è la manipolazione del mio discorso. Di decine e centinaia di articoli, ne hanno preso uno, l’hanno isolato dal contesto e ne hanno fatto una bandiera per le loro idee: idee che non hanno nulla in comune con le mie.»
«E qual è il problema?»
«Non lo so. Hai ragione, non c’è nulla di strano in quel che è avvenuto; anzi, è ordinaria amministrazione. E non è neanche la prima volta che succede; né la seconda.»
«Quindi…?»
«Proviamo a metterla così. Non è un fatto personale; non mi secca che il mio nome sia utilizzato per sostenere tesi che non mi appartengono, mondi culturali che non frequento e opinioni che non condivido. Le idee sono libere, dopo tutto; e chiunque può utilizzarle come meglio crede. Tanto più che le idee non sono mai del tutto nostre: ci vengono suggerite dall’alto, almeno quando sono tali da favorire la crescita spirituale. Dunque, noi ci limitiamo a metterle in circolo; ma non ci appartengono, per cui non abbiamo ragione di esserne gelosi. Mi fanno ridere quegli scrittori e quei filosofi che sono sempre pronti a fare causa a qualche loro collega per un furto di idee, come avvenne tra Leibniz e Newton per la questione del calcolo infinitesimale.»
«E chi aveva ragione?»
«Difficile dirlo. Secondo me, Leibniz. Ma forse la penso così a causa delle mie simpatie e antipatie personali; e trovo che Leibniz fosse un signore, mentre Newton era un astioso pallone gonfiato. Comunque, il punto non è questo.»
«Sbaglio, o qui c’entra anche una certa tua evidente germanofilia e una altrettanto viscerale anglofobia?»
«È molto probabile, non lo nego. Comunque, torniamo a noi. Stavo dicendo che non è questione di gelosia intellettuale, perché le idee non hanno padroni: non più della pioggia che cade dal cielo sui giusti e sugli ingiusti, e che ciascuno è libero di utilizzare come crede.»
«Già - osserva Sabina, guardandosi le unghie con gesto distratto. - Il miliardario di Nairobi ci riempie la piscina privata della sua villa, e un milione di abitanti della sottostante bidonville la usano per bere un bicchier d’acqua al giorno, con una temperatura di trentacinque gradi all’ombra, sotto le lamiere arroventate…»
«Non divaghiamo.»
«Giusto, non sporchiamoci le mani con questi dettagli da comunisti fuori tempo massimo…»
«La giustizia non è mai fuori tempo massimo… Ah, strega, ci stavo cascando di nuovo! Ti diverti un mondo a provocarmi, eh, a punzecchiarmi ogni volta che ti si presenta il destro?»
«Sei tu che me lo presenti, brutto reazionario.»
«Piantala e cerca di fare la persona seria, “pasionaria” da quattro soldi. Credi che solo a quelli di sinistra bolla il sangue per certe scandalose ingiustizie sociali? Ma c’è gente che campa di demagogia sulla pelle di quei poveracci…»
«D’accordo, torniamo a noi. Se le idee sono di tutti, come l’acqua o l’aria, mi spieghi allora perché ti ha infastidito questo piccolo incidente?»
«Non mi ha infastidito, tanto più perché non mi sento toccato in prima persona, anche se forse lo dovrei. No, non è questo. Mi ha reso pensoso, semmai.»
«Pensoso, perché?»
«Perché mi ha ricordato una antica verità che non è mai troppo piacevole, per cu si preferirebbe far finta di non vederla.»
«Quale?»
«Che alla grande maggioranza degli uomini importa poco o nulla della verità, ma solo di quelle verità parziali che a loro fanno comodo per i loro fini e per i loro meschini interessi. Se potessero ascoltare la parola di Dio, perfino quella sarebbero capaci di manipolare. Ne estrapolerebbero quella parte che fa loro comodo e se ne farebbero scudo contro qualcuno o qualcosa, per ottenere ciò che si prefiggono.»
«Hai scoperto che la maggior parte degli esseri umani non sanno cosa sia il disinteresse?», mi chiede, beffarda.
«Non l’ho scoperto ieri, stai tranquilla. No, quello che ho scoperto, se così vogliamo dire, è che la maggior parte delle persone è indifferente alla verità, ma non è abbastanza onesta da ammetterlo; per cui se ne va in giro mettendo sulle proprie bandiere dei brandelli di verità, e, in nome di quei brandelli, è capace di commettere le cose più turpi.»
«Certo; ma questo è il meno. Per uno come te, che vive di pensiero, la cosa più triste dovrebbe essere la facilità con cui un discorso può essere snaturato e stravolto da chiunque, per cui la comunicazione stessa viene messa in discussione alle sue basi.»
«Infatti, è proprio questo che mi rattrista. Perché se ne dovrebbe dedurre che esprimere anche le più grandi verità è perfettamente inutile, è come gettarle al vento o perfino peggio. Basta vedere come gli uomini sono riusciti, nel corso della storia, a stravolgere i messaggi spirituali più sublimi, facendosene un alibi per la loro violenza e la loro volontà di sopraffazione.»
«Certo. Ma tu, ti sei mai domandato per quale ragione i più grandi maestri spirituali non hanno lasciato una sola pagina scritta ai propri discepoli?»
«Se è una giusta misura di prudenza parlare dell’essenziale solo a voce e solo con chi sappiamo essere all’altezza di capire, allora bisognerebbe dedurne che la comunicazione scritta non è il modo giusto per trasmettere l’essenziale.»
«In effetti, è proprio così. D’altra parte, noi viviamo nel mondo moderno, che, come tu stesso ami ripetere, corrisponde al regno della quantità e non della qualità. In esso, si ritiene importante ragionare sui grandi numeri: ad esempio, trasmettere una determinata idea a molte persone Ed ecco che la parola scritta diventa indispensabile.»
Quest’ultima osservazione di Sabina, espressa - oltretutto - sulla base di un mio pensiero, mi lascia a lungo pensieroso.
«A quanto pare siamo arrivati in un vicolo cieco - osservo -. O parlare con pochi intimi, o rassegnarsi alla manipolazione del proprio messaggio.»
«Ma è proprio necessario rivolgersi a molte persone? In fondo, sei proprio tu a dire sempre che non bisogna lasciarsi ricattare dalla logica dei grandi numeri, né imprigionare dai modi di pensare e di comunicare della società di massa.»
«Insomma, Sabina, stai proponendo di gettare nel fuoco i caratteri mobili di Gutenberg, per non parlare della scrittura su Internet. Mentre io, quando critico certi aspetti della modernità, ho in mente qualche cosa di più e di meglio, e non qualche cosa di meno e di peggio di quello che essa può offrirci, in fatto di consapevolezza e di circolazione delle idee»
«Toccata. Resta il fatto, però, che serve a poco diffondere grandi idee fra numerose persone, se poi le storpiano in tutte le maniere possibili, fino a renderle irriconoscibili.»
«Già. Ma la domanda è: perché le storpiano?»
«Lo hai detto tu poco fa;: per servirsene ai propri fini.»
«D’accordo. Ma se ne servono perché non le hanno capite, o non gl’interessa affatto di capirle, perché, tanto, hanno già la loro idea in testa, e non intendono affatto cambiarla, ma solo trovare dei puntelli per meglio sostenerla, magari contro qualcun altro? Ecco, temo che sia vera questa seconda ipotesi. E, se è così,  la cosa è ancora più grave: significa che la gente va a caccia delle idee degli altri, non per cercare di avvicinarsi alla verità, ma per rendere più forte la propria verità preconfezionata: piccola, meschina, aggressiva.»
«Questo mi fa venire in mente la controversia sul sistema stellare binario di Zeta Reticuli. È una storia che dovrebbe piacerti, dato il tuo interesse per le visite di creature aliene sulla Terra.»
«Mi sembra di averne già udito parlare, infatti; ma non ricordo bene.»
«Ricordi il caso dei coniugi Hill, vero? Dissero, dopo essersi sottoposti ad alcune sedute di terapia ipnotica, di essere stati rapiti da un’astronave aliena, nel settembre del 1961.»
«Naturalmente.»
«Betty Hill sostenne di aver visto una carta stellare a bordo dell’astronave, di cui fu in grado di tracciare, a memoria, uno schizzo. Una ricercatrice di nome Marjorie Fish costruì un modellino tridimensionale di quel disegno e, sulla base di calcoli precisi, giunse alla conclusione che gli alieni dovevano provenire dal sistema di Zeta 2 Reticuli, che, sulla carta, appariva segnato in grande, e da cui partivano delle “rotte commerciali” (così le avevano definite gli alieni) verso una serie di altri corpi celesti, appartenenti a differenti costellazioni. Ma l’astronomo Charles Attenbergh, effettuati altri calcoli,  giunse a una identificazione completamente diversa, vale a dire con Epsilon Indi. E Carl Sagan intervenne nella disputa sostenendo che,  date le molte stelle a disposizione e le molte possibili angolazioni da cui osservarle, altri studiosi potrebbero saltar fuori con numerosi altri candidati per una possibile identificazione.»
«Una specie di disputa fra scettici e credenti», osservo.
«Più o meno. Il fatto è che noi siamo sempre credenti in qualche cosa, magari nello scetticismo; ed abbracciamo quelle idee che confermano il nostro punto di vista, mentre tendiamo a non considerare, o addirittura a interpretare a modo nostro, quelle che tenderebbero a smentirlo.»
«Va bene, Sabina. Io, però, conosco una storia più carina della tua, più suggestiva se vuoi, a questo proposito. Riguarda un aneddoto sulla vita del Buddha.»
«Racconta. Sai che vado matta per questi apologhi orientali.»
«Bene. Un giorno un uomo si presentò al Buddha e gli chiese: “Esiste Dio?”. Buddha lo guardò e poi rispose: “Sì, Dio esiste”. Qualche ora dopo si presentò un altro uomo che gli fece la stessa domanda; e questa volta, guardatolo, Buddha rispose: “No, Dio non esiste”. Un suo discepolo, che aveva osservato le due scene, non ci capiva più niente. Ma la sua confusone giunse al massimo allorché, quella sera, capitò un terzo visitatore, che si rivolse al Maestro con queste parole: “Da molti anni cerco e mi affatico intorno al problema dell’esistenza di Dio, ma non sono ancora riuscito ad avvicinarmi alla verità. Tu mi potresti aiutare?”. Allora Buddha lo fece sedere e rimasero così, l’uno di fronte all’altro, per un tempo assai lungo, meditando. Infine lo straniero si alzò, sorridendo, e se ne andò, dicendo con calore: “Ti ringrazio, Maestro, per avermi illuminato.” Ananda, il discepolo, a questo punto non riuscì a trattenersi e si rivolse a Buddha, dicendo che non ci capiva più nulla e chiedendo spiegazioni per lo strano contegno del suo Maestro. Allora questi gli rispose: “Il primo uomo era un ateo. Dicendogli che Dio esiste, ho voluto mettergli un dubbio su cui riflettere. Il secondo uomo era un credente; dicendogli che Dio non esiste, ho voluto scuotere la sua fede ormai abitudinaria. Entrambi avrebbero voluto sentirsi dire quello che già pensavano; non stavano realmente cercando la verità. Solo il terzo uomo era un sincero ricercatore della verità: e io non glie l’ho data già bella e pronta, l’ho solo aiutato a trovarla in se stesso. Ed è di questo che egli mi ha ringraziato.»
«Sì, è una bella storia. Una tipica storia Zen, direi. Semplice e profonda al tempo stesso.»
«Sono pochi i sinceri ricercatori della verità: uomini che non temono la scomodità di dover sempre sottoporre a revisione le proprie certezze. Per questi pochi, vale la pena di parlare e anche di scrivere. Quanto agli altri, tutto quel che si può fare per loro è di mettergli una salutare pulce nell’orecchio. E poi, che Dio li aiuti.»
«Tanto per restare in tema. Dal momento che sai che non credo in Dio…»
Questa volta sono io a strizzarle l’occhio con aria complice: «Appunto. Ma forse sei meno atea di quello che non t’immagini….»
A questo punto Sabina scoppia in una cordiale risata: «No, per carità: a ciascuno il suo mestiere. Anche perché, se io diventassi credente, allora scommetto che tu subito diventeresti ateo; proprio per preservare l’equilibrio dello yin e dello yang, la “coincidentia oppositorum”.»
«Ottimo: vedo che hai afferrato in pieno il concetto.»